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giovedì 20 giugno 2019

L'esame di maturità. Elogio della fatica. Il metodo comparativo

io durante una lezione estiva

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A proposito dell’esame di maturità

In diversi anni passati ho fatto parte  della commissione che sceglieva i brani di greco e quelli di latino per la seconda prova scritta dell’esame di maturità al liceo classico. Ci convocava e coordinava l’ispettore Luciano Favini.
Il 31 gennaio 2019 leggevo su “la Repubblica” (p. 18) queste parole del ministro Marco Bussetti il quale risponde all’intervistatore che gli ha donandato se serva ancora questa maturità.
“ Certo che serve. Dobbiamo insegnare ai ragazzi ad affrontare le prove, a faticare per superare la crisi, altrimenti non cresceranno mai. La vità dà problemi e ti chiede di risolverli”.
Approvo queste parole e posso farlo senza che si possa pensare a piaggeria dato che sono in pensione dal 2010 e non faccio più parte di alcuna commissione ministeriale. Le approvo dunque e le confermo con il terzo capitolo della mia metodologia che ho elaborato negli anni (2000-2010) in cui insegnavo, a contratto, didattica della letteratura greca come supervisore nella SSIS dell’Università di Bologna.
Questa metodologia, che mi capita ancora di presentare in conferenze tenute in biblioteche, licei e università, si trova intera nel
 Punto Edu Neoassunti Indire. Metodologia per l’insegnamento del greco e del latino.
 Si trova pure  in Essere e Divenire del “Classico”. Atti del Convegno Internazionale (Torino-Ivrea 21-22-23 Ottobre 2003). L’arte dei luoghi nella didattica del latino (pp. 241-256). Utet, Torino, 2006.

La mia metodologia in 70 capitoli propone e insegna oltretutto il metodo comparativo che si addice a un brillante superamento della seconda prova. 

Il metodo comparativo fornisce topoi utilizzabili in tutte le prove. Nel De inventione Cicerone aveva definito i loci communes: "argumenta quae transferri in multas causas possunt" (2, 48), argomenti che si possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare e dello scrivere.

3. Elogio della tradizione e necessità della faticaPovno~ e laborEsiodo. Sofocle. Eracle al bivio.  Orazio. Il sogno di Alessandro Magno in Arriano. Il discorso del condottiero macedone sul fiume Ifasi. Alessandro avrebbe procurato fatica anche ai poeti. Dante e il “poema sacro”. Machiavelli e il dovere di “insudare nelle cose”. Leopardi e il prezzo di un’opera egregia (Il Parini ovvero della gloria).

 L'autore di La terra desolata in un precedente scritto di critica[1] aveva pure  affermato che la tradizione non è un patrimonio che si eredita ma, "if you want it, you must obtain it by great labour ", se uno vuole impossessarsene, deve conquistarla con grande fatica.
Questa è una dichiarazione topica: Esiodo  dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
 Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.

 Nei Memorabili[2] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”   
Si assiste a un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche altre. “Tipico atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni elemento nuovo deve cimentarsi con essa”[3].
Sappiamo che la cultura greca non si limita ai Greci.

 In tutt'altro contesto, il garrulus che attenta alla vita di Orazio gli fa: " nihil sine magno/vita labore dedit mortalibus"[4], niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.

 Alessandro Magno, che si riteneva discendente di Achille e di Eracle, quando si preparava ad assediare Tiro (estate del 332 a. C.), sognò che Eracle stesso lo introduceva in città. L’indovino Aristandro interpretò la visione onirica dicendo che Tiro sarebbe stata presa “xu;n povnw/o{ti kai; ta; tou`   JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/ ejgevnetw. Kai; ga;r kai; mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva ejfainevto[5] con fatica… poiché anche le imprese di Eracle erano avvenute con fatica. E in effetti anche l’assedio di Tiro si presentava come una grande impresa.
 Quando, giunti al fiume Ifasi[6], i soldati di Alessandro Magno, si rifiutarono di attraversarlo e di procedere verso il Gange, il condottiero macedone, per convincere l’esercito esausto a proseguire, parlò ai soldati dicendo: “Pevra~ de; tw`n povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh; aujtou;~ tou;~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin” (Anabasi di Alessandro, 5, 26, 1), il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro che le fatiche stesse, quante di esse li portano a grandi imprese”. Ma non riuscì a convincere quella gente stremata.

Alessandro Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e, ovviamente, le impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti: Arriano racconta che dopo la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire per la sua spedizione, il giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora gli fu annunciato che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava continuamente; quindi l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta di Alessandro sarebbe costato polu;~ povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2-3).. 
Dante mette in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa della sua Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo e terra/sì che m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1-3).

Machiavelli nota che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella vita umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte”.
 Il segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi…dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “ quel principe che s’appoggia  tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia” (Il principe, 25).

Leopardi nell’Operetta morale Il Parini ovvero della gloria[7] immagina che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”, e gli dica che pochi sono capaci di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto scrivere”. Chi non intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “ Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarli e saper lodarli degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”.

giovanni ghiselli





[1] Tradition and the Individual Talent (del 1919)Tradizione e talento individuale.
[2] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[3] W. Jaeger, Paideia  1, p. 191.
[4] Sermones, I, 9, 59-60-
[5] Arriano (età di Traiano e di Adriano), Anabasi di Alessandro, 2, 18, 1.
[6] Nell’estate del 326 a. C.
[7] Scritta nel 1824, pubblicata nel 1827.

1 commento:

  1. Quanta ricchezza, Giovanni, di erudite citazioni e fulminanti rimandi! Complimenti!

    Ti rubo dai "loci communes" una possibile sintesi del tuo pensiero.

    Per aspera ad Astra.

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