Avendo avuto molte richieste, ripubblico l'incipit e rendo disponibile l'intero scritto (25 pagine) in PDF. Lo invierò comunque via email a chi lo desideri:
Percorso della conferenza tenuta il 26 gennaio 2019
per la Valent Academy, Centro studi internazionali di Milano con la
partecipazione di studenti e professori del liceo Manzoni
L’approccio comparativo alle letterature antiche
Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle
lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico.
Non conoscere il latino significa cecità o almeno
debolezza di vista linguistica.
“L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che
si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai
limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni
passi più in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si
stende assai lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e
l'antichità. Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor
più l'orizzonte. Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche
se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo
il radicale dell'acido di spato di fluoro"[1].
Un aspetto del mio metodo è “autorizzarlo” con
citazioni da opere note di reputati autori di altre discipline che magari allo
studente potrebbero piacere di più.
Si veda un ancora più esplicito svuotamento della
sofiva tecnologica nel discorsodi Diotima del Simposio platonico:
"kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev,
a[llo ti sofo; " w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva"
tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in
tali rapporti[2] è un uomo demonico, quello invece che
si intende di qualcos' altro, o di tecniche o di certi mestieri, è un facchino.
Avvicino, forse non arbitrariamente, quanto scrive
Hegel nella Fenomenologia dello spirito: “il signore si rapporta
alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo invece “col suo
lavoro non fa che trasformarla”[3]. Vero è che attraverso il lavoro del
servo e il suo rapporto diretto con la realtà, avviene un rovesciamento dialettico.
Secondo Hegel in termini di coscienza. Lavorando il servo giunge alla
consapevolezza, alla coscienza di sé e del mondo oggettivo.
La servitù una volta compiuta diventerà il contrario
di quello che è immediatamente. Diventata autocoscienza la servitù si
trasformerà nel proprio rovescio. Marx utilizzerà questa dialettica servo - signore
come chiave di lettura dell’intera storia che è storia di lotta di classi.
Replico che l’autocoscienza, il conosci te stesso, si
raggiunge pure e magari anche più profondamente attraverso la lettura e la
comprensione dei classici antichi e moderni.
Lo studio dei classici serve ad accrescere la nostra
umanità
Perché studiare il greco e il latino, potrebbe
chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono: "a niente;
non sono servi di nessuno; per questo sono belli"[4].
Non è questa la nostra risposta. Se e vero che le
culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non
passano mai di moda, è pure certo che la loro forza e impiegabile in qualsiasi
campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è
animale linguistico.
Il greco e il latino servono alle relazioni umane,
quindi all’umanità e alla civiltà: accrescono le capacità comunicative che sono
la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua
italiana più e meglio di chi non li conosce[5].
Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
Sa volere bene e amare più e meglio di chi non li conosce. Studiando e
comprendendo il greco e il latino si diventa più umanisti e più umani. Voglio
anticipare qui esempi che fanno vedere con chiarezza la coincidenza e
l’identificazione di umanesimo con amore per l’umanità. L’umanesimo è prima di
tutto amore dell’umanità.
l'Antigone di Sofocle dichiara il suo amore per
l'umanità dicendo a Creonte: "ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n
e[fun", (v. 523), io non sono nata per condividere
l’odio ma l’amore.
Teseo dice "e[xoid j ajnh; r w[n" (Edipo a Colono, v. 567), so di essere un uomo a Edipo che
gli ha chiesto perché accolga e aiuti lui che è il più disgtraziato e malfamato
degli uomini.
E' una dichiarazione di quella filanqrwpiva che si diffonderà in età ellenistica e partorirà l'humanitas latina.
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse
per l'uomo e di Terenzio: "Homo sum: humani nil a me alienum puto".
Nell'Eneide di Virgilio Didone incoraggia
i Troiani giunti naufraghi sulle coste della Libia ricordando che anche lei è
esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e diffidente, ma
pure compassionevole verso i disgraziati: "non ignara mali miseris
succurrere disco" (I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli
sventurati. Tanta humanitas non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è
uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo nella
scuola: "E infine, possiamo imparare la lezione fondamentale della vita,
la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione
autentica".
Marco Aurelio, imperatore (161 - 180 d. C.) e
filosofo, scrive (): noi siamo nati per darci aiuto reciproco (pro; "
sunergivan), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due
file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura
("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin" (Ricordi, II, 1).
La cultura classica sa opporre degli argini
all’irrazionale quando questo dilaga e minaccia di sommergerlo.
E' quello che Thomas Mann fa dire a Serenus Zeitblom
nel Doctor Faustus (1947): "non posso far a meno di
contemplare il nesso intimo e quasi misterioso fra lo studio della filologia
antica e un senso vivamente amoroso della bellezza e della dignità razionale
dell'uomo (...) dalla cattedra ho spiegato molte volte agli scolari del mio
liceo come la civiltà consista veramente nell'inserire con devozione, con
spirito ordinatore e, vorrei dire, con intento propiziatore, i mostri della
notte nel culto degli dei"[6]. E’ il caos che si fa cosmo. Cfr. le
Erinni che diventano Eumenidi nella terza tragedia dell’Orestea e
anche in The family reunion di T. S. Eliot (1939). Vedi il
sommario nell’Appendice.
