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venerdì 28 giugno 2019

La Felicità. XII parte. L’uomo privo di bisogni spirituali è il correlativo antropomorfo degli animali

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L’uomo privo di bisogni spirituali è il correlativo antropomorfo degli animali 

Felicità è vivere secondo natura. Osservare la terra madre, osservare il cielo.
"Il destino dell'uomo è inserito nell'ordine divino del mondo; e quando l'ordine divino e il disordine umano vengono al cozzo, si sprigiona la scintilla della tragedia"[1].

Secondo i maestri Stoici la felicità consiste nel vivere razionalmente, secondo natura (kata; fuvsin), secondo virtù (kat j arethvn) e in modo coerente.
Seneca ribadisce che vivere secondo natura per gli uomini è vivere secondo ragione: sequitur autem ratio naturam"Quid est ergo ratio?" Naturae imitatio. "Quod est summum hominis bonum?" Ex naturae voluntate se gerere. (Ep. 66, 39), la ragione segue la natura. Che cosa è dunque la ragione? Imitazione della natura. Qual è per l'uomo il sommo bene? Comportarsi secondo la volontà della natura.

Ricorro a Dostoevskij per significare che uno stato d’animo attento alla natura e favorevole alla vita prova gioia nell'osservarla e nel sentirne la presenza in sé:" Io non so come sia possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di vederlo. Parlare con una persona e non essere felice di volerle bene! Oh, io non so esprimere bene i miei sentimenti (...) ma quante cose belle vediamo ad ogni pie' sospinto, belle al punto che l'uomo più abbietto non può che vederle sempre belle? Guardate un bambino, guardate l'alba divina, guardate come cresce un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono bene."[2]

L’uomo privo di bisogni spirituali è il correlativo antropomorfo degli animali
La felicità non dipende dai beni esteriori: "voluptas bonum pecoris est" (92), il piacere è il bene proprio delle bestie. Si può legare a questa affermazione la parabola evangelica dei porci ai quali non bisogna gettare le perle "neque mittatis margaritas vestras ante porcosne forte colcuncent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos "[3], perché non accada che le calpestino con i piedi rivolti contro di voi non vi sbranino. O anche il Pullus ad margaritam di Fedro (III, 12), la bestia "potior cui multo est cibus".
"l'uomo privo di bisogni spirituali (…) è e rimane cioè l’a[mouso~ ajnhvr"[4]. Costui è il correlativo antropomorfo degli animali "quae natura prona atque ventri oboedientia finxit [5]", per dirla con Sallustio[6]

Il fatto è che la scrittura e la voce astuta della pubblicità cercano di costringerci al consumismo e di allontanarci dall'osservazione della natura. La pubblicità tenta di trasformare gli uomini in maiali, come Circe hJ suw`n morfwvtria (Euripide, Troiane, v. 437) che dà (agli uomini) la forma di porci.

Sollevare gli occhi dai propri piedi e guardare il cielo.
Nell’Edipo re di Sofocle (vv.130 - 131) Creonte spiega al re di Tebe il motivo per cui non si fecero indagini sull’uccisione di Laio:"La Sfinge dal canto variopinto ci spingeva a osservare quello che era lì tra i piedi ("to; pro;" posi;") e a lasciare perdere quanto non si vedeva (tajfanh')”.
 Se identifichiamo l’invisibile con i fatti dello spirito, o con le idee di Platone, non visibili attraverso i soli occhi del corpo, soprattutto quando sono rivolti in basso, e consideriamo "quello che era lì tra i piedi" corrispondente agli oggetti terreni e materiali, ecco che il canto ammaliante del mostro nato da un incesto[7] significa un invito a nozze per "l'uomo privo di ogni bisogno spirituale", o " a{mouso" ajnhvr" che dire si voglia.

