NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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mercoledì 26 giugno 2019

La Felicità. XI parte. La gioia del riconoscimento in alcune tragedie greche

Associazione Culturale Kerkìs, Ione, 2012
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I riconoscimenti tra i personaggi nelle tragedie greche e in tre romances di Shakespeare

All’inizio del terzo episodio dell’Elettra di Sofocle entra in scena Crisotemi portando alla sorella la notizia che Oreste è vivo: “ uJf j hjdonh'" toi, filtavth, diwvkomai - to; kovsmion meqei'sasu;n tavcei molei'n” (vv. 871-872), dalla gioia sono spinta carissima a venire di corsa trascurando il decoro. Quindi la ragazza ribadisce: fevrw ga;r hJdonav" (872).
Elettra ribatte dicendo alla sorella che non può certo trovare un aiuto contro le sventure delle quali non è possibile vedere un rimedio ( i[asin, 876).
Ma la sorella contenta insiste: “ pavrest  j   jOrevsth"  hJmi'n i[sqi tou't j ejmou'-kluvous j ejnargw'" , w[sper eijsora'" ejmev (877-878), Oreste è qui da noi, ora che mi ascolti sappilo con chiarezza come mi vedi.
Crisotemi ha visto sul sepolcro del padre una ciocca di capelli tagliata da poco-newvrh bovstrucon tetmhmevnon (901) ed è sicura che quell’offerta è di Oreste. E’ un indizio di chiara evidenza, sufficiente ad autorizzare  una congettura, un eijkasmov" capace di anticipare una conoscenza  che suscita felicità.

Nello Ione di Euripide  c’è l’ajnagnwvrisi"  fra il trovatello custode del tempio di Delfi e sua madre Creusa che lo ebbe in seguito a una violenza subita da Apollo. Ognuno dei due  meditava di uccidere l’altro, ma poi si riconoscono attraverso gli oggetti della cesta dove il neonato era stato posto e lasciato.
Allora il ragazzo dice alla madre trovata: “w\ filtavth moi mh'ter, a[smenov"  s  j ijdw;n- pro;" ajsmevna" pevptwka sa;" parhivda"” (1437-1438), o madre mia carissima, sono felice di vederti e mi getto sulle tue guance felici.
Creusa chiama  Ione  figlio, luce per una madre più fulgida di quella del sole-w\ tevknon , w\ fw'" mhtri; krei'sson hJlivou (1440)-, poi domanda: “ povqen moi-sunevkurs  j ajdovkhto" hJdonav povqen-ejlavbomen caravn;” (1447-1449) da dove mi è capitata questa felicità inattesa? Da dove abbiamo preso la gioia?
Seguono delle perplessità da parte di Ione, ma alla fine, una fine lieta, compare Atena, dea ex machina, la quale convince Ione, saluta lui e Creusa, quindi annuncia un destino di gioia dopo questo sollievo  dai  travagli - “kai; caivret j : ejk ga;r th'sd  j ajnayuch'" povnwn-eujdaivmon  j povtmon ejxaggevllomai ”(1604-1605)
L’ultima parola di questa lunga tragedia  la dice il coro delle ancelle di Creusa le quali universalizzano il lieto fine della vicenda affermando che anche quando sulla casa si abbattono eventi negativi bisogna venerare gli dèi e avere coraggio, siccome alla fine i buoni ottengono quanto hanno meritato e i malvagi, secondo la loro  natura non saranno mai felici:
ej" tevlo" ga;r oij me;n ejsqloi; tugcavnousin ajxivwn,
 oiJ kaloi; d j w{sper pefuvkas  j, ou[pot j eu\ pravxeian a[n” (vv. 1621-1622).
Questi versi smentiscono la taccia di assoluta empietà attribuita a Euripide[1].

  Un altro riconoscimento che procura gioia si trova nella Ifigenia fra i Tauri. Qui i fratelli si riconoscono dalla lettura di una tavoletta che Pilade deve portare a Micene e Ifigenia, per timore che lo scritto vada perduto,  legge a lui e al fratello non ancora riconosciuto. Ne consegue l’ajnagnwvrisi"  e la gioia: prima quella di Oreste-“ej" tevryin ei\mi, puqovmeno" qaumavst  j ejmoiv.” (v. 797) entro nella gioia, venuto a conoscenza di essere miracolato. Poi, dopo qualche resistenza, si aggiunge la gioia della sorella cui il figlio di Agamennone ha dato prove inconfutabili di essere suo fratello: una gioia strana (a[topon hjdona;n e[labon, w\ filai, 842), accompagnata dalle lacrime sue e di Oreste.    

