Attraverso
la sofferenza si può arrivare a capire
In certi
casi la sofferenza causata dal non avere capito può condurre alla
resipiscenza e alla comprensione come leggiamo nella parodo
dell’Agamennone
Zeus,
chiunque egli sia, se è questo il nome
Con
cui gli è caro essere invocato,
così
a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur
tutto attentamente vagliando,
tranne
Zeus, se veramente si deve gettar via
il
peso della follia dal proprio pensiero (vv. 160 - 166).
E
poco più avanti:
Ma
chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà
pienamente la saggezza.
A
Zeus che ha avviato i mortali
A
essere saggi, che ha posto come valida legge
attraverso
la sofferenza la comprensione tw'/
pavqei mavqo" 177.
Invece
del sonno stilla davanti al cuore
un’angoscia
memore di dolori:
anche
a chi non vuole arriva l’essere saggio (174 - 181).
Nell’ultima
antistrofe il coro riassume:
Divka
de; toi'" me;n paqou'sin maqei'n ejpirrevpei”
(Agamennone,
vv. 250 - 251), Giustizia fa imparare a quelli che hanno sofferto.
Alcuni
però non imparano dal dolore. Altri non imparano in tempo.
Impara
il vedovo di Alcesti, Admeto che ha chiesto alla moglie di
sostituirlo nella morte. Ma, ottenuta la sopravvivenza, soffre la
desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n
diavxw bivoton: a[rti manqavnw",
condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In seguito, come si
sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
“Si
diventa morali appena si è infelici (…) I castighi si crede di
evitarli, perché stiamo attenti alle carrozze quando si attraversa
la strada, perché evitiamo i pericoli. Ma ve ne sono di interni.
L’incidente viene dalla parte cui non si pensava, dal di dentro,
dal cuore”[1].
Torniamo
al dramma antico.
Il Duvskolo" di
Menandro, il vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una
caduta nel pozzo, comprende che nessuno è tanto autosufficiente da
potere vivere senza l'aiuto del prossimo, e deve ammettere:" e{n
d j i[sw" h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn wj/ovmhn -
aujto;" aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j
oujdenov""
(vv.713 - 714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di
essere il solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di
nessuno. In Menandro dunque rimane vigente la legge tragica per la
quale attraverso le proprie sofferenze si impara e si diventa più
comprensivi:"non si può dire che mavqo" non
ci sia stato (...) Il paradigma in funzione esemplare è
evidente"[3].
La
resipiscenza non può essere tardiva: nell’esodo delle Baccanti di
Euripide Dioniso rinfaccia a Cadmo il fatto di essere stato
rivonosciuto quale dio “tardi” (o[y j
ejmavqeq j hJma'", 1345)
Non
comprendere crea dolore e morte
Nelle Troiane,
la maniva di Cassandra, più
saggia della sapienza del mondo, dichiara che chi ha senno deve
evitare la guerra: “feuvgein me;n oun crh;
povlemon o{sti~ eu\ fronei`” (v. 400). La guerra di Troia è
stata e sarà luttuosa per i vincitori quanto e più che per i
vinti.
Comprende
è funzionale ad accettare e valorizzare il destino.
Nel Fedone di
Platone Socrate poco prima di bere la cicuta dice a Simia che in
questa vita bisogna fare di tutto per partecipare dell’intelligenza
e della virtù, poiché il premio è bello e la speranza è grande -
pa'n poiei'n w{ste ajreth'" kai;
fronhvsew" ejn tw'/ bivw/ metascei'n : kalo;n ga;r to; a\qlon
kai; hj ejlpi" megavlh (114 c).
