Cleonice domanda “e
se gli uomini ci piantano?"
Lisistrata “dovremo
scuoiare una cagna scuoiata" (per l’olisbo consumato).
Cleonice disprezza
tali memimhmevna – imitazioni, dicendo che sono insulsaggini fluariva (159). Poi aggiunge che i mariti potrebbero
anche forzarle, ma Lisistrata le insegna che non c’è piacere per coloro che
fanno certe cose per forza “ouj ga;r e[ni touvtoi" hJdonh; toi'" pro;" bivan” (163). E l’uomo non potrà provare piacere
se non c’è quello della donna.
Lampitò annuncia che le donne spartane
sapranno persuadere gli uomini a fare la pace. Ma la folla del popolo ateniese tw'n jAsanaivwn
rJuavceton - dialetto laconico -
chi potrà persuaderla a non fare sciocchezze?
Lisistrata risponde
che ci penseranno loro.
Lampitò ne dubita e
ricorda la smania imperialistica degli Ateniesi maschi.
Lisistrata replica:
“noi donne oggi stesso occuperemo l’acropoli - katalhyovmeqa ga;r
th;n ajkrovpolin thvmeron - 176”.
Le anziane lo stanno già facendo anzi.
Lisistrata propone
un giuramento sullo scudo, come quello descritto da Eschilo nei Sette a Tebe (42 ss.).
E’ nel racconto che
fa il Messaggero a Eteocle a proposito degli a[ndre" eJptav (42).
Cleonice non è
d’accordo sullo scudo che evoca la guerra. Bisogna piuttosto giurare su una
coppa di non versare mai acqua nel vino.
Lampitò approva.
Lisistrata versa il vino nella coppa come se fosse sangue di un porco
sacrificato.
Poi la caporiona
detta le parole del giuramento che Cleonice ripete: oujk e[stin
oujdei;" ou[te moico;" out j ajnh;r (213), ripetute
da Cleonice, nessuno mai né ganzo né marito.
Lisistrata
completa o{sti"
pro;" ejme; provseisin ejstukwv", levge (214), si avvicinerà mai a me con
l’erezione, ripeti - stuvw, ho un’erezione - Cleonice ripete pur mentre le si
piegano le ginocchia.
E
passerò la vita in casa ajtaurwvth (217, cfr. taurovw, trasformo in toro) senza essere
montata.
cfr. Medea quando nel prologo la nutrice
racconta
“Già infatti l'ho
vista mentre fissava con furia taurina 92 tauroumevnhn
questi bambini, come
se avesse in animo di fare qualcosa; e non cesserà
dall'ira, lo so
bene, prima di avere assalito qualcuno.
Spero almeno lo
faccia con i nemici, non con i suoi cari. 95.
Lisistrata poi
suggerisce “ben vestita e imbellettata”
Perché il marito
fiammeggi, arda per me con tutta la forza - o{pw" a[n aJnh;r ejpitufh'/ mavlistav mou - 222
Senza
però compiacerlo mai.
Se
poi mi prende a forza contro il mio volere - eja;n dev m’ a[kousan biavzhtai biva/, io sarò
maldisposta e non mi muoverò.
E
non alzerò le scarpette persiane fino al soffitto (229) indica i piedi
vezzosamente calzati.
Cleonice
deve ripetere tutto e alla fine giurare sotto la maledizione che, se
trasgredirà, la coppa le si riempia di acqua.
Dopo
Cleonice giurano tutte.
Poi
si sente il clamore delle donne che hanno occupato l’acropoli
Lisistrata
e Cleonice si muovono per andare a mettere i chiavistelli
Parodo
vv. 254 - 386
Un coro di vecchi che hanno sulle spalle il
peso di un tronco di olivo verde
Il
Semicoro I esordisce notando che ejn tw'/ makrw'/ bivw/ povll j a[elpt j e[nestin (256), in
una lunga vita molte sono le cose inattese.
Un
topos presente in molti testi, tra i quali la Medea
di Euripide che finisce con questi versi:
Di molti casi Zeus è
dispensatore sull’Olimpo
molti eventi in modo
imprevisto compiono gli dèi;
e i fatti aspettati
non vennero portati a compimento,
mentre per quelli
inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a
finire questa azione (1415 - 1419)
La
conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca , dell'Elena e delle Baccanti è uguale a questa della Medea, tranne che per il primo verso
degli ultimi cinque : " pollai; morfai; tw'n daimonivwn" (Alcesti , v. 1159; Andromaca, v. 1284; Elena, v. 1688; Baccanti, v. 1388), "molte
sono le forme della divinità". L'Ippolito
si conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene
inaspettatamente, ajevlptw~ (v.