In La montagna incantata (Der
Zauberberg del 1924) il protagonista Hans Castorp interviene in una
discussione tra i suoi mentori Settembrini e Naphta dicendo che la scienza
medica si occupa dell’essere umano, è umanistica, come giurisprudenza, teologia
e arti liberali, poi le discipline del trivio grammatica, dialettica, retorica
e quelle del quadrivio, aritmetica, geometria, musica, astronomia, sono tutte
professioni umanistiche.
“Sono tutte discipline umanistiche e quando vogliamo
studiarle dobbiamo imparare prima di tutto le lingue antiche, fondamentali per
un approfondimento formale. Io sono un realista e un tecnico ma è una regola
eccellente porre a fondamento di ogni professione umanistica l’elemento
formale, l’idea della bella forma che conferisce un sovrappiù di nobiltà, di
cortesia.” (Cap. V, Humaniora, p. 381). Aristotele nella Poetica insegna
che pregio del linguaggio è essere chiaro e non pedestre. "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh; n ei\nai” (1458a, 18).
Nietzsche in Sull’avvenire delle nostre scuole
(1872) scrive che l’apprendimento del latino e del greco è das Heilsamste la
cosa più salutare (heilsam) del ginnasio umanistico: si impara a rispettare la
lingua con le sue norme e ad aborrire gli errori.
Parlare male non solo è una stonatura in sé, ma mette
anche del male nelle anime.
Lo afferma Socrate nel Fedone: "euj gar i[sqi
a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to
plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene… ottimo Critone che il non parlare bene non è
solo un errore, una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Non saper parlare significa incapacità in ogni campo e
soggezione a chiunque sappia farlo.
Non poter parlare con capacità persuasiva vuole dire,
tra l’altro, non essere in grado di contrapporsi ai truffatori astuti.
Pindaro nella Nemea VIII ricorda il
torto subito da Aiace a[glwsso" (v. 24),
sicché l’invidia pote mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso
ingannevole[7].
Non c'è altro tempio della Persuasione che la
parola, dice Euripide, personaggio delle Rane di Aristofane
autocitandosi: "oujk e[sti Peiqou'" iJero;n a[llo plh;n
lovgo"".
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte
le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in
tutto e specialisti nell'arte della parola"[8].
Per essere specialisti in quest’arte bisogna saper
parlare in mondo preciso e conciso, e per raggiungere questo scopo ci vuole
ricchezza, vastità e proprietà di lingua. Non è possibile parlare né scrivere
bene, con proprietà e concisione, senza conoscere le lingue e le letterature
classiche.
“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha
bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto e più ristretta,
tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione
perfetta. Non si dà proprieta di parole e modi senza ricchezza e vastità di
lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).
Alfieri cercava di trovare per i suoi drammi “un
fraseggiare di brevità e di forza”, traducendo “i giambi di Seneca” (Vita,
4, 2).
Quintiliano: “densus et brevis et semper instans sibi
Thucidides (Institutio oratoria, X, 73).
“Shakespeare paragonato con Sofocle, e come una
miniera piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli, mentre quello non è
soltanto oro, ma oro anche lavorato nel modo più nobile, tale da far quasi
dimenticare il suo valore come metallo"[9].
I versi di Sofocle si distinguono per la loro densità:
ognuno di essi potrebbe essere commentato con un libro.
“La poesia fonda la sua potenza sulla compressione.
Poeta in tedesco si dice Dichter, colui che rende le cose dicht (spesse,
dense, compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un momento
particolare caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la profondità,
la complessità, il senso e l’importanza”[10].
Come l’immagine onirica, la parola del poeta è
costituita da una condensazione. La conoscenza dei classici è utile in tutti i
campi. Il sicuro possesso della parola è utile in tutti i campi, da quello
liturgico a quello erotico: "Non formosus erat, sed erat facundus
Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas ", bello non era, ma
era bravo a parlare, Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare,
scrive Ovidio nell'Ars amatoria (II, 123 - 124). Kierkegaard cita
questi due versi nel Diario del seduttore (7 giugno).
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene
il latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare
l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia: "Iam molire animum
qui duret, et adstrue formae: /solus ad extremos permanet ille rogos. /Nec
levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas"
(Ars amatoria II, vv. 119 - 122), oramai prepara il tuo spirito a
durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non
sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di
imparare bene le due lingue[11].
Le lingue studiate, tutte le lingue, ma in particolare
il greco e il latino che non si parlano, vanno coltivate con uno studio privo
di interruzioni.
II pericolo della dealfabetizzazione, il vocabolo
stesso lo dice, è soprattutto incombente sul greco.
