Eger |
Ne stava uscendo un uomo che,
pieno di carne tenuta male, ruttava e sputava, sfregandosi l’epa gonfia e
scoperta. Dentro, la gente beveva il famoso vino rosso chiamato “sangue di toro
di Eger”. Anche in questo binomio vino-toro entrava Dioniso con i suoi riti. Mi
accorsi presto però che ero finito in un baccanale corrotto.
Ai tavoli c’erano femmine e maschi. Li
osservavo cercando qualcosa nei loro volti
ma non vi trovavo segni dai significati buoni .
Bocche e occhi emanavano
zaffate di ottusità. Bevevano e mangiavano.
In alcuni di loro il ceffo
che rodeva inverecondo si alternava alla fauce che ringhiava quando si alzava un rumore infernale, Anche
il buio era d’inferno e di notte senza luna né stelle. Mi fu offerto un
bicchiere di vino ma per me non era il momento di bere. Pensavo a Ifigenia. Le
rivolgevo la parola come se fosse presente.
Il suo fantasma lo era, come
quello di Elena a Troia o quello di Polidoro nei sogni di Ecuba. Osservavo lo
spettro dell’assente e gli domandavo: “perché non mi scrivi?
Abbiamo passato otto mesi di gioia rarissima e gustosissima insieme; per quale
mediocre e sciocco piacere li rigetti o li sciupi in questa maniera?”
Lo dicevo per scaramanzia.
Invero speravo di trovare il suo espresso la sera, appena arrivato in
collegio. Un uomo si mise a suonare un
cembalo e altri a ballonzolare come tanti plantigradi ebbri.
Certe volte anche io ho avuto
bisogno del vino. Quando approcciai Elena bevvi un paio di palinke per darmi
coraggio, con Kaisa e con Päivi bevevo per non pensare che erano troppo lontane
da me perché quegli eventi grandi e meravigliosi potessero durare più della
feria d’agosto. Con altre via via, metodicamente, ho bevuto non troppo, nemmeno
abbastanza per sopportare la loro mancanza di significato. Al contrario del
Signore di cui c’è l’oracolo a Delfi, parlavano tanto, e con petulanza, senza
significare alcunché.
Pensavo: “Soltanto con te,
Ifigenia, ho compreso che la lucidità vale più dello stordimento da alcol. Con
te magari mi sono stordito provando piacere. I nostri sacrosanti tripudi, gli
splendidissimi orgasmi benedetti da tutti gli dei. Tu hai capito e mi hai fatto
capire il valore della mia intelligenza che non devo sciupare. Mi hai fatto
sentire che posso essere allegro senza bere un goccio, che non ho bisogno del
viatico di Dioniso per salire e viaggiare sul santo naviglio di Venere in tua
compagnia”.
Mi offrirono un’altra volta
del vino e tornai a dire “no, grazie”.
Non bere mi sembrava una libagione offerta a
Cipride-Ifigenia.
Quindi ci riportarono a Eger.
Così andò la gita alla “Valle delle belle donne” il pomeriggio del 4 agosto del
1979.
Sono passati quaranta anni
da allora. Adesso ricordo con gratitudine le
amanti dai significati forti, le
vive e quelle che hanno già compiuto la vita, donne che via via mi hanno
educato e dato la carica o la ricarica quando ne avevo bisogno.
Ma l’amore più grande ora lo indirizzo alla
Vita, la corteggio, la provoco magnificamente con fatiche fisiche
straordinarie, con impegno mentale indefesso, per accumulare salute, sapere e
sapienza con cui beneficare chi mi ascolta e mi legge. Spero che proprio per
questo la Vita
contraccambi il mio amore e mi tenga ancora del tempo con sé, abbracciato come
un amante bello, buono e fedele.
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