La difficile
conquista della felicità
Nel quinto
episodio della Medea di Euripide il messo narra la morte atroce di Glauce e Creonte, ossia
della sposa e del suocero di Giasone, e conclude il racconto con questo
commento: “ θνητῶν γὰρ οὐδείς ἐστιν εὐδαίμων ἀνήρ· / ὄλβου δ’ ἐπιρρυέντος εὐτυχέστερος / ἄλλου γένοιτ’ ἂν ἄλλος, εὐδαίμων δ’ ἂν οὔ, “ (vv. 1228 - 1230), nessuno infatti tra i mortali è un uomo felice:
quando passa un’ondata di prosperità, uno può diventare più fortunato di un
altro, ma felice nessuno
Euripide
esprime simile negazione della felicità anche in un verso del prologo della
perduta Stenebea citato da Aristofane: " oujk e[stin
o{sti" pavnt j ajnh;r eujdaimonei'" ( Rane , v. 1217), non c'è uomo che
sia del tutto felice.
Medea,
dopo avere saputo che Glauce ha accettato i doni funesti, aveva riconosciuto il
prevalere dello qumov" sui bouleuvmata e quindi l'irrevocabilità del proposito
di uccidere anche i propri figli pur con la coscienza di perpetrare un crimine
orrendo (kai; manqavnw me;n oi|a dra'n mevllw kakav,/ qumo;" de; kreivsswn tw'n
ejmw'n bouleumavtwn/o{sper
megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'" , vv. 1078 - 1080). Sono dei versi chiave che possono
confutare l’accusa di razionalismo o “socratismo estetico” mossa con insistenza
da Nietzsche a Euripide: “la sua tendenza antidionisiaca si sviò in una
tendenza nsturalistica e non artistica” quindi “potremo ormai avvicinarci
all’essenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona a
un dipresso: “Turro deve essere razionale per essere bello”, come proposizione
parallela al principio socratico: “solo chi sa è virtuoso” (…) Ciò che noi
sogliamo tanto spesso imputare a Euripide come difetto e regresso poetico in
confronto alla tragedia sofoclea, è per lo più il prodotto di quell’incalzante
processo critico, di quella temeraria razionalità”[1].
L'impossibilità
di essere felici mette fuori luogo il mettere al mondo dei figli.
Il Coro di
donne corinzie commenta le prole di Medea sostenendo l'inopportunità di mettere
al mondo dei figli: “Kai; fhmi brotw'n, oi[tinev" eijsin - pavmpan
a[peiroi mhd j ejfuvteusan - pai'da", profevrein eij" eujtucivan - tw'n
geinamevnwn"
( Medea, vv. 1090 - 1093) e affermo che tra i mortali quelli che
sono del tutto inesperti di procreazione e non hanno generato dei figli,
superano nella fortuna coloro che li generarono[2].
La
negazione della felicità e della procreazione sono associate
Forse non è
falso quanto afferma Bernardin De
Saint - Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la
mente piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più
comprendere "quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[3].
Sentiamo
il coro dei morti nello studio di Federico Ruysch
“Sola nel
mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata
cosa,
in te,
morte, si posa
nostra
ignuda natura;
lieta no ma
sicura
dall’antico
dolor” (…)
Lieta no ma
sicura;
però
ch’essere beato
nega ai
mortali e nega a’ morti il fato”[4].
Felicità è,
oltre che moralità, l'accordo con il proprio daivmwn, destino e carattere. L' eujdaimoniva non è possibile se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo il daivmwn che, secondo il mito di Er, ci siamo scelti
prima di tornare sulla terra. "Poiché la felicità alla sua antica fonte
era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che
riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità
all'anima"[5].
Seneca Ep. 80
La felicità
di molti, specialmente quella dei potenti e dei ricchi è mascherata e recitata,
non è reale.
Horum qui
felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia (Seneca Ep. 80,
6), la gaiezza di costoro che sono chiamati felici è finta o è una pesante e
incancrenita tristezza, anche se per loro necesse est agere felicem,
recitare la parte dell’uomo felice in questo humanae vitae mimus,
questa farsa, pupazzata della vita umana.
Omnium
istorum personata
felicitas est. Contemnes illos si dispoliaveris - (8).
Il regnum secondo Seneca è un fallax
bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto
un aspetto seducente:" Quisquamne regno gaudet? O
fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis" (Oedipus, vv.7 - 8), qualcuno gode del regno? O bene
ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera! Sono parole
di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza.
Nello Ione il protagonista eponimo sostiene la superiorità
della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato del
tutto: "del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il
palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de; - luphrav): chi infatti è felice tiv" ga;r makavrio", tiv" eujtuchv" /se,
temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano fortunato
piuttosto che da tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;" - zh'n
a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il
quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di
attentati " (Ione, vv. 621 - 628).
