Strabone |
Eudaimonìa
Essere
felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas, una
specie di imitatio Dei, di assimilazione a Dio[1]: "Gli
uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire
ancor meglio quando sono felici (eâ mn g¦r e‡rhtai kaˆ toàto, toÝj ¢nqrèpouj
tÒte m£lista mime‹sqai toÝj qeoÝj Ótan eÙergetîsin· ¥meinon d' ¨n
lšgoi tij, Ótan eÙdaimonîsi"[2].
L’attrice
Delia Moreno della commedia di Pirandello Ciascuno a suo
modo sostiene che può amare l’umanità solo chi è contemto di se
stesso:"Sapete che cosa significa "amare l'umanità"? Soltanto
questo:"essere contenti di noi stessi". Quando uno è contento di se
stesso "ama l'umanità"[3].
Viene in mente l’eujdaimoniva, il buon rapporto con il proprio carattere.
Cfr. Eraclito: “h\qo~ ajnqrwvpw/
daivmwn (fr. 91 Diano), il carattere è il destino
del’uomo
A questo
proposito cito alcuni versi delle Baccanti di Euripide
Nella parodo
le menadi cantano:
O beato
chi d’accordo con se stesso w\ mavkar
o{sti" eujdaivmwn
conoscendo i
misteri degli dèi,
santifica la
vita ed
entra nel
tiaso con
l’anima, 75
baccheggiando
nei monti
con sacre
purificazioni
e celebrando
secondo il rito
le orge
della grande madre Cibele
alto
scuotendo il
tirso, 80
e incoronato
di edera
venera
Dioniso (vv. 73-82).
Dodds chiarisce che l’aggettivo mavkar describes
this happiness from the point of view of an observer, descrive questa
felicità dal punto di vista di un osservatore esterno, mentre eujdaivmwn (one of the key- words of the play), una delle parole chiave
della tragedia, “gives it from
the experient’s point of view, and suggests the reason for it (‘having a good daivmwn)”[4], la dà dal punto di vista di chi la prova
e ne suggerisce la ragione (siccome ha un buon demone)
Quindi il regius professor of Greek in the University of Oxford fa notare
che “such formulas of beatitude are traditional in
Greek poetry ”, tali formule di beatitudine sono tradizionali nella
poesia greca e fa alcuni esempi: Inno a Demetra (v.
480), Pindaro (fr. 121 Bowra) e Sofocle (fr. 837 Pearson), e fa
notare che mentre le altre promesse di felicità riguardano la prossima
vita “the happiness
which Dion. gives is here and now”[5], la felicità data da Dioniso è qui e ora.
Anche
secondo Leopardi è questa
la felicità cui aspira l’uomo: “La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità
temporale, una felicità materiale e da essere sperimentata dai sensi (…) una
felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e
di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non
sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la
perfezione e il fine dell’esistenza (…) Promettere all’uomo, promettere
all’infelice una felicità celeste, benché intera e infinita, e superiore senza
paragone alla terrena, e a’ piccoli beni che egli desidera, si è come a un che
si muor di fame e non può ottenere un pezzo di pane, preparargli un letto
morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori (…)
Osservisi che di due future vite, l’una promessa l’altra minacciata dal
Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior effetto di quella. E perché?
Perché ci s’insegna che nell’inferno (e così nel Purgatorio) avrà luogo la
pena del senso (…) E Dante che riesce a spaventare
dell’inferno, non riesce né anche poeticamente parndo, a invogliar punto del
paradiso”[6].
Platone
nel Timeo (90 c) scrive che è necessario sia soprattutto
felice quello che coltiva la parte divina qerapeuvnta to;
qei'on, e conserva
ordinato il demone, il genio che gli abita dentro “e[contav te
aujto;n eu\ kekosmhmevnon to;n daivmona suvnoikon eJautovn”.
Dobbiamo
correggere i circoli guasti della nostra testa imparando le circolazioni e le
armonie dell’universo.
Marco
Aurelio in A se stesso scrive: “Eujdaimoniva ejsti; daivmwn
ajgaqov" (VII, 17).
Henrik
Ibsen fa dire a Giuliano imperatore. “E che cos’è la felicità se non
il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il
leone ambisce avere artigli d’argento? O forse il melograno desidera che i suoi
chicchi siano altrettante pietre preziose?”[7].