Può
essere rischioso credere nell’immortalità dell’anima, però
ne vale la pena: infatti il rischio è bello kalo;"
ga;r oj kivnduno" (114d). Dopo avere bevuto la
cicuta non resterò tra voi ma partirò andando
verso certe felicità dei beati (ajll
j oijchvsomai ajpiw;n eij" makavrwn dhv tina"
eujdaimoniva"115d)
Fate
capire a Critone che quando sarò morto, non sarò io a
essere sepolto. Bisogna essere esatti nell’uso del linguaggio
poiché non parlare bene non solo è una stonatura ma fa anche male
all’anima: "euj
ga;r i[sqi (…) a[riste Krivtwn,
to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to
plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'""
(115 e) sappi bene (…) ottimo Critone che parlare male non è solo
una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Epicuro
nell’Epistola a Meneceo afferma: “to;
mevgiston ajgaqo;n frovnhsi"” (132, 5), il massimo bene
è la saggezza, perciò è un bene più prezioso della filosofia la
saggezza dio; kai; filosofiva"
timiwvteron uJpavrcei frovnhsi", dalla quale derivano
tutte le altre virtù, ejx h|" aiJ
loipai; pa'sai pefuvkasin ajretaiv, in quanto essa insegna che
non è possibile vivere felicemente senza vivere assennatamente nella
bellezza e nella giustizia didavskousa
wJ" oujk e[stin hjdevw" zh'n a[neu tou' fronivmw" kai;
kalw'" kai; dikaivw" (A Meneceo,
132)
Capire
significa anche amare.
“Non
c’è peccato peggiore, nel nostro tempo, che quello di rifiutarsi
di capire: perché nel nostro tempo non può scindersi l’amare dal
capire. L’invito evangelico che dice “ama il prossimo tuo come te
stesso” va integrato con un “capisci il prossimo tuo come te
stesso”. Altrimenti l’amore è un puro fatto mistico e
disumano”[5].
“Intelligenza
e indulgenza apparivano a Giuseppe due pensieri strettamente affini,
reciprocamente scambievoli e portatori perfino di un nome comune:
bontà”[6].
“Questo
è, infatti, il modo di comportarsi e addirittura il contrassegno
dell’uomo buono, che egli si accorge con saggia reverenza del
divino, il che avvicina bontà e intelligenza, anzi propriamente le
fa apparire una cosa sola”[7].
La
felicità dunque consiste nella conoscenza da intendere più come
sapienza che come sapere.
Mazzarino mette
in rilievo che nell'opera di Erodoto è ricorrente il quesito:"Son
felici il ricco e il monarca? (...) A questa domanda rispondono i
discorsi tra Creso e Solone (...) anche Anassagora si sforzava di
rispondere alla stessa domanda (...) secondo Anassagora il dotto
soprattutto era felice"[8].
In
questo caso si tratta forse più di sapere che di sapienza.
Euripide
nelle Baccanti mette in rilievo la distinzione
tra to; sofovn e sofiva (v.
395)
Leggiamo
tutta la prima antistrofe del primo stasimo
“Di
bocche senza freno
di empia
stoltezza
il
termine è sventura;
mentre
la vita
della
tranquillità e il comprendere - to;
fronei'n -
rimangono
al riparo dai flutti
e
tengono unite le case: da lontano infatti i celesti,
pur
abitando l’etere,
vedono
comunque i fatti dei mortali.
Il
sapere non è sapienza - to; sofo;n d j
ouj sofiva -
e la
pretesa di comprendere fatti non mortali - tov
te mh; qnhta; fronei'n - .
Breve è
la vita: per questo
uno che
insegue grandi fantasie
non può
conseguire quello che c’è. Questa
è
l’attitudine secondo me di uomini
dissennati
e sconsigliati” (Baccanti, 387 - 402
Nel
quarto stasimo
Il coro
torna a smotare to; sofovn dicendo
che non è invidiabile.
Beni
grandi sono la bellezza, l’eujsevbeia e
la giustizia
“Rimanere
nell’umano è una vita senza dolore.
Il
sapere non lo
invidio.
Mi
piace ricercare; ma altri sono i beni grandi
e
manifesti: oh vorrei che la vita scorresse verso la bellezza,
giorno e
notte essere pio
mantenendo
la purezza, onorare gli dèi
respingendo
le norme estranee alla giustizia” (Baccanti, 1004 -
1010).
La sofiva è
lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica:"
la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta
suprema, in luogo della scienza, la sapienza".
La sofiva è
femminile e produce, incrementa la vita. To;
sofovn è
neutro e non può farlo. Il sapere è il fine
dell'uomo teoretico il quale " si spaventa delle conseguenze da
lui prodotte e, insoddisfatto, non osa più affidarsi al terribile
fiume ghiacciato dell'esistenza: angosciosamente egli
corre su e giù lungo la riva"[9] .