Nell’Elena , che ha una struttura simile all’ Ifigenia fra i Tauri,  la protagonista eponima e Menelao si ritrovano in Egitto, e,  superate le perplessità, si riconoscono con gioia.
Elena dice che, dopo un tempo interminabile, la gioia adesso  è presente “hJ tevryi~   ajrtivw" pavra” (625).
 Menelao protende le braccia verso di lei e la moglie aggiunge gevghqa (632) gioisco, mentre le cadono dagli occhi lacrime di felicità cui seguono quelle di Menelao: "le lacrime sono la mia gioia: hanno una maggior quantità di  piacevolezza che di dolore"(- ejma; de; carmona; davkrua:  plevon e[cei-cavrito" h] luvpa" (654-655).

La gioia dei ritrovamenti e riconoscimenti in tre drammi romanzeschi di Shakespeare.
Nel primo dei drammi romanzeschi (romances) di Shakespeare,  Pericle principe di Tiro (rappresentato nel 1608), il protagonista eponimo ritrova la figlia Marina e la moglie Taisa credute morte. Nel riconoscere la ragazza, il padre sente un grande mare di gioia –(great sea of joy)- che lo assale con tanto impeto da fargli temere che lo anneghi nella sua dolcezza. Quindi chiama a sé la figlia che  generata da lui in circostanze lontane, dopo una ventina di anni rigenera il padre  e lo fa rinascere dalla gioia (V,  i) . La gioia si rinnova  più avanti nel ritrovamento della moglie: Taisa è overjoyed (V, iii) sopraffatta dalla gioia e Pericle associa di nuovo la felicità al rischio della sparizione e del dissolvimento: “I may/ melt, and no more be seen” (V, iii). Infine il marito propone alla sposa ritrovata un abbraccio dove la morte si intrecci con la vita: “O, come, be buried/a second timewithin these arms (V, iii) 
Nel V atto del Cimbelino (del 1610) i riconoscimenti significano il trionfo della virtù incarnata nella principessa Imogene fuggita dalla reggia del padre per non sposare l’uomo che volevano imporle, poi travestitasi da ragazzo, poi caduta in catalessi per un farmaco e creduta morta. Il re di Britannia eponimo di questo romance ritrova i propri figli maschi che gli erano stati rapiti da bambini e riconosce la figlia uscita tornata sé stessa provandone una gioia che quasi lo uccide (the gods do mean to srike me/to death with mortal joy (V, v 9). Postumo l’uomo che Imogene amava riamata, ma l’aveva reputata infedele e odiata in seguito a una calunnia, finalmente viene a sapere come sono andate davvero le cose e riconosce la virtù di Imogene: “The temple/of virtue was she; yea, and she herself” (V, v). Tutti questi riconoscimenti sanciscono la vittoria della verità sulla menzogna e del bene sul male. Alla fine lo sguardo innocente di Imogene lampeggia su Postumo che getta una luce di gioia su ogni cosa e   Cimbelino riassume: “All o’ erjoy’d”(V, v), tutto è pieno di gioia.
     