Nella Augusti Vita di
Svetonio[8] leggiamo
che il primo imperatore, supremo die , l'ultimo giorno,
fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici
"ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99),
se a loro sembrasse che avesse recitato bene la farsa della vita,
quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle
commedie:" eij de; ti-e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato bene questo
scherzo applaudite.
Ancora
meglio l'uscita dalla vita di Pericle il quale, in punto di morte, disse che il
suo merito più bello e più grande era che nessuno dei cittadini Ateniesi aveva
dovuto portare il lutto per causa sua[9].
Qual è il
nesso con la felicità?
La
capacità di osservare ruoli, momenti, kairoiv diversi e di rispettare le
scelte, i caratteri degli altri, può aiutarci a comprendere quello che è il
nostro demone o carattere di fondo.
Ciascuno
di noi dovrebbe diventare quello che è, secondo il precetto pindarico[10],
magari quello che è via via. Dobbiamo insegnarlo ai nostri ragazzi perché non
si accontentino delle identità fasulle e gregarie suggerite dalla televisione.
La volontà di potenza non è in contrasto con la morale, se mira a realizzare il
"diventa quello che sei". Se non diventi quello che sei, diventi
quello che il potere vuole.
Per
diventare quello che era, l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere
sul mondo:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per
tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere
interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se
stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere
interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su
di un punto, li fissava come un ascesso"[11].
Si può anche non diventare mai uomini:"La vita di ogni uomo è una via
verso se stesso, il tentativo di una via, l'accenno di un sentiero. Nessun uomo
è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi
sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità…Certuni non diventano mai
uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto,
ma ognuno è una rincorsa della natura verso l'uomo"[12].
Noi
educatori non possiamo ignorare che ogni individuo ha un suo carattere e che
nessuno può riuscire bene se agisce in contrasto con il proprio genio:"nihil
decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura"[13],
nulla si addice contro il volere di Minerva, come dicono, cioè con
l'opposizione e la riluttanza della natura. Quindi ciascun giovane dovrebbe
essere aiutato a trovare e valorizzare la propria natura peculiare:"id
enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum"[14],
a ciascuno infatti soprattutto si addice quello che è soprattutto suo. Lo
afferma pure Carlo Martello nel cielo di Venere del Paradiso di
Dante"Ma voi torcete alla religione/tal che fia nato a cignersi la
spada,/e fate re di tal ch'è da sermone:/onde la traccia vostra è fuori
strada" (VIII, 146-148).
L'uomo
formato sui classici non può accontentarsi di un'identità gregaria: favorisce
il proprio demone, non ostacola quello degli altri.
Secondo il mito platonico di Er, molti di noi
dopo la morte dovranno tornare su questa terra, e a un certo punto saremo
invitati a sceglierci un'altra vita, un demone, ossia un carattere e un
destino, e di tale scelta rimarremo responsabili. Dice infatti l’araldo di
Lachesi, la vergine figlia di Ananche:"oujc uJma'" daivmwn lhvxetai,
ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (Repubblica , 617 e), non sarà il
demone a sorteggiare voi, ma voi sceglierete il demone. E subito dopo :"aijtiva
eJlomevnou", la
responsabilità è di chi ha fatto la scelta. Una
scelta influenzata dalle vite passate e limitata solo dal
turno della scelta . Aiace per esempio si scelse la vita di un leone per il
ricordo del giudizio delle armi, Agamennone quella di un'aquila per avversione
al genere umano. Odisseo, guarito da ogni ambizione per il
ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e tranquillo
("bivon ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"", 620c).
Qual è il nesso con il nostro discorso? Che l'uomo tornato sulla
terra deve fare quello che gli si addice, essere coerente con quella scelta,
dimenticata del resto per avere bevuto l'acqua dell'Amelete. Se recalcitra al
suo destino, soffre.
Durante
la vita terrena "ci resta accanto un compagno, una specie di
angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che
in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che
inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il
mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima…Lei
ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di
fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[15].
CONTINUA
[2] Strabone (64 ca a. C.-24 ca d.
C.), Geografia, X, 3, 9.
[8] 70 ca-140 ca d. C.
[10] "gevnoio
oi|o"\\\\\\\\\\\\\\\\|||||||||||\\\\\\\\\\\ ejssiv" (Pitica II v.
72), diventa quello che sei.
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