la Puszta |
L’ospedale di Debrecen e il segno purgatoriale
Al di là del tempio cristiano la strada entra nell’ombra di
grandi alberi che via via si infittiscono fino a formare la foresta nel cui
centro c’è il collegio dove avrei passato il mese seguente cercando di
restaurare la mia vita in rovina. Sarei andato spesso a camminare nel bosco
fitto - frequens lucus - di alberi
antichi che circonda il complesso universitario.
Il secretum loci, la solitudine del luogo
arcano, mi avrebbe aiutato a riflettere sugli errori fatti terminato il liceo,
a correggerli, a risollevarmi. Dopo circa tre chilometri, la mia scassata
Seicento sbucò in una radura assolata dove vidi un grande edificio di stle
neoclassico con la scritta sesquipedale e incomprensibile Orvostudomáyegyetem.
Sorgeva in una piazza vasta dove il tram numero 1 era in
sosta, non sapevo se voluta, o dovuta a una qualche paralisi.
Pensai di essere
arrivato all’Università estiva della mia borsa di studio. Parcheggiai
l’automobile, attraversai un portone monumentale, entrai nell’atrio e proseguìi
verso il giardino dove si affacciavano porte e finestre. Cercavo una plausibile
segreteria per presentarmi e ricevere l’alloggio che mi spettava. Ma tra i
fiori e le erbe camminavano a stento, o sedevano sulle panchine, diverse
persone per lo più anziane e malandate. In pigiama per giunta. Altri, meno
vecchi e malmessi, giravano affaccendati vestiti con camici bianchi. Capìi che
ero finito nell’ospedale di Debrecen, forse il nosocomio di tutta la puszta.
“Buon segno o
presagio sinistramente ominoso, preludio allo sfacelo definitivo?” mi domandai.
“Debrecen mi curerà e guarirà, o la mia decadenza è
irredimibile, la caduta precipitosa, a testa in giù, è irreversibile, e la puszta sarà la meta dell’ultimo viaggio?
Ho percorso 1200
chilometri così laboriosi per arrivare a una tomba
sperduta? Chi mi dirà "Vale, passando, e ti sia lieve il suol?”. Aggiunsi altre
domande del genere con un pizzico di ironia per non scivolare nell’eccesso
plebeo della posa tragica che rischia di assumere maschere così deformate da
apparire ridicola.
Ricordando tali quesiti, ora sorrido di quella infelicità
attenuata da un barlume di intelligenza e dalla volontà di capire. Con il tempo
e la visione d’insieme, il panorama vasto e vario presentato dagli anni passati
vivendo e riflettendo, ho capito che i presagi sono sempre buoni per le persone
buone e intelligenti, basta capirne il significato notando i nessi. Nulla
avviene per caso. I fatti interferiscono insieme. C’è una series causarum,
una concatenazione di cause, eiJrmo;" aijtiw'n. Tutto è causato e accade
necessariamente, nulla è casuale. Quello che appare tale, è una causa che
sfugge all’intelligenza: la suvnesi"
che è capacità di mettere insieme cose anche lontane. Tutta la natura è
congeniale a se stessa, come mi ha suggerito Platone[1].
Ricordai la preghiera di Ecuba nelle Troiane di Euripide portate all’esame di maturità tre anni prima,
la contaminai con un’espressione dell’Agamennone
di Eschilo, alzai gli occhi al cielo e mormorai: “Dio, chiunque tu sia[2],
difficile da conoscere, sia necessità di natura, sia intelligenza dei mortali [3],
aiutami”. Un uccello dalle ampie ali attirò la mia vista: pensai che fosse una
risposta, un o{rni" profetico,
e chissà, forse pure ai[sio"[4].
I libri mi hanno aiutato. Anche con le donne, fin da bambino:
in casa nostra le zie, la mamma le nonne disprezzavano e maltrattavano i maschi
adulti, ma tenevano in pregio me perché ero bravo a scuola. Poi altre donne via
via: grazie ai libri letti sapevo parlare, ascoltare, comprendere.
Cinque anni più tardi,
nel 1971, in
quell’ospedale accompagnai Elena che aveva bisogno del mio aiuto e me ne fu
molto grata favorendo il mio definitivo riscatto dall’infelicità. Ora comprendo
che essere entrato nel nosocomio per sbaglio non fu un fatto casuale ma un
presagio di felicità.
Ma torniamo al 1966. A uno dei biancovestiti domandai
dell’Università, in inglese. L’ospedaliero con il dosso della mano destra mi
fece segno di uscire e di girare a destra.
“Segno purgatoriale” [5]
pensai. Ero sulla strada buona: quella di intendere i segni.
Poi mi avviai verso la vecchia Seicento, incerto se
procedere a piedi lungo i binarii per esplorare il luogo oltre la piazza dove
tizzi lanciati dal sole già alto guizzavano sul selciato, oppure seguire in
automobile il giro del tram che si era mosso piegando verso sinistra, ossia
iniziando il ritorno alla stazione. La cosa mi fece tristezza: ero appena
arrivato e non volevo retrocedere subito. Invero ne ero pure tentato: tornare
indietro, evitare la prova, schivare il confronto con ragazzi non tanto
sconciati quanto ero io in quel tempo. Però mi venne in mente la bravura, il
mio primeggiare di una volta, ricordai Achille che cedere nescius [6], non
si lascia bloccare dalla profezia del cavallo fatato Xanto, e gli
risponde: "ouj lhvxw"[7].
Ripetei quelle parole eroiche a me stesso, prima in greco, poi in italiano: “non
cederò”. Mi piacqui: lo avrei ripetuto in inglese alla prima straniera che si
fosse lasciata corteggiare. Anche alla seconda magari. Ma come si diceva? Ricordavo
to yield, forse da Shakespeare. Al
ginnasio ci avevano insegnato a leggere il Macbeth
(domani e domani e domani…) e il Giulio Cesare
(amici, Romani, concittadini, io vengo per seppellire Cesare, non per lodarlo) ,
ma non a parlare l’inglese corrente. Del resto avevo sentito dire da un
professore di Glottologia donnaiolo che le lingue si imparano a letto.
La mia mente riprendeva a orientarsi sulla stella polare
della vita
I come to revive not to bury myself, mi dissi.
Si
stava aprendo la via della salvezza.
giovanni ghiselli
CONTINUA
[3] Cfr. Euripide, Troiane, 886-887
[4] Favorevole. cfr. Sofocle, Edipo re, v. 52
[5] Cfr. Dante, Purgatorio, III, 100- 102: “Così il
maestro; e quella gente degna/ ‘tornate’ disse; ‘intrate innanzi dunque’/coi
dossi della ma faccendo insegna”
[6]Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta ira di Achille
incapace di cedere.
[7] Iliade , XIX, v. 423.
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