ritratto presunto di Menandro, Pompei |
Nella commedia di Menandro, Dyskolos, l’anziano
protagonista Cnemone è diventato misantropo - Knhvmwn,
ajpanqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra (v. 6), un uomo che si è escluso del tutto dagli uomini constatando
l’opportunismo e l’egoismo della gente la cui presenza gli è diventata
isopportabile.
Quando il servo e l’amico di Sostrato, il ragazzo innamorato della figlia
del vecchio, si avvicinano per parlargli lo sentono gridare con viso accigliato
"quanto era beato Perseo per
due ragioni:
poiché aveva le ali
e non si incontrava nessuno di quelli che
camminano per terra,
poi perché possedeva un arnese con il quale
trasformava in pietre tutti gli scocciatori".
Si ricorderà che Perseo aveva sandali alati e che impietrava i nemici con
la testa della Gorgone.
Cnemone vorrebbe essere come quel figlio di Zeus :
"Cosa che vorrei capitasse
pure a me! Non ci sarebbe niente di più
abbondante
che le statue di pietra da tutte le parti!".
Il vecchio insomma non sopporta di vedere la gente né di sentirla parlare:
"Non si può più vivere, per
Asclepio.
Mettono piede nel mio podere e fanno chiacchiere
(“lalou's j”) (vv. 153 - 161).
Nel corso della commedia però Cnemone capisce che l’autarchia cui aspirava
non è possibile, e, arrivato - come certi personaggi della tragedia - a capire
attraverso la sofferenza, dà una spiegazione della genesi del proprio
isolamento volontario da sordido anacoreta.
"In una cosa probabilmente ho
sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene
allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino,
uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro
calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to;
kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a
un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia[1] con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo
nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai
in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con
gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci
avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un
piacere?
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e
quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a
te:
procurale un marito. Io, anche se fossi del tutto
sano,
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi
piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come
voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai)" (vv. 713
- 735).
Nella tragedia di Sofocle Filottete il protagonista depreca la
propria solitudine coatta e desolata: abbandonato su un'isola deserta, lamenta
di essere movno" (v. 227), e[rhmo" (…) ka[filo" (v. 228) solo, abbandonato e senza amici.
Kierkegaard in Enten Eller, nota che" il mondo antico non
aveva la soggettività riflessa in sé. Benché si muovesse liberamente,
l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato,
nella famiglia, nel fato (…) La riflessione di Filottete non si sprofonda in se
stessa, ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno sia a conoscenza
del suo dolore. Si ha qui una grande verità, e proprio qui si vede anche la
differenza con il vero e proprio dolore riflessivo, che sempre desidera d'esser
solo con il suo dolore, e che nella solitudine di questo dolore cerca sempre un
nuovo dolore"[3].
La scelta della solitudine , condannata come disumana da Omero
(nell’episodio del Ciclope) a Menandro, più avanti, con la degenerazione
brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in "turba ",
folla fastidiosa e fuorviante, diventerà non solo dignitosa ma necessaria.
Prendiamo Seneca che
tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia omicidi veri e
propri, commenta:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo
vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui ", torno a
casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano
proprio perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio
allora è:"recede in te ipse quantum potes ",
rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca
Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge
multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca
saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i
pochi, evita anche uno solo.
Vediamo il misantropo Timone
Plutarco nella Vita di Alcibiade (16) racconta che Tivmwn oJ misavnqrwpo~ , mbattutosi un giorno in Alcibiade che tornava dall’assemblea
popolare soddisfatto per un successo, non lo scansò come era solito fare con
gli altri, ma anzi gli andò incontro, gli strinse la destra e gli disse: “fai
bene ragazzo a crescere in potenza: mevga ga;r au[xei kako;n a{pasi
touvtoi~, così
accresci di molto il male a tutti questi.
Nel Timone
d'Atene (1607) di Shakespeare il protagonista diventato misantropo per l’ingratitudine umana dice: All’s
obliquy; - there is nothing level in our cursed natures - but direct
villainy. Therefore be abhorred - all feasts, societies, and throngs of men - His
semblabl yea himself, Timon disdains - Destruction fang mankind. IV, 3, 18 - 24), tutto è storto, non c’è niente di diritto nella nostra
natura maledetta, se non la malvagità diretta al male. Perciò sono da detestare
tutte le feste, compagnie e folle di uomini. Timone disprezza il suo simile,
anzi se stesso. Che la distruzione azzanni l’umanità.
Un'eco in Nietzsche:
“c'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente
sofferto per la moltitudine”[4]. E poi: “ogni compagnia è cattiva, ad
eccezione di quella con i propri simili”[5].
Des Esseintess di Huysmans desidera la lontananza dalla “sconcia folla”.
“Non meno d’un eremita, egli era maturo per l’isolamento, affranto
dalla vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d’un monaco, sentiva
un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più
nulla in comune col prossimo: composto, ai suoi occhi, di profittatori e
d’imbecilli. Insomma (…) nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude
in un convento, per il monaco perseguitato da un’astiosa società che non gli
perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà ch’egli
professa di riscattare, d’espiare col silenzio la sempre crescente sfacciataggine
dei suoi vaniloqui stupidi e assurdi”.[6]
C. Pavese scrive
:"Maturità è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di
vivere , 8 dicembre 1938). E più avanti (15 ottobre, 1940):"Ci
sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli
soli soli". E infine (25 aprile 1946):"Ogni sera, finito l'ufficio,
finita l'osteria, andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di
essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano". E' pur vero che questo
nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950.
Torno a Cnemone e concludo. Il misantropo di Menandro, quando vede Sostrato
davanti alla porta di casa, invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la
solitudine da nessuna parte!" ( ejrhmiva"
oujk e[stin oujdamou' tucei'n, Duvskolo", v.169).
CONTINUA
[1] Il figlio di primo letto della
moglie. I due avevano lasciato Cnemone che viveva con la figlia e una vecchia
serva
[2] Si rivolge a Gorgia.
[3] Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo
secondo, p24 e pp.33 - 34.
[4] Ecce homo, Perché sono
così accorto, 10
[5] Di là dal bene e dal male,
Lo spirito libero, 26.
[6] A Rebours (1884), capitolo I e
capitolo V
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