Associazione Culturale Kerkìs, Ione, 2012 |
I riconoscimenti tra i personaggi nelle tragedie greche e in tre romances di Shakespeare
All’inizio
del terzo episodio dell’Elettra di Sofocle entra in
scena Crisotemi portando alla sorella la notizia che Oreste è vivo:
“ uJf j hjdonh'" toi,
filtavth, diwvkomai - to; kovsmion meqei'sa, su;n
tavcei molei'n” (vv. 871-872), dalla gioia sono spinta
carissima a venire di corsa trascurando il decoro. Quindi la ragazza
ribadisce: fevrw ga;r
hJdonav" (872).
Elettra
ribatte dicendo alla sorella che non può certo trovare un aiuto
contro le sventure delle quali non è possibile vedere un rimedio
( i[asin, 876).
Ma la
sorella contenta insiste: “ pavrest j jOrevsth" hJmi'n
i[sqi tou't j ejmou'-kluvous j ejnargw'" , w[sper eijsora'"
ejmev (877-878), Oreste è qui da noi, ora che mi ascolti
sappilo con chiarezza come mi vedi.
Crisotemi
ha visto sul sepolcro del padre una ciocca di capelli tagliata da
poco-newvrh bovstrucon
tetmhmevnon (901) ed è sicura che quell’offerta è di
Oreste. E’ un indizio di chiara evidenza, sufficiente ad
autorizzare una congettura, un eijkasmov" capace
di anticipare una conoscenza che suscita felicità.
Nello Ione di
Euripide c’è l’ajnagnwvrisi" fra
il trovatello custode del tempio di Delfi e sua madre Creusa che lo
ebbe in seguito a una violenza subita da Apollo. Ognuno dei
due meditava di uccidere l’altro, ma poi si riconoscono
attraverso gli oggetti della cesta dove il neonato era stato posto e
lasciato.
Allora
il ragazzo dice alla madre trovata: “w\
filtavth moi mh'ter, a[smenov" s j ijdw;n-
pro;" ajsmevna" pevptwka sa;" parhivda"”
(1437-1438), o madre mia carissima, sono felice di vederti e mi getto
sulle tue guance felici.
Creusa
chiama Ione figlio, luce per una madre più
fulgida di quella del sole-w\
tevknon , w\ fw'" mhtri; krei'sson hJlivou (1440)-,
poi domanda: “ povqen
moi-sunevkurs j ajdovkhto" hJdonav povqen-ejlavbomen
caravn;” (1447-1449) da dove mi è capitata questa felicità
inattesa? Da dove abbiamo preso la gioia?
Seguono
delle perplessità da parte di Ione, ma alla fine, una fine lieta,
compare Atena, dea ex machina, la quale convince Ione,
saluta lui e Creusa, quindi annuncia un destino di gioia dopo questo
sollievo dai travagli - “kai;
caivret j : ejk ga;r th'sd j ajnayuch'"
povnwn-eujdaivmon j povtmon ejxaggevllomai ”(1604-1605)
L’ultima
parola di questa lunga tragedia la dice il coro delle
ancelle di Creusa le quali universalizzano il lieto fine della
vicenda affermando che anche quando sulla casa si abbattono eventi
negativi bisogna venerare gli dèi e avere coraggio, siccome alla
fine i buoni ottengono quanto hanno meritato e i malvagi, secondo la
loro natura non saranno mai felici:
“ej"
tevlo" ga;r oij me;n ejsqloi; tugcavnousin ajxivwn,
oiJ
kaloi; d j w{sper pefuvkas j, ou[pot j eu\ pravxeian a[n”
(vv. 1621-1622).
Un
altro riconoscimento che procura gioia si trova nella Ifigenia
fra i Tauri. Qui i fratelli si riconoscono dalla lettura di una
tavoletta che Pilade deve portare a Micene e Ifigenia, per timore che
lo scritto vada perduto, legge a lui e al fratello non
ancora riconosciuto. Ne consegue l’ajnagnwvrisi" e
la gioia: prima quella di Oreste-“ej"
tevryin ei\mi, puqovmeno" qaumavst j ejmoiv.”
(v. 797) entro nella gioia, venuto a conoscenza di essere miracolato.
Poi, dopo qualche resistenza, si aggiunge la gioia della sorella cui
il figlio di Agamennone ha dato prove inconfutabili di essere suo
fratello: una gioia strana (a[topon
hjdona;n e[labon, w\ filai, 842), accompagnata dalle lacrime
sue e di Oreste.