In Ecce
homo del 1888 Nietzsche fa una contrapposizione: “da
una parte l’istinto degenerante che si rivolta
contro la vita con rancore sotterraneo ( - il cristianesimo, la
filosofia di Scopenhauer, in un certo senso già la filosofia di
Platone, tutto l’idealismo ne sono forme tipiche - ) e dall’altra
una formula della affermazione suprema, nata dalla
pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza riserve, al dolore
stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l’esistenza ha di
problematico e di ignoto (…) Quest’ultimo, gioiosissimo,
straripante - arrogantissimo sì alla vita non solo è la visione
suprema, ma anche la più profonda (…) La conoscenza, il dire sì
alla realtà, è una necessità per il forte, così come lo è per il
debole, per ispirazione della debolezza la viltà, la fuga dalla
realtà - l’ideale (…)
La
conoscenza non è permessa a loro; per i décadents la
menzogna è necessaria –è una condizione della loro vita”[10]
Vale
la pena di riferire a questo proposito alcune parole di T.
Mann:"A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta
la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di
Dioniso"[11].
Eliot
affermava: "Qual è la conoscenza che noi perdiamo
nell'informazione e qual è la sapienza (wisdom)
che perdiamo nella conoscenza?"[12].
Ma
leggiamo direttamente u versi di T. S. Eliot:
“Knowledge
of speech, but not of silence
Knowledge
of words, and ignorance of the Word
All
our knowledge brings us nearer to our ignorance,
All our ignorance brings us nearer to death,
But nearer to death no nearer to GOD.
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?”, (Choruses from “The Rock” , I, 9, 16[13].
All our ignorance brings us nearer to death,
But nearer to death no nearer to GOD.
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?”, (Choruses from “The Rock” , I, 9, 16[13].
conoscenza
del linguaggio ma non del silenzio, conoscenza delle parole e
ignoranza del Verbo. Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini
alla nostra ignoranza, tutta la nostra ignoranza ci porta più vicini
alla morte. Ma più vicini alla morte, non più vicini a Dio. Dov’è
la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo
perduto sapendo? Dovìè la sapienza che abbiamo perduto
nell’informazione?
Platone nel Gorgia (470e) fa
dire a Socrate di non sapere se il gran re dei Persiani sia felice
poiché non sa come stia quanto a paideia e a giustizia:"ouj
ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh" ;
quindi, a Polo che lo incalza, chiedendogli se la felicità consista
in questo, risponde che l'uomo e la donna sono felici quando sono
belli e buoni; quando sono ingiusti e malvagi invece sono infelici.
Giuliano
Augusto alla fine della preghiera A Elios re chiede
al Sole come ricompensa del suo zelo - ajnti;
proqumiva" - di essergli propizio
- moi eujmenh' genevsqai - e accordargli una vita
virtuosa, una più compiuta sapienza e una intelligenza divina, e
infine, nell’ora separazione predestinata, la ajpallaghvn
te eijmarmevnhn - di lasciare la vita in tutta serenità e
ascendere a lui (158b).
Ma
nella tragedia greca troviamo anche l’opinione contraria ed è
questa presenza dei dissoi;
lovgoi, dei discorsi contrapposti,
dei due punti di vista e del considerare tutto in maniera
problematica che fa nascere e potenzia il nostro spirito critico.
Nella tragedia Aiace di
Sofocle il Telamonio caduto in rovina prende in braccio il figlio
bambino e dice che lo invidia per l’incoscienza delle sventure data
l’età
Infatti,
aggiunge, “ejn tw'/ fronei'n ga;r
mhde;n h{disto" bivo" - to; mh; fronei'n ga;r kavrt j
ajnwvdunon kakovn”, nel non intendere
nulla la vita è dolcissima, poiché il non intendere è
davvero un male senza tormento (554 - 554b)
Conosci
te stesso e diventa quello che sei!
Segnalo
una non conoscenza che è nello stesso tempo non sapienza ed
è sempre causa di infelicità.
