L’uomo privo di bisogni spirituali è il correlativo antropomorfo degli animali
Felicità è vivere secondo natura. Osservare la terra madre, osservare il cielo.
"Il destino dell'uomo è inserito nell'ordine divino del mondo; e
quando l'ordine divino e il disordine umano vengono al cozzo, si sprigiona la
scintilla della tragedia"[1].
Secondo i
maestri Stoici la felicità consiste nel vivere razionalmente, secondo natura (kata; fuvsin), secondo virtù (kat j arethvn) e in modo coerente.
Seneca ribadisce che vivere secondo natura per gli uomini è vivere
secondo ragione: sequitur autem ratio naturam. "Quid est ergo ratio?" Naturae imitatio. "Quod
est summum hominis bonum?" Ex naturae voluntate se gerere. (Ep.
66, 39), la ragione segue la natura. Che cosa è dunque la ragione? Imitazione
della natura. Qual è per l'uomo il sommo bene? Comportarsi secondo la volontà
della natura.
Ricorro a Dostoevskij per
significare che uno stato d’animo attento alla natura e favorevole alla vita
prova gioia nell'osservarla e nel sentirne la presenza in sé:" Io non so
come sia possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di
vederlo. Parlare con una persona e non essere felice di volerle bene! Oh, io
non so esprimere bene i miei sentimenti (...) ma quante cose belle vediamo ad
ogni pie' sospinto, belle al punto che l'uomo più abbietto non può che vederle
sempre belle? Guardate un bambino, guardate l'alba divina, guardate come cresce
un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono
bene."[2].
L’uomo privo di bisogni spirituali è il correlativo antropomorfo degli
animali
La
felicità non dipende dai beni esteriori: "voluptas bonum pecoris est"
(92), il piacere è il bene proprio delle bestie. Si può legare a questa
affermazione la parabola evangelica dei porci ai quali non bisogna gettare le
perle "neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne
forte colcuncent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos "[3],
perché non accada che le calpestino con i piedi rivolti contro di voi non vi
sbranino. O anche il Pullus ad margaritam di Fedro (III, 12), la
bestia "potior cui multo est cibus".
"l'uomo privo di bisogni spirituali (…) è e rimane cioè l’a[mouso~ ajnhvr"[4].
Costui è il correlativo antropomorfo degli animali "quae natura
prona atque ventri oboedientia finxit [5]",
per dirla con Sallustio[6].
Il fatto è
che la scrittura e la voce astuta della pubblicità cercano di costringerci al
consumismo e di allontanarci dall'osservazione della natura. La pubblicità
tenta di trasformare gli uomini in maiali, come Circe hJ suw`n
morfwvtria (Euripide, Troiane, v. 437) che dà (agli
uomini) la forma di porci.
Sollevare gli occhi dai propri piedi e guardare
il cielo.
Nell’Edipo
re di Sofocle (vv.130 - 131) Creonte spiega al re di Tebe il motivo
per cui non si fecero indagini sull’uccisione di Laio:"La Sfinge dal canto
variopinto ci spingeva a osservare quello che era lì tra i piedi ("to; pro;" posi;") e a lasciare perdere quanto non si
vedeva (tajfanh')”.
Se identifichiamo l’invisibile con i fatti dello spirito, o con le
idee di Platone, non visibili attraverso i soli occhi del corpo, soprattutto
quando sono rivolti in basso, e consideriamo "quello che era lì tra i
piedi" corrispondente agli oggetti terreni e materiali, ecco che il canto
ammaliante del mostro nato da un incesto[7] significa un invito a nozze per "l'uomo privo di ogni bisogno spirituale",
o " a{mouso" ajnhvr" che
dire si voglia.
Nelle Baccanti di Euripide, Cadmo come vede la figlia
Agave la quale, fuori di sé, ha fatto a pezzi il figlio Penteo e ne brandisce
la testa credendo di avere ucciso un leone, le suggerisce di guardare il cielo
per prima cosa (v. 1264).