Nell’Elena ,
che ha una struttura simile all’ Ifigenia fra i Tauri, la
protagonista eponima e Menelao si ritrovano in Egitto, e, superate
le perplessità, si riconoscono con gioia.
Elena
dice che, dopo un tempo interminabile, la gioia adesso è
presente “hJ tevryi~ ajrtivw"
pavra” (625).
Menelao
protende le braccia verso di lei e la moglie aggiunge gevghqa (632)
gioisco, mentre le cadono dagli occhi lacrime di felicità cui
seguono quelle di Menelao: "le lacrime sono la mia gioia: hanno
una maggior quantità di piacevolezza che di
dolore"(- ejma; de;
carmona; davkrua: plevon e[cei-cavrito" h] luvpa"
(654-655).
La gioia
dei ritrovamenti e riconoscimenti in tre drammi romanzeschi di
Shakespeare.
Nel
primo dei drammi romanzeschi (romances) di
Shakespeare, Pericle principe di Tiro (rappresentato
nel 1608), il protagonista eponimo ritrova la figlia Marina e la
moglie Taisa credute morte. Nel riconoscere la ragazza, il padre
sente un grande mare di gioia –(great sea of joy)- che lo
assale con tanto impeto da fargli temere che lo anneghi nella sua
dolcezza. Quindi chiama a sé la figlia che generata da
lui in circostanze lontane, dopo una ventina di anni rigenera il
padre e lo fa rinascere dalla gioia (V, i) . La
gioia si rinnova più avanti nel ritrovamento della
moglie: Taisa è overjoyed (V, iii) sopraffatta
dalla gioia e Pericle associa di nuovo la felicità al rischio della
sparizione e del dissolvimento: “I may/ melt, and no more be
seen” (V, iii). Infine il marito propone alla sposa ritrovata
un abbraccio dove la morte si intrecci con la vita: “O, come, be
buried/a second timewithin these arms (V, iii)
Nel V
atto del Cimbelino (del 1610) i riconoscimenti
significano il trionfo della virtù incarnata nella principessa
Imogene fuggita dalla reggia del padre per non sposare l’uomo che
volevano imporle, poi travestitasi da ragazzo, poi caduta in
catalessi per un farmaco e creduta morta. Il re di Britannia eponimo
di questo romance ritrova i propri figli maschi che
gli erano stati rapiti da bambini e riconosce la figlia uscita
tornata sé stessa provandone una gioia che quasi lo uccide (the
gods do mean to srike me/to death with mortal joy (V, v 9).
Postumo l’uomo che Imogene amava riamata, ma l’aveva reputata
infedele e odiata in seguito a una calunnia, finalmente viene a
sapere come sono andate davvero le cose e riconosce la virtù di
Imogene: “The temple/of virtue was she; yea, and she herself”
(V, v). Tutti questi riconoscimenti sanciscono la vittoria della
verità sulla menzogna e del bene sul male. Alla fine lo sguardo
innocente di Imogene lampeggia su Postumo che getta una luce di gioia
su ogni cosa e Cimbelino riassume: “All o’
erjoy’d”(V, v), tutto è pieno di gioia.
Il
racconto d’inverno (The winter’s tale, 1611) presenta uno
schema analogo. Dalla felicità si passa al dolore dovuto al non
capire, ma poi la sofferenza porta alla comprensione e riporta la
gioia.
Leonte,
re di Sicilia, pazzo di gelosia immotivata, fa chiudere in
prigione la moglie Ermione incinta credendo che sia stata ingravidata
dal loro ospite e amico Polissene re di Boemia. La donna partorisce
una bambina, Perdita, destinata dal padre a morire, poi anche la
madre appare morta e viene custodita in forma di statua nella casa
della buona Paolina mentre il marito di questa, Antigono porta e
abbandona l’infante nella Boemia, poi viene sbranato da un orso. La
bambina, come diversi piccoli futuri eroi di tanti miti, non
muore siccome viene salvata dai pastori e diventa una
splendidissima adolescente. Sedici anni dopo si reca in Sicilia con
il principe di Boemia, Florizel che la ama riamato e viene
riconosciuta dal padre da tempo ravveduto e pentito del male che ha
fatto. Il riconoscimento di Perdita viene raccontato da gentiluomini
di corte invece che recitato dal re e dalla figlia, come succede con
i messi delle tragedie greche.