Il racconto d’inverno (The winter’s tale, 1611) presenta uno schema analogo. Dalla felicità si passa al dolore dovuto al non capire, ma poi la sofferenza porta alla comprensione e riporta la gioia.
Leonte, re di Sicilia, pazzo di  gelosia immotivata, fa chiudere in prigione la moglie Ermione incinta credendo che sia stata ingravidata dal loro ospite e amico Polissene re di Boemia. La donna partorisce una bambina, Perdita, destinata dal padre a morire, poi anche la madre appare morta e viene custodita in forma di statua nella casa della buona Paolina mentre il marito di questa, Antigono porta e abbandona l’infante nella Boemia, poi viene sbranato da un orso. La bambina, come diversi piccoli futuri eroi di tanti miti, non muore  siccome viene salvata dai pastori e diventa una splendidissima adolescente. Sedici anni dopo si reca in Sicilia con il principe di Boemia, Florizel che la ama riamato e viene riconosciuta dal padre da tempo ravveduto e pentito del male che ha fatto. Il riconoscimento di Perdita viene raccontato da gentiluomini di corte invece che recitato dal re e dalla figlia, come succede con i messi delle tragedie greche.
Il terzo gentiluomo riferisce agli altri due che il re quasi saltava fuori di sé per la gioia di avere ritrovato la figlia “being ready to leap out of himself for joy of his found daughter” (V, ii), eppure sentiva ancora il rimorso e il dolore della morte della madre di Perdita. Ma anche questa viene ritrovata poiché la statua conservata nella casa dell’amica Paolina un poco alla volta si rianima  (come la donna velata alla fine dell’Alcesti di Euripide). Leonte dchiara a Paolina che ogni movimento e parola della staua lo rende contento e che non cambierebbe il piacere di quella follia (the pleasure of that madness, V, iii) con la pacatezza dei sensi. Paolina dunque procede con il suo rito di resurrezione: “You perceive she stirs”, come vedete si muove. I numerosi presenti (Leonte, Polissene, Florizel, Perdita, Camillo il barone siciliano che si era rifugiato in Boemia per sfuggire alla follia del suo re, nobili e servitori )  non devono trasalire: “her actions shall be holy as/you hear my spell is lawful”, V, iii) i suoi atti (di Ermione) saranno sacri e il mio incantesimo è lecito afferma Paolina. Quindi Ermione e Leonte si abbracciano. Paolina allora dice : “but it appears she lives,/thought yet she speak not
Anche nell’Alcesti di Euripide- e francamente non so se Shakespeare ne avesse letto una traduzione come aveva fatto con le Vite di Plutarco- il marito Admeto  viene colpito da una  gioia di provenienza ultraterrena-
m  j ejk qeou' ti" ejkplhvssei  carav” (1125), una felicità che però potrebbe essere ingannevole (kevrtomo") siccome  la donna condotta da Eracle sta ferma e non parla “e{sthken a[naudo" gunhv”,  1143). Il figlio di Zeus e Alcmena allora spiega all’ospite che il morto risuscitato deve giungere al terzo giorno prima che sia tolta al dominio degli dèi infernali,  purificata e possa parlare (Alcesti, 1145-1146). Cfr. “Il terzo giorno risuscitò da morte”.
Anche Paolina chiede di aspettare un po’ : “mark a little while”. Quindi ingiunge a Imogene di inginocchiarsi e implorare la benedizione della madre: “fair madam, kneel/and pray your mother’s blessing
E infine a Ermione: “Turn, good lady/Our Perdita is found”. 
Quindi parla Ermione alla figlia e le dice che avuta dall’Oracolo la speranza che la sua bambina non era morta si era mantenuta viva per assistere a questo finale.
Allora la ierofante spinge gli illustri vincitori a dividere con tutti la loro esultanza: “your exultation-Portake to everey one”.
Lo stesso re di Sicilia le chiede: “Good Paulina,/lead us from hence”, “buona Paolina, guidaci via di qui dove possiamo interrogarci l’un l’altro con agio e rispondere spiegando la parte che ha recitato in questo ampio intervallo di tempo, da quando fummo separati. Facci uscire presto”
Sono le ultime parole del dramma.      




[1] Il mito era già stato messo in discussione dalla “pretesa della religione alla fondatezza storica”. Poi con la tragedia, quella di Eschilo, esso si risollevò: “Questo mito morente fu afferrato allora dal rinato genio della musica dionisiaca; e in mano sua esso fiorì ancora una volta, con colori quali non aveva mai mostrati, con un profumo che suscitava uno struggente presentimento di un mondo metafisico”. Ma poi giunse Euripide a dargli il colpo di grazia che aprì la strada a tutti “i beffardi Luciani” dell’antichità: “Che cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di costringere ancora una volta questo morente a servirti? Morì tra le tue braccia violente, e allora sentisti il bisogno di un mito imitato, mascherato, che come la scimmia di Ercole sapeva oramai soltanto adornarsi con l’antica pompa. E come per te moriva il mito, moriva per te anche il genio della musica: per quanto tu saccheggiassi con avide mani tutti i giardini della musica, anche così giungesti solo a una musica imitata e mascherata. E poiché avevi abbandonato Dioniso, anche Apollo abbandonò te”. Nietzsche, La nascita della tragedia , capitolo 10.

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