Orazio nell’Ars poetica prescrive: “vos
exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268 - 269),
voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno. Ma tale rischio
riguarda ogni studio che venga interrotto e trascurato.
Cito a questo proposito alcune righe di una
pregevolissima ricerca di Tullio De Mauro. L’illustre linguista ricava da “due
grandi indagini internazionali, fatte nel 2001 e nel 2006, promosse da
Statistics Canada e dal Federal Bureau of Statistics degli Stati Uniti” che
“29% è l’accertata percentuale di italiane e di italiani con piena padronanza
alfabetica e numerica”. E continua: “Il nostro paese non e l’unico a conoscere
la dealfabetizzazione di adulti anche scolarizzati a livelli alti. Essa in
parte è fisiologica: sappiamo che se non si esercitano le competenze acquisite
da giovani a scuola, in età adulta regrediamo mediamente di cinque anni
rispetto ai livelli massimi raggiunti. E’ la regola detta del “meno cinque”.
Ogni adulto può comodamente verificarla su se stesso… dopo cinque anni di
greco, quanto ce ne resta se non facciamo i professori della materia e i
classicisti?”.
De Mauro nota che “in tutti i paesi sviluppati
esistono strutture e centri per l’educazione permanente degli adulti, che
consentono a percentuali consistenti di popolazione di rientrare in formazione.
L’esperienza dice che un ciclo anche breve è prezioso per riattivare buona
parte delle competenze smarrite. Ottenere che come altri paesi europei anche
l’Italia si doti di un sistema nazionale di lifelong learning, di apprendimento
per tutta la vita, e per ora un miraggio”[12].
Il consiglio che posso riproporre è quello già dato da
Ovidio che la cura di queste due lingue, come di tutte le altre competenze
acquisite a scuola, non sia levis.
Non si può essere vera mente bravi a usare la parola,
utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si
conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della
classe.
Il termine classicus designava il
cittadino che apparteneva alla classis più elevata dei contribuenti fiscali;
"solo per traslato uno scrittore del II secolo d. C., Aulo Gellio,
definisce "classicus scriptor, non proletarius" uno scrittore
"di prim' ordine", non della massa (Noctes Atticae 19. 8.
15; cfr. 6. 13. 1 e 16. 10. 2 - 15), o (forse meglio) "buono da essere
letto dai classici (i contribuenti più ricchi), e non dal popolo";
classicus è ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo,
"contribuente solido e frequente") e antiquior; l'anteriorità al
presente e dunque requisito della "classicità"[13].
Gellio consiglia di consultare sui termini quadrigam e
harenas uno degli scrittori “e cohorte illa dumtaxat antiquiore vel oratorum
aliquis vel poetarum, id est classicus, adsiduusque aliquis scriptor, non
proletarius” (Noctes Atticae, XIX, 8, 15), purché appartenente alla
schiera più antica dunque. In XVI, 10, 13 Gellio scrive che i
proletari a munere officioque prolis edendae appellati sunt (dal
compito - dovere di generare la prole).
Noi vorremmo che tutti potessero conoscere i classici
attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità.
Il greco e il latino del resto, tanto come lingue
quanto come culture, sono utili non solo a scuola, e il loro impiego non è
confinato nei licei e nella Accademie.
Si può pensare a una conferenza, a una sceneggiatura
cinematografica, o alla redazione di un articolo di giornale, o a una
recensione, a una diagnosi, a una prognosi medica, al corteggiamento suscitato
dall’eterno richiamo dei sessi, a qualunque attività insomma che richieda un
impiego non banale, non volgare della parola: la civiltà classica dota chi la
conosce di una miniera di topoi, frasi, metafore, immagini, idee preziose che
valorizzano il tessuto verbale e allargano la visione d’insieme fino a renderla
panoramica.
Insomma ampliano e accrescono la mente.
IL RESTO SI TROVA GIA' PUBBLICATO A PUNTATE QUI NEL BLOG O SI PUO' SCARICARE IN PDF QUI
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[4] Il greco e il latino, la religione e la matematica “Erano - e
l’insegnante lo faceva notare spesso - del tutto inutili apparentemente ai fini
degli studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano
importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali, perché
sviluppano la facolta di ragionare e costituiscono la base di ogni pensiero
chiaro, sobrio ed efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota (del
1906), p. 24.
[5] Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il
1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776 - 1777
traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e
limato… certamente con molto mio lucro si nell’intelligenza della lingua
latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3).
[7] Cfr. anche Ovidio Metamorfosi, XIII, 1 - 398. La
conclusione del dibattito tra Ulisse e Aiace è “quid facundia posset - re
patuit fortisque viri tulit arma disertus” (382 - 383)
[12] Tullio De Mauro, La scuola italiana in sette punti in Italia,
Italie. Lezioni sulla storia dell’Italia unita, p. 125. Edizioni
Polistampa, Regione Toscana, 2013
DECISAMENTE MOLTO INTERESSANTE, COMPLIMENTI GIANNI.
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