“So Heracles
says on recovering his sanity (Her. 1089 - 1090) devdorc j a{per
me dei`, //aijqevra te kai; gh`n tovxa q j JHlivou tavde”[8],
così Eracle dice nel recuperare la sua sanità (Eracle 1089) vedo le
cose che devo, il cielo e la terra e questi dardi del Sole.
Guardare il
cielo apre gli occhi dell’anima a Bill , il figlio di Willy Loman, il commesso
viaggiatore di Arthur Miller. Il padre, infuriato in seguito a un aspro
diverbio, gli dice: “E allora impiccati! Fammi quest’ultimo dispetto!
Impiccati!” e il giovane risponde: “No, Willy, nessuno s’impicca! Oggi mi sono
precipitato per dodici piani con una penna in mano. E tutt’a un tratto mi sono
fermato, capisci? In mezzo alle scale mi sono fermato e ho visto il cielo. Ho
visto le cose che mi piace fare a questo mondo. Lavorare e mangiare e
sdraiarmi, fumare una sigaretta. E stavo lì con questa penna in mano e mi sono
detto: ma che Cristo l’ho rubata a fare?”[9].
Giocasta
nelle Fenicie di Euripide dice a Eteocle che anche gli uomini
politici devono seguire le indicazioni provenienti dall’ordine cosmico che ci
fa vedere l’uguaglianza: "kei'no kavllion, tevknon, ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535 - 536),
quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza. Infatti essa è legge
cosmica: "nukto;" t j ajfegge;" blevfaron hJlivou te
fw'" - i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543 - 544), l'oscura
palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo.
Ora se il
sole e la notte si assoggettano a queste misure[10],
domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk
ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia?
Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n
turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un
gran che?
Pensi che
essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere
molte pene con molte cose nella casa?
Mal fondata è la felicità che si basa sul possesso della “roba”.
In questa
tragedia dove "Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide
sul "di più"[11], Giocasta
obietta: "tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana;
toi'" ge swvfrosin", vv.
553 - 554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta
ai saggi.
Le ricchezze
non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia
kevkthntai brotoiv, Fenicie, 555), noi siamo curatori di cose che gli dèi
possiedono (ta; tw'n qew'n d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono, ce li
ritolgono o{tan de; crhv/zw's j, au[t j ajfairou'ntai pavlin (557).
Una
posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.), quando il
possidente Callippide dice che non vuole prendersi un genero e una nuora
pezzenti, e il figlio Sostrato, il quale vuole sposare una ragazza povera e
dare la sorella in sposa al fratello di lei, risponde al padre che lui non è
veramente padrone delle cose che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de;
pavnt j e[cei~” (v. 801).
Luogo simile in Seneca che
nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive: "mutua
accepimus. Usus fructusque noster est", abbiamo ricevuto delle cose in
prestito. L'usufrutto è nostro.
[4] Queste definizioni si trovano
nei Parerga e Paralipomena (1851) di A. Schopenhauer. Il filosofo
tedesco afferma che tale individuo non sente alcun impulso alla conoscenza e
non è capace di godimenti estetici; egli si sobbarca ai presunti piaceri
imposti dalla moda e dall'autorità: "di conseguenza le ostriche e lo
champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua
vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere
materiale" (pp.462 - 465 del primo tomo).
[7] Secondo Esiodo la Sfinge era
figlia di Echidna e del cane Orto (Teogonia 326). Orto era figlio
di Echidna e Gerione, dunque la Sfinge è nata da un incesto.
[10] Anche Seneca dà il consiglio
di seguire la natura, osservando in particolare l'alternarsi del dì e della
notte, per prendere decisioni equilibrate "cum rerum natura delibera:
illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi
decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la
notte.
Grande Humanitas Professore nelle pagine da lei scritte... e credo non sia merito solo delle sue profonde letture. Buona vita. Lorella Serafini
RispondiEliminaCiao Lorella. grazie. gianni
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