Il
secondo coro del Tieste di Seneca (cfr.
v. 542 - 544) conclude anteponendo alla vita dell'uomo famoso e di
potere quella del privato e augurandosi di morire ignoto agli altri,
ma noto a se stesso:"me dulcis saturet quies:/obscuro positus
loco,/leni perfruar otio;/nullis nota Quiritibus/aetas per tacitum
fluat./Sic cum transierint mei/nullo cum strepitu dies,/plebeius
moriar senex./Illi mors gravis incubat,/qui, notus nimis
omnibus,/ignotus moritur sibi " (Thyestes, vv.
393 - 403), mi sazi una dolce tranquillità: rifugiato in un luogo
sconosciuto, possa godere di un dolce tempo tutto per me; la mia vita
trascorra in silenzio sconosciuta a tutti i cittadini. Così quando
saranno passati i miei giorni senza chiasso alcuno, morirò vecchio
uno dei tanti. La morte pesa grave su chi troppo noto a tutti, muore
ignoto a se stesso.
Nel
secondo episodio delle Baccanti Dioniso dice a
Penteo
“Non
sai che vita vivi, né quello che fai, né chi sei” (v. 506).
Penteo
fornisce i suoi dati burocraticamente
“Penteo,
figlio di Agave e mio padre è Echione” (507)
Quindi
Dioniso interpreta il nomen con
l’omen del dolore: Penqeuv" preannuncia
il dolore (pevnqo") dell’uomo
predestinato a penare penqei'n.
“Sei
adatto a essere un disgraziato secondo il nome” (508).
Precedentemente,
alla fine del primo episodio, Tiresia aveva detto a Penteo:
Disgraziato!
Come non sai quello che dici!
Oramai
sei diventato pazzo; e già prima eri uscito di senno (Baccanti,
358 - 359)
Poi a
Cadmo:
Che
Penteo non porti pena - Penqeu;" d
j o{pw" mh; pevnqo" eisovsei - nella
casa
tua,
Cadmo: non parlo profeticamente,
ma
secondo i fatti: poiché quello è folle e dice follie (Baccanti,
367 - 369).
L’ignoranza
della propria identità dunque è la più grave. Talora
serve a procrastinare il dolore, aggravandolo, mai a
risolverlo
Nell’Edipo
re Tiresia, minacciato da Edipo replica con questo
avvertimento maleominoso
"E
dico, poiché mi hai rinfacciato anche la cecità:/tu, pur se guardi
fisso, non vedi dove sei nel male/né dove abiti, nè con chi dimori
(vv. 412 - 415).
“Il
problema dell’identità e dell’origine segna il destino di Edipo
che sarà condotto suo malgrado a scoprirsi altro da ciò che
immaginava. Nel caso di Penteo, la crisi dell’identità è diretto
prodotto dello scontro con Dioniso che fa deflagrare ogni certezza e
ogni pretesa di coerenza del suo interlocutore. E’ rilevante che
Dioniso riattivi il modello del Tiresia sofocleo e che insieme si
trovi in una posizione corrispondente al Tiresia del precente
episodio del dramma: se l’indovino aveva ammonito Penteo, qui il
dio completa, con una maggiore e diversa autorevolezza, l’annuncio
della catastrofe che non mancherà di punire la cecità del
sovrano”[14].
La
conoscenza di se stesso dunque è un preliminare della
felicità ed è un presupposto della definizione e del potenziamento
dell’identità: “quella moltiplicazione di noi stessi che è la
felicità”[15].
I
gradini dunque possono essere: conosci te stesso gnw`qi
sautovn[16],
diventa quello che sei[17],
accresci quello che sei diventato.
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[3]C.
Del Grande, Tragw/diva, p.
214.
[16] Il
dialogo Carmide di
Platone verte sulla swfrosuvnh,
e il personaggio Crizia ne dà questa definizione: “fhmi
ei\nai swfrosuvnhn, to; gignwvskein eJautovn”,
assennatezza è conoscere se stessi, e l’iscrizione di Delfi
corrisponde a un Cai`re,
un salve, un saluto del dio (164d). Nel Protagora (343
a - b). le scritte delfiche Gnw`qi
sautovn,
“Conosci te stesso, e Mhde;n
a[gan, “Nulla
di troppo”, sono esempi di una scuola che ammirava la
paideia spartana e ne impiegava lo stile brachilogico.
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