Il terzo
gentiluomo riferisce agli altri due che il re quasi saltava fuori di
sé per la gioia di avere ritrovato la figlia “being ready to
leap out of himself for joy of his found daughter” (V, ii),
eppure sentiva ancora il rimorso e il dolore della morte della madre
di Perdita. Ma anche questa viene ritrovata poiché la statua
conservata nella casa dell’amica Paolina un poco alla volta si
rianima (come la donna velata alla fine dell’Alcesti di
Euripide). Leonte dchiara a Paolina che ogni movimento e parola della
staua lo rende contento e che non cambierebbe il piacere di quella
follia (the pleasure of that madness, V, iii) con la pacatezza
dei sensi. Paolina dunque procede con il suo rito di resurrezione:
“You perceive she stirs”, come vedete si muove. I numerosi
presenti (Leonte, Polissene, Florizel, Perdita, Camillo il barone
siciliano che si era rifugiato in Boemia per sfuggire alla follia del
suo re, nobili e servitori ) non devono trasalire: “her
actions shall be holy as/you hear my spell is lawful”, V, iii)
i suoi atti (di Ermione) saranno sacri e il mio incantesimo è lecito
afferma Paolina. Quindi Ermione e Leonte si abbracciano. Paolina
allora dice : “but it appears she lives,/thought yet she speak
not”
Anche
nell’Alcesti di Euripide- e francamente non so se
Shakespeare ne avesse letto una traduzione come aveva fatto con
le Vite di Plutarco- il marito Admeto viene
colpito da una gioia di provenienza ultraterrena-
“m j
ejk qeou' ti" ejkplhvssei carav” (1125),
una felicità che però potrebbe essere ingannevole
(kevrtomo") siccome la
donna condotta da Eracle sta ferma e non parla “e{sthken
a[naudo" gunhv”, 1143). Il figlio di Zeus e
Alcmena allora spiega all’ospite che il morto risuscitato deve
giungere al terzo giorno prima che sia tolta al dominio degli dèi
infernali, purificata e possa parlare (Alcesti,
1145-1146). Cfr. “Il terzo giorno risuscitò da morte”.
Anche
Paolina chiede di aspettare un po’ : “mark a little while”.
Quindi ingiunge a Imogene di inginocchiarsi e implorare la
benedizione della madre: “fair madam, kneel/and pray your
mother’s blessing”
E infine
a Ermione: “Turn, good lady/Our Perdita is found”.
Quindi
parla Ermione alla figlia e le dice che avuta dall’Oracolo la
speranza che la sua bambina non era morta si era mantenuta viva per
assistere a questo finale.
Allora
la ierofante spinge gli illustri vincitori a dividere con tutti la
loro esultanza: “your exultation-Portake to everey one”.
Lo
stesso re di Sicilia le chiede: “Good Paulina,/lead us from
hence”, “buona Paolina, guidaci via di qui dove possiamo
interrogarci l’un l’altro con agio e rispondere spiegando la
parte che ha recitato in questo ampio intervallo di tempo, da quando
fummo separati. Facci uscire presto”
Sono le
ultime parole del dramma.
[1] Il
mito era già stato messo in discussione dalla “pretesa della
religione alla fondatezza storica”. Poi con la tragedia, quella di
Eschilo, esso si risollevò: “Questo mito morente fu afferrato
allora dal rinato genio della musica dionisiaca; e in mano sua esso
fiorì ancora una volta, con colori quali non aveva mai mostrati,
con un profumo che suscitava uno struggente presentimento di un
mondo metafisico”. Ma poi giunse Euripide a dargli il colpo di
grazia che aprì la strada a tutti “i beffardi Luciani”
dell’antichità: “Che cosa volevi, empio Euripide, quando
cercasti di costringere ancora una volta questo morente a servirti?
Morì tra le tue braccia violente, e allora sentisti il bisogno di
un mito imitato, mascherato, che come la scimmia di Ercole sapeva
oramai soltanto adornarsi con l’antica pompa. E come per te moriva
il mito, moriva per te anche il genio della musica: per quanto tu
saccheggiassi con avide mani tutti i giardini della musica, anche
così giungesti solo a una musica imitata e mascherata. E poiché
avevi abbandonato Dioniso, anche Apollo abbandonò te”.
Nietzsche, La
nascita della tragedia ,
capitolo 10.
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