Segnalo una
non conoscenza che è nello stesso tempo non sapienza ed è sempre causa di
infelicità.
Il secondo
coro del Tieste di Seneca (cfr. v. 542 - 544)
conclude anteponendo alla vita dell'uomo famoso e di potere quella del privato
e augurandosi di morire ignoto agli altri, ma noto a se stesso:"me
dulcis saturet quies:/obscuro positus loco,/leni perfruar otio;/nullis nota
Quiritibus/aetas per tacitum fluat./Sic cum transierint mei/nullo cum strepitu
dies,/plebeius moriar senex./Illi
mors gravis incubat,/qui, notus nimis omnibus,/ignotus moritur sibi "
(Thyestes, vv. 393 - 403), mi sazi una dolce tranquillità: rifugiato in
un luogo sconosciuto, possa godere di un dolce tempo tutto per me; la mia vita
trascorra in silenzio sconosciuta a tutti i cittadini. Così quando saranno
passati i miei giorni senza chiasso alcuno, morirò vecchio uno dei tanti. La
morte pesa grave su chi troppo noto a tutti, muore ignoto a se stesso.
Nel secondo
episodio delle Baccanti Dioniso dice a Penteo
“Non sai che
vita vivi, né quello che fai, né chi sei” (v. 506).
Penteo
fornisce i suoi dati burocraticamente
“Penteo,
figlio di Agave e mio padre è Echione” (507)
Quindi
Dioniso interpreta il nomen con l’omen del
dolore: Penqeuv" preannuncia il dolore (pevnqo") dell’uomo predestinato a penare penqei'n.
“Sei
adatto a essere un disgraziato secondo il nome” (508).
Precedentemente,
alla fine del primo episodio, Tiresia aveva detto a Penteo:
Disgraziato!
Come non sai quello che dici!
Oramai sei
diventato pazzo; e già prima eri uscito di senno (Baccanti, 358 - 359)
Poi a Cadmo:
Che Penteo
non porti pena - Penqeu;" d j o{pw" mh; pevnqo" eisovsei
- nella casa
tua,
Cadmo: non parlo profeticamente,
ma secondo i
fatti: poiché quello è folle e dice follie (Baccanti, 367 - 369).
L’ignoranza della propria identità dunque è la più grave. Talora serve a procrastinare
il dolore, aggravandolo, mai a risolverlo
Nell’Edipo re Tiresia, minacciato da Edipo replica con questo
avvertimento maleominoso
"E dico, poiché mi hai rinfacciato anche la cecità:/tu, pur se guardi
fisso, non vedi dove sei nel male/né dove abiti, nè con chi dimori (vv. 412 - 415).
“Il problema dell’identità e dell’origine segna il destino di Edipo che
sarà condotto suo malgrado a scoprirsi altro da ciò che immaginava. Nel caso di
Penteo, la crisi dell’identità è diretto prodotto dello scontro con Dioniso che
fa deflagrare ogni certezza e ogni pretesa di coerenza del suo interlocutore.
E’ rilevante che Dioniso riattivi il modello del Tiresia sofocleo e che insieme
si trovi in una posizione corrispondente al Tiresia del precente episodio del
dramma: se l’indovino aveva ammonito Penteo, qui il dio completa, con una
maggiore e diversa autorevolezza, l’annuncio della catastrofe che non mancherà
di punire la cecità del sovrano”[1].
La conoscenza di se stesso dunque è un preliminare della felicità ed
è un presupposto della definizione e del potenziamento dell’identità: “quella
moltiplicazione di noi stessi che è la felicità”[2].
I gradini dunque possono essere: conosci te stesso gnw`qi sautovn[3], diventa quello che sei[4], accresci quello che sei diventato.
[3] Il
dialogo Carmide di Platone verte sulla swfrosuvnh, e il personaggio Crizia ne dà questa definizione: “fhmi ei\nai
swfrosuvnhn, to; gignwvskein eJautovn”, assennatezza
è conoscere se stessi, e l’iscrizione di Delfi corrisponde a un Cai`re, un salve, un saluto del dio (164d).
Nel Protagora (343 a - b). le scritte delfiche Gnw`qi sautovn, “Conosci te stesso, e Mhde;n a[gan, “Nulla di troppo”, sono esempi di una scuola che ammirava la paideia
spartana e ne impiegava lo stile brachilogico.
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