io durante una lezione estiva |
A proposito
dell’esame di maturità
In diversi
anni passati ho fatto parte della commissione che sceglieva i brani
di greco e quelli di latino per la seconda prova scritta dell’esame di maturità
al liceo classico. Ci convocava e coordinava l’ispettore Luciano Favini.
Il 31
gennaio 2019 leggevo su “la Repubblica” (p. 18) queste parole del ministro
Marco Bussetti il quale risponde all’intervistatore che gli ha donandato se
serva ancora questa maturità.
“ Certo che
serve. Dobbiamo insegnare ai ragazzi ad affrontare le prove, a faticare per
superare la crisi, altrimenti non cresceranno mai. La vità dà problemi e ti
chiede di risolverli”.
Approvo
queste parole e posso farlo senza che si possa pensare a piaggeria dato che
sono in pensione dal 2010 e non faccio più parte di alcuna commissione
ministeriale. Le approvo dunque e le confermo con il terzo capitolo della mia
metodologia che ho elaborato negli anni (2000-2010) in cui insegnavo, a
contratto, didattica della letteratura greca come supervisore nella SSIS
dell’Università di Bologna.
Questa
metodologia, che mi capita ancora di presentare in conferenze tenute in
biblioteche, licei e università, si trova intera nel
Punto
Edu Neoassunti Indire. Metodologia per l’insegnamento del greco e del
latino.
Si
trova pure in Essere e Divenire del “Classico”. Atti
del Convegno Internazionale (Torino-Ivrea 21-22-23 Ottobre 2003). L’arte
dei luoghi nella didattica del latino (pp. 241-256). Utet, Torino,
2006.
La mia
metodologia in 70 capitoli propone e insegna oltretutto il metodo comparativo
che si addice a un brillante superamento della seconda prova.
Il metodo
comparativo fornisce topoi utilizzabili in tutte le prove.
Nel De inventione Cicerone aveva definito i loci
communes: "argumenta quae transferri in multas causas possunt"
(2, 48), argomenti che si possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti
del parlare e dello scrivere.
3. Elogio della tradizione e necessità della fatica. Povno~ e labor. Esiodo. Sofocle. Eracle al
bivio. Orazio. Il sogno di Alessandro Magno in Arriano. Il discorso
del condottiero macedone sul fiume Ifasi. Alessandro avrebbe procurato fatica
anche ai poeti. Dante e il “poema sacro”. Machiavelli e il dovere di “insudare
nelle cose”. Leopardi e il prezzo di un’opera egregia (Il Parini ovvero della gloria).
L'autore
di La terra desolata in un precedente scritto di critica[1] aveva
pure affermato che la tradizione non è un patrimonio che si eredita
ma, "if you want it, you must obtain it by great labour ",
se uno vuole impossessarsene, deve conquistarla con grande fatica.
Questa è una
dichiarazione topica: Esiodo dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore:
"th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi;
propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla
mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n
eujtucei'''" (v.
945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[2] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa
Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica
e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu
povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172):
“quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~
ajgaqovn, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo
mio!”
Si assiste a
un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche altre. “Tipico
atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata una forma, essa rimane
valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni elemento nuovo deve
cimentarsi con essa”[3].
Sappiamo che
la cultura greca non si limita ai Greci.
In
tutt'altro contesto, il garrulus che attenta alla vita
di Orazio gli fa:
" nihil sine magno/vita labore dedit mortalibus"[4],
niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.
Alessandro
Magno, che si riteneva discendente di Achille e di Eracle, quando si preparava
ad assediare Tiro (estate del 332 a. C.), sognò che Eracle stesso lo
introduceva in città. L’indovino Aristandro interpretò la visione onirica
dicendo che Tiro sarebbe stata presa “xu;n povnw/…o{ti kai; ta;
tou` JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/ ejgevnetw. Kai; ga;r kai;
mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva ejfainevto”[5] con fatica… poiché anche le imprese
di Eracle erano avvenute con fatica. E in effetti anche l’assedio di Tiro si
presentava come una grande impresa.
Quando, giunti al fiume Ifasi[6], i soldati di Alessandro Magno, si
rifiutarono di attraversarlo e di procedere verso il Gange, il condottiero
macedone, per convincere l’esercito esausto a proseguire, parlò ai soldati
dicendo: “Pevra~ de; tw`n povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh;
aujtou;~ tou;~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin” (Anabasi di Alessandro, 5,
26, 1), il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro che
le fatiche stesse, quante di esse li portano a grandi imprese”. Ma non riuscì a
convincere quella gente stremata.
Alessandro
Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e, ovviamente, le
impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti: Arriano racconta che dopo
la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire per la sua spedizione, il
giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora gli fu annunciato
che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava continuamente; quindi
l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta di Alessandro sarebbe
costato polu;~ povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2-3)..
Dante mette
in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa della sua
Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo e terra/sì che m’ha
fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1-3).
Machiavelli nota
che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella vita
umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare molto nelle cose, ma
lasciarsi governare dalla sorte”.
Il
segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero
arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre
della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra
metà, o presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi…dimostra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti,
dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non
bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “ quel principe che
s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia” (Il
principe, 25).
Leopardi nell’Operetta
morale Il Parini ovvero della gloria[7] immagina
che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore incredibile ai
buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”, e gli dica che pochi sono capaci
di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto scrivere”. Chi non
intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori
sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “ Or vedi a che si riduca il
numero di coloro che dovranno potere ammirarli e saper lodarli degnamente,
quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a
produrre un’opera egregia e perfetta”.
giovanni
ghiselli
[2] Scritto
socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto,
rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita
pratica
Quanta ricchezza, Giovanni, di erudite citazioni e fulminanti rimandi! Complimenti!
RispondiEliminaTi rubo dai "loci communes" una possibile sintesi del tuo pensiero.
Per aspera ad Astra.