Bosch, I sette peccati capitali |
La cena porcina.
Il risveglio con il sole
All’Hungaria
mangiai molto, carne e tante patate in umido, sebbene già durante il giorno,
viaggiando, avessi inghiottito pane e cioccolata.
Dalla mia bocca
usciva d’ogni parte una zanna come a un porco[1].
Altra gente
intorno a me ingoiava con ingordigia.
Unti entravano nelle fauci i bocconi. Per la fretta
frenetica alcuni cadevano dalle labbra nel pavimento[2].
Ogni tanto qualcuno entrava in bagno con la pancia gonfia
del maiale crudo, non digerito. Uno di loro non ne uscì più con le sue gambe[3].
Vennero a prenderlo degli infermieri e lo portarono via disteso, poi lo
caricarono sull’ambulanza. Ci fu un applauso scrosciante. Molti avevano le
lacrime agli occhi. Lo vedevamo già nella bara.
A un certo punto i miei intestini cominciarono a fare rumore
e dovetti correre nella latrina. Nemo nostrum solide natus est [4],
pensai liberando le budella dall’aria fetida. Sebbene degradato a condizione
bestiale non avevo osato avvalermi dell’editto preparato dall’imperatore
Claudio, quo veniam daret flatum crepitumque ventris in convivio emittendi [5].
Tornai nella sala da pranzo, ructabundus e mezzo ubriaco.
Osservavo le facce attonite e rubiconde dei miei vicini.
Le loro vite e la
mia avevano lo scopo di fare da filtro a cibi e bevande, per divenire ogni
volta infermieri del corpo infarcito.
Il motivo di quel rimpinzarsi era l’infelicità
esistenziale, in particolare quella sessuale. I felici non sono ghiotti. “Per
me è impossibile chiamare vorace uno dei beati: me ne tengo lontano”, avevo
letto nell’Olimpica I di Pindaro[6].
Lo ricordai e lo riferii a me stesso, con pena.
Facendo così,
mangiando da vero animale, rendevo sempre più difficile la soluzione del
problema di fondo: il buon esito della ricerca di una femmina umana. Non ne
avevo chiara coscienza, ma ne sentivo l’angoscia mentre mi ingozzavo senza
fame. Non riuscivo a tenermi lontano da quel vizio che faceva parte della
generale perversione e contorsione-diastrofhv-
della mia natura: finito il liceo aveva perduto l’ojrqo;" lovgo" la ragione che deve mantenersi
diritta di fronte a qualsiasi lusinga e pure a ogni dolore. Mi ero snaturato
quasi del tutto. Il cibo funzionava come un anestetico pessimo che toglie ogni
sensibilità tranne quella del dolore. Forse attraverso quel mangiare smodato
volevo raggiungere il peso e l’insensibilità di un bove: "semibovemque virum semivirumque bovem”[7],
mormorai.
Ci voleva una diovrqwsi",
un raddrizzamento, una correzione e questa poteva venire solo dall’amore di
persone buone. Il seguito della storia di Debrecen ce le farà conoscere.
Quando quel cibo
pesante mi ebbe riempito fino alla gola, con fatica mi alzai e uscii.
Tornai all’Aranybika e andai a letto con
l’angoscia di non farcela il giorno dopo a trovare l’università, o, se pure
l’avessi trovata, a inserirmi tra le ragazze e i ragazzi: tutti certamente più
belli, meno infelici, meno grassi, meno miopi, meno cariati e sconciati, meno
colpevoli e soprattutto meno insicuri di me.
La mattina mi
alzai e uscii dall’albergo per tempo. C’era il sole e il corso brulicava di
gente.
Con l’automobile mi avviai nella direzione
indicata seguendo i binari del tram numero uno, l’unico invero dell’unica linea
tranviaria, che, girando ellitticamente, collega la stazione all’università e
viceversa: Egyetem - Pályaudvar[8]
- Egyetem: i due fuochi dell’ellisse di ferro. La luce mi confortò. ajnovrqwoson seautovn, mi sussurrai,
“raddrizza te stesso, ‘adesso mi chiama il destino’, direbbe un personaggio
della tue tragedie”.
CONTINUA
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it
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[1]
Cfr. Dante Inferno XXII, 35.
[2] Cfr. Persio, Satira III, 102 “Uncta cadunt laxis tunc pulmentaria labris”
[3] Cfr. Giovenale, Satira
I, 142-144
Poena tamen praesens, cum tu deponis amictus,
turgidus et crudum pavonem in balnea portas:
hinc subitae
mortes, però la punizione è presente,
quando deponi le vesti gonfio e porti nel bagno il pavone non digerito: di qui
morti improvvise
[4]
Satyricon 47. Sono parole di
Trimalchione
[5] Svetonio Vita
di Claudio, 32
[6]
ejmoi; d j a[pora gastrivmagon makavrwn
tinj eijpei'n: ajfivstamai (52-55)
[7]
Ovidio Ars amatoria (II,24).
[8]
Stazione, come ho detto sopra.
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