Etienne Louis Boullee, Progetto per un tempio della Ragione o della Natura alzata, n. 6593 |
Felicità è vivere secondo natura. Osservare la terra madre, osservare il cielo
"Il destino dell'uomo è inserito nell'ordine
divino del mondo; e quando l'ordine divino e il disordine umano vengono al
cozzo, si sprigiona la scintilla della tragedia"[1].
Secondo i
maestri Stoici la felicità consiste nel vivere razionalmente, secondo natura (kata; fuvsin) e secondo virtù (kat j arethvn) e in modo coerente.
Seneca ribadisce che vivere secondo natura per gli uomini è vivere
secondo ragione: sequitur autem ratio naturam. "Quid est ergo ratio?" Naturae
imitatio. "Quod est summum hominis bonum?" Ex naturae voluntate se gerere. (Ep.
66, 39), la ragione segue la natura. Che cosa è dunque la ragione? Imitazione
della natura. Qual è per l'uomo il sommo bene? Comportarsi secondo la volontà
della natura.
La
felicità non dipende dai beni esteriori:"voluptas bonum pecoris est"
(92), il piacere è il bene proprio delle bestie. Si può legare a questa
affermazione la parabola delle perle ai porci del Vangelo ai quali non bisogna
gettare le perle " neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne
forte colcuncent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos "[2],
perché non accada che le calpestino con i piedi e rivolti contro di voi non vi
sbranino. O anche il pullus (ad margaritam )
di Fedro, la bestia "potior cui multo est cibus".
"l'uomo privo di bisogni spirituali, o a[mouso~ ajnhvr"[3] è
il correlativo antropomorfo di tali animali.
Ricorro
a Dostoevskij per significare che una stato d’animo attento e
favorevole alla vita prova gioia nell'osservarla e nel sentirne la presenza in
sé:" Io non so come sia possibile passare accanto a un albero e non
sentirsi felici di vederlo. Parlare con una persona e non essere felice di
volerle bene! Oh, io non so esprimere bene i miei sentimenti (...) ma quante
cose belle vediamo ad ogni pie' sospinto, belle al punto che l'uomo più
abbietto non può che vederle sempre belle? Guardate un bambino, guardate l'alba
divina, guardate come cresce un fuscello, guardate negli occhi che vi guardano
a loro volta e vi vogliono bene."[4].
Il fatto è
che la scrittura e la voce astuta della pubblicità cercano di
costringerci al consumismo e di allontanarci dall'osservazione della
natura. La pubblicità tenta di trasformare gli uomini in maiali, come
Circe hJ suw`n morfwvtria (Euripide, Troiane, v. 437) che dà la forma di
porci.
Guardare il cielo
Nell’Edipo
re di Sofocle (vv.130-131) Creonte spiega al re di Tebe il motivo per
cui non si erano fatte indagini sull’uccisione di Laio:"La Sfinge dal
canto variopinto ci spingeva a osservare quello che era lì tra i piedi ("to; pro;" posi;") e a lasciare perdere quanto non si
vedeva (tajfanh')”.
Se identifichiamo l’invisibile con i fatti dello
spirito, o con le idee di Platone, non visibili attraverso i soli occhi del
corpo, soprattutto quando sono rivolti in basso, e consideriamo "quello
che era lì tra i piedi" corrispondente agli oggetti terreni e
materiali, ecco che il canto ammaliante del mostro nato da un incesto[5] significa un invito a nozze per "l'uomo privo di ogni bisogno
spirituale", o " a{mouso" ajnhvr" che dire si voglia.
Nelle Baccanti di Euripide, Cadmo come vede la figlia
Agave la quale, fuori di sé, ha fatto a pezzi il figlio Penteo e ne brandisce
la testa credendo di avere ucciso un leone, le suggerisce di guardare il cielo
per prima cosa (v. 1264). “So Heracles says on recovering his sanity (Her.
1089-1090) devdorc j a{per me dei`,- /aijqevra te kai; gh`n tovxa
q j JHlivou tavde”[6],
. Così Eracle dice nel recuperare la sua sanità (Eracle 1089)
vedo le cose che devo, il cielo e la terra e questi dardi del Sole.
Guardare il
cielo apre gli occhi dell’anima a Bill , il figlio di Willy Loman,
il commesso viaggiatore di Arthur Miller. Il padre, infuriato in seguito a un
aspro diverbio, gli dice: “E allora impiccati! Fammi quest’ultimo dispetto!
Impiccati!” e il giovane risponde: “No, Willy, nessuno s’impicca! Oggi mi sono
precipitato per dodici piani con una penna in mano. E tutt’a un tratto mi sono
fermato, capisci? In mezzo alle scale mi sono fermato e ho visto il cielo. Ho
visto le cose che mi piace fare a questo mondo. Lavorare e mangiare e
sdraiarmi, fumare una sigaretta. E stavo lì con questa penna in mano e mi sono
detto: ma che Cristo l’ho rubata a fare?”[7].
Giocasta
nelle Fenicie di Euripide dice a Eteocle che anche
gli uomini politici devono seguire le indicazioni provenienti dall’ordine
cosmico che ci fa vedere l’uguaglianza:"kei'no
kavllion, tevknon,-ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv.
535-536), quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza. Infatti
essa è legge cosmica:"nukto;" t j ajfegge;" blevfaron
hJlivou te fw'"-i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543-544), l'oscura
palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora
se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[8],
domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su;
d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E
dov'è la giustizia? Perché tu la
tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n
turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi
che sia un gran che?
Pensi che
essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere
molte pene con molte cose nella casa?
In questa
tragedia dove "Eteocle incentra tutto il suo elogio
della tirannide sul "di più"[9],
Giocasta obietta:"tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j
e[cei monon:/ejpei; tav
g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553-554, che cosa è il
più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi.
Le ricchezze
non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia
kevkthntai brotoiv 555),
noi siamo curatori di cose che gli dèi possiedono (ta; tw'n qew'n
d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono, ce li
ritolgono o{tan de; crhv/zw's j, au[t j ajfairou'ntai pavlin (557).
Una
posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.), quando Callippide
dice a Sostrato che non vuole prendersi un genero e una nuora pezzenti, e il
figlio, il quale vuole sposare una ragazza povera e dare la sorella in sposa al
fratello di lei, risponde al padre che lui non è veramente padrone delle cose
che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de;
pavnt j e[cei~” (v. 801).
Luogo simile in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10,
2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ",
abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.
[2] Matteo, 7, 6. Questo
accostamento me lo ha suggerito il collega Giovanni Polara al convegno di
Lamezia Terme.
[3] Queste definizioni si trovano
nei Parerga e Paralipomena (1851) di A. Schopenhauer. Il
filosofo tedesco afferma che tale individuo non sente alcun impulso alla
conoscenza e non è capace di godimenti estetici; egli si sobbarca ai presunti
piaceri imposti dalla moda e dall'autorità: "di conseguenza le ostriche e
lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua
vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere
materiale" (pp.462-465 del primo tomo).
[5] Secondo Esiodo la Sfinge era
figlia di Echidna e del cane Orto, Teogonia 326). Orto
era figlio di Echidna e Gerione, dunque la Sfinge è nata da un incesto.
[8] Il consiglio di seguire la
natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per
prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum
natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep.
3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il
giorno e la notte.
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