1463) è caduto addosso un dolore comune che provocherà un fluire continuo di
lacrime.
L’imprevisto
è che le donne a}"
ejbovskomen - kat j oi\kon ejmfane;" kakovn, che nutrivamo in casa, male ben
noto, si sono impadronite dell’Acropoli e hanno bloccato i propilei con
chiavistelli e serrami (265).
Il
Corifeo fa fretta agli altri vecchi (wJ" tavcista) perché lo seguano nel portare i
tronchi dove verranno ammucchiati per bruciare le donne.
Il
Semicoro II esprime la paura tipica degli eroi: quella della derisione, un
oltraggio da evitare a costo del suicidio (cfr. Aiace di Sofocle) e dell’assassinio perfino dei figli.
(cfr.
Medea di Euripide 404 - 407)
Vedi quello che
subisci? non devi dare motivo di derisione
ai discendenti di Sisifo per queste nozze di
Giasone,
tu che sei nata da
nobile padre e discendi dal Sole.
Il semicoro II
dunque giura: no, per Demetra, finché sono vivo io non si faranno beffe di me -
ouj ejmou'
zw'nto" ejgcanou'ntai (ejgcaivnw, spalanco la bocca per
sfghignazzare).
Quindi
i vecchi ricordano che nemmeno il re di Sparta Cleomene che occupò l’acropoli
nel 502 la passò liscia, anzi dopo due anni di assedio con quel suo spartano
darsi arie Lakwniko;n
pnevwn
- 276 - dovette andarsene peloso - ajparavtilto" - parativllw - (e
cfr. l’essere depilate invece delle donne) e sudicio non lavato da sei anni e{x ejtw'n
a[louto"
(280).
Il
Corifeo ricorda di nuovo l’impresa e aggiunge che a maggior ragione ora saranno
capaci di trattenere da tale ardimento queste donne odiose a Euripide e a tutti
gli dèi - tasdi;
de; ta;" Eujripivdh/ qeoi'" te pa'sin ejcqrav" (283).
Cfr.
Le Tesmoforiazuse dello stesso anno.
Il personaggio Euripide dice al suo parente: “le donne hanno tramato contro di
me (aiJ
ga;r gunai'ke" ejpibebouleuvkasiv moi, 82). Perché? domanda il khdesthv", e il
drammaturgo risponde: oJtih, tragw/dw' kai; kakw'" aujta;" levgw (84)
poiché faccio tragedie e dico male di loro.
Il
I semicoro lamenta la fatica della salita con i tronchi sulle spalle
Hanno
anche dei tizzoni ardenti in una marmitta da dove schizzano delle faville
bruciando gli occhi. L’impresa è dunque epica.
Il
Corifeo dà disposizioni per l’assedio con il fuoco che bruci le porte e il fumo
che tormenti le donne, poi invoca devspoina Nivkh, Vittoria sovrana che li aiuti a
innalzare un trofeo sull’ardire delle donne (gunaikw'n qravsou", 318).
E’
l’eterna paura che ha l’uomo della donna.
La paura della donna
suggerisce al Catone il vecchio di Tito Livio alcune parole sulla necessaria
sottomissione della femina al fine di tenere sotto controllo una natura
altrimenti intemperante.
Così si esprime il
censore quando parla, nel 195
a . C., contro l'abrogazione della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone[1]
le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore
dell'annullamento della legge:" Maiores
nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore
voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum...date frenos impotenti
naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae facturas...omnium rerum libertatem, immo licentiam , si vere dicere volumus,
desiderant " (XXXIV, 2, 11 - 14) i nostri antenati non vollero che le
donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore, e che stessero
sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti...allentate il freno a
una natura così intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure che si
daranno da sole un limite alla licenza...desiderano la libertà, anzi, se
vogliamo chiamarla con il giusto nome la licenza in tutti i campi.