Nelle tragedie greche la peripezia spesso toglie la madchera al re, o al
tiranno, al potente in genere e lo capovolge nel farmakov", il capro espiatorio gettandolo da una condizione fortunata in un
abisso di totale infelicità
Faccio un
paio di esempi
nell'Antigone di Sofocle leggiamo:
"Creonte infatti
era invidiabile (zhlwtov", 1161), secondo me, una volta (potev),/
siccome
aveva salvato dai nemici questa terra di Cadmo,
e, avendo
preso il potere assoluto sulla regione,
la dirigeva,
mentre fioriva per nobile seminagione di figli(hu[qune,
qavllwn eujgenei' tevknwn spora'/);/
ed ora tutto
è buttato via. infatti quando
l'uomo
abbandona la gioia (ta;" hjdonav"), io non ritengo
che sia vivo
costui ma lo considero un cadavere che respira - ajll j e[myucon
hjgou'mai nekrovn"
(vv1161 - 1167). E’ il messaggero che parla, all’inizio dell’esodo subito dopo
il quinto stasimo che cantava l’illusione di un lieto fine.
Nelle Troiane di Euripide la vecchia regina ha perduto tutto e constata che il polu;~ o[gko~ (Troiane,v. 108), il grande vanto degli antenati era un gonfiore che si è dissolto, era oujdevn, niente (109).
Nell’Ecuba la protagonista eponima cercando di salvare
Polissena dice a Odisseo che i potenti non devono comandare quello che non si
deve - ouj tou;" kratou'nta" crh; kratei'n a{ mh; crewvn (Ecuba, 282), e chi ha buona fortuna - eujtucou'nta"
- non deve credere che gli andrà sempre bene. Anche io, aggiunge, l’avevo una
volta, ma un solo giorno mi ha portato via tutto - to;n pavnta d j
o[lbon h\mar e{n m j ajfeivleto (285)[6].
L’Agamennone delle Troiane di Seneca mostra di avere
coscienza di questa legge della rovinosa caduta probabile per chi è salito in
alto quando è al culmine della sua carriera:"Violenta nemo imperia
continuit diu,/moderata durant; quoque Fortuna altius/evexit ac levavit humanas
opes,/hoc se magis supprimere felicem decet/variosque casus tremere metuentem
deos/nimium faventes. Magna momento obrui/ vincendo didici. Troia nos tumidos
facit/nimium ac feroces? Stamus hoc Danai loco,/unde illa cecidit " (vv. 258 - 266), nessuno ha conservato a lungo il potere con
la violenza, quello moderato dura; e quanto più la Fortuna ha levato in alto la
potenza umana, tanto più il fortunato fa bene a trattenersi e paventare le
varie cadute temendo gli dèi che lo favoriscono troppo. Vincendo ho imparato
che i grandi regni vengono sepolti in un attimo. Troia ci rende troppo superbi
e spietati? Noi Danai stiamo in piedi nel luogo dal quale quella è
caduta.
Troviamo un locus analogo nel primo coro dell'Agamennone di Seneca quando le donne di Micene notano che la Fortuna/
fallax (vv. 57 - 58) inganna con grandi beni collocandoli troppo
alti in praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e
insicuro. Infatti le cime sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi
della Fortuna, e predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:"quidquid
in altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae quisquis turbae/sorte
quietus…" (Agamennone, vv. 101 - 104), tutto ciò che la Fortuna
ha portato in alto, per atterrarlo lo solleva. E' più lunga la vita per le
creature modeste: fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua
sorte.
Essere
felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas, una
specie di imitatio Dei, di assimilazione a Dio[7]
:"gli
uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire
ancor meglio quando sono felici ( eâ mn g¦r e‡rhtai
kaˆ toàto, toÝj ¢nqrèpouj tÒte m£lista mime‹sqai toÝj qeoÝj Ótan
eÙergetîsin· ¥meinon d' ¨n lšgoi tij, Ótan eÙdaimonîsi"[8].
[2] Augusto, sofferente per il
comportamento scandaloso delle due Giulie, figlia e nipote, che fece relegare a
Ventotene poiché si erano contaminate di ogni vergogna sessuale ("omnibus
probris contaminatas " in Svetonio, Vita di Augusto , 65), e scontento
anche del nipote Agrippa dall'indole torbida e selvaggia soleva esclamare
sospirando, in greco: "fossi rimasto celibe (a[gamo") e morto senza figli! (a[gono")!".
L’altezza
de’ Troian che tutto ardiva
Sì che
’sieme col regno il re fu casso,
Ecuba
trista, misera e cattiva,
poscia che
vide Polissena morta,
e del suo
Polidoro in su la riva
del mar si
fu la dolorosa accorta,
forsennata
latrò sì come cane,
tanto il
dolor le fe’ la mente torta (Inferno, XXX, 13 - 21). Cerchio VIII,
decima bolgia, Falsari
Nessun commento:
Posta un commento