Nelle Baccanti di Euripide, Cadmo come vede la figlia Agave la quale, fuori di sé, ha fatto a pezzi il figlio Penteo e ne brandisce la testa credendo di avere ucciso un leone, le suggerisce di guardare il cielo per prima cosa (v. 1264).
So Heracles says on recovering his sanity (Her. 1089 - 1090) devdorc j a{per me dei`, //aijqevra te kai; gh`n tovxa q j JHlivou tavde[8], così Eracle dice nel recuperare la sua sanità (Eracle 1089) vedo le cose che devo, il cielo e la terra e questi dardi del Sole.

Guardare il cielo apre gli occhi dell’anima a Bill , il figlio di Willy Loman, il commesso viaggiatore di Arthur Miller. Il padre, infuriato in seguito a un aspro diverbio, gli dice: “E allora impiccati! Fammi quest’ultimo dispetto! Impiccati!” e il giovane risponde: “No, Willy, nessuno s’impicca! Oggi mi sono precipitato per dodici piani con una penna in mano. E tutt’a un tratto mi sono fermato, capisci? In mezzo alle scale mi sono fermato e ho visto il cielo. Ho visto le cose che mi piace fare a questo mondo. Lavorare e mangiare e sdraiarmi, fumare una sigaretta. E stavo lì con questa penna in mano e mi sono detto: ma che Cristo l’ho rubata a fare?”[9].

Giocasta nelle Fenicie di Euripide dice a Eteocle che anche gli uomini politici devono seguire le indicazioni provenienti dall’ordine cosmico che ci fa vedere l’uguaglianza: "kei'no kavllion, tevknon, ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535 - 536), quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza. Infatti essa è legge cosmica: "nukto;" t j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'" - i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543 - 544), l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo.
Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[10], domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?

Mal fondata è la felicità che si basa sul possesso della “roba”.
In questa tragedia dove "Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"[11], Giocasta obietta: "tiv d j e[sti to; plevono[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553 - 554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi.
Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia kevkthntai brotoiv, Fenicie555), noi siamo curatori di cose che gli dèi possiedono (ta; tw'n qew'n d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono, ce li ritolgono o{tan de; crhv/zw's j, au[t j ajfairou'ntai pavlin (557).

Una posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.), quando il possidente Callippide dice che non vuole prendersi un genero e una nuora pezzenti, e il figlio Sostrato, il quale vuole sposare una ragazza povera e dare la sorella in sposa al fratello di lei, risponde al padre che lui non è veramente padrone delle cose che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de; pavnt j e[cei~” (v. 801).

Luogo simile in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive: "mutua accepimus. Usus fructusque noster est", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.




[1] V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle (1956), p. 40.
[2] L'idiota (del 1869), parte quarta, capitolo settimo (p. 700)
[3] Matteo, N.T., 7, 6.
[4] Queste definizioni si trovano nei Parerga e Paralipomena (1851) di A. Schopenhauer. Il filosofo tedesco afferma che tale individuo non sente alcun impulso alla conoscenza e non è capace di godimenti estetici; egli si sobbarca ai presunti piaceri imposti dalla moda e dall'autorità: "di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere materiale" (pp.462 - 465 del primo tomo).
[5] Bestie al pascolo che la natura formò prone e obbedienti al ventre.
[6] Bellum Catilinae , 1.
[7] Secondo Esiodo la Sfinge era figlia di Echidna e del cane Orto (Teogonia 326). Orto era figlio di Echidna e Gerione, dunque la Sfinge è nata da un incesto.
[8] Dodds, Bacchae, Commentary, pp. 229 - 230.
[9]A. Miller, Morte di un commesso viaggiatore, in A. Miller, Teatro, p. 294.
[10] Anche Seneca dà il consiglio di seguire la natura, osservando in particolare l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.
[11]Lanza, , Il tiranno e il suo pubblico , p. 53.

2 commenti:

  1. Grande Humanitas Professore nelle pagine da lei scritte... e credo non sia merito solo delle sue profonde letture. Buona vita. Lorella Serafini

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