E continua: “Extemplo simul pares
esse coeperint, superiores erunt (XXXIV, 3, 2)” appena avranno cominciato
ad essere pari, saranno superiori
Marziale
(40 ca
- 104 d.C.) nella clausula
di un suo epigramma:" Inferior
matrona suo sit , Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares
" (VIII, 12, 3 - 4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non
altrimenti l'uomo e la donna diventano pari.
Interviene
in scena il Coro di donne che hanno visto il fuoco e il fumo. Anche questo è
diviso in due semicori.
Il
semicoro I esecra i vecchi maledetti, ma anche le donne hanno paura fobou'mai (327).
Se
non ci fosse, quando non c’è questa paura dell’altro sesso del sesso altro,
quasi estraneo all’umanità, equivalente alla fobìa del popolo straniero è molto
più difficile indurre i poveri a morire in guerra.
Le coreute stanno comunque portando l’acqua
per spengere il fuoco.
Il
Semicoro II invoca Atena e chiede aiuto per le assediate che vogliono salvare
dalla guerra, e dalla follia, l’Ellade e i cittadini. Le donne hanno occupato
il tempio della dea con questo scopo.
Orazio
nella prima Ode del primo libro menziona le guerre maledette dalle
madri:" bellaque
matribus/ detestata" (vv. 24
- 25).
Il poeta di Venosa chiama il dio Marte torvus in Carmina I,
28, 17 e cruentus in II, 14, 13.
II corifeo definisce pra'gm j
ajprosdovkhton una faccenda inattesa lo sciame di donne ejsmov" gunaikw'n (353) che
arriva per aiutare le assediate dal fuoco.
Il Corifeo dei
vecchi ricorda Ipponatte (VI sec. a. C.) che scrive: “lavbetev meu taiJmavtia,
kovyw Bouvpalon to;n ojfqalmovn (fr - 70 D.), tenetemi il mantello: darò un
pugno a Bupalo nell’occhio.
“Se
qualcuno avesse colpito costoro due o tre volte nelle mascelle come Bupalo, non
avrebbero più voce” ( fwnh;n a]n oujk ei\con, Lisistrata,
361).
Il
corifeo la minaccia: se non taci ti sgranerò la vecchia pelle a furia di botte ejkkokkiw' to;
gh'ra"
(364) - ejkkokkivzw
- ejn e kovkko", granello,
chicco.
I
due vecchi si insultano a vicenda finché il maschio menziona Euripide - sofwvtero"
poihthv"
del quale non c’è poeta più sapiente, citandone, o parodiandone, un verso: “oujde;n ga;r ou{tw
qrevmm j ajnaidev" ejstin wJ" gunai'ke" - 369,
infatti nessun animale è così impudente come le donne.
I
vecchi corifei dei due cori si scambiano battute salaci e minacce: il maschio
con il fuoco, con l’acqua la donna che al nemico dice anche: “a[rdw s j o{pw" ajmblastavnh/", ti
annaffio perché tu rifiorisca.
Il
vecchio fa: io sono secco e tremante. E la donna: allora scaldati col fuoco.
Sentiamo
Pirandello sui contrasti in Aristofane, sulle sue burle spietate, sulla
mancanza di umorismo, cioè di compassione e carità.
“In
Aristofane non abbiamo veramente il contrasto, ma soltanto l’opposizione. Egli
non è mai tenuto tra il sì e il no[2]
egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no testardamente, contro ogni
novità, cioè contro la retorica, che crea demagoghi, contro la musica nuova,
che, cangiando i modi antichi e consacrati, rimuove le basi dell’educazione, e
dello Stato, contro la tragedia di Euripide che snerva i caratteri e corrompe i
costumi, contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti
indocili e atei, ecc.
(…)
la burla è satira iperbolica, spietata. Aristofane ha uno scopo morale, e il
suo non è mai dunque il mondo della fantasia pura. Nessuno studio della
verisimiglianza: egli non se ne cura perché si riferisce di continuo a cose e
persone vere (…) e non crea una realtà fantastica come, ad esempio, lo Swift
(…) Umorista non è Aristofane ma
Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento
solo, unilaterale. Aristofane dunque, se mai, può essere considerato umorista
soltanto se noi intendiamo l’umorismo nell’altro senso molto più largo, e per
noi improprio, in cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira,
la caricatura, tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni”[3].
CONTINUA
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