con amici in Ungheria |
Capitolo dedicato all'amico Stefano presente e vivo nella mia mente
Sistemai alla meno peggio la
roba, piuttosto brutta poiché in quel tempo le imperiose donne di casa mi
avevano concesso, per carità, la vecchia automobile e un poco di soldi, però
continuavano a mandarmi in giro malconcio, quando invece la mia insicurezza tragica
avrebbe tratto conforto dal potermi presentare meno malmesso. Mentre mi avviavo a uscire dalla stanza, salutai i
tre compagni dicendo che ci saremmo rivisti all’ora di pranzo. Fulvio ricambiò
cordialmente e sobriamente con “Ciao gianni, ci vediamo più tardi”,
rendendomi lieto solo con il nominarmi, siccome allora ero disgraziato al punto
che quasi nessuno mi chiamava gianni per esigere la mia attenzione o impormi
dei servigi, ma usavano il cognome o nomignoli spregiativi cui rispondevo tanto
ero precipitato in basso, spinto da vari colpi, compresi quelle che mi
infliggevo da solo.
Luigi mi salutò con un
triplice ciao e con gesti teatrali della mano sinistra, dandomi altro coraggio;
Danilo accompagnò la mia uscita con una fragorosa girandola di “caro da Dio,
Dio caro, vieni benedetto, vieni a pranzo con noi, così ci faremo la bevutina
della conoscenza dei più bei scavesacoi d’Italia. Dobbiamo festeggiare e
consacrare con Dioniso questo incontro
benedetto da Dio!” Fu in quel momento
preciso che cominciai a vedere il lui il tipo o la maschera tipica del veneto, vini avidum genus, ma non mi dispiacque,
e anzi continuavo a vedere in lui una forma gioiosa di ebbrezza, messa per
giunta in rilievo dal rosso del volto che credevo acceso dal sole.
Uscii dal collegio per
esplorare l’ambiente e guardare le studentesse arrivate da ogni paese non
fascista d’Europa. Mancavano infatti solo le Iberiche e le Greche, non invitate nella repubblica popolare Magiara
per via dei loro regimi. Speravo che i miei sguardi da accattone dell'amore venissero
contraccambiati. Come si raccomandavano! Sapevo che l’avverarsi di quel desiderio era possibile solo
molto remotamente, ma ero pur arrivato in un mondo davvero strano e remoto, un
luogo dove mi avevano invitato chiamandomi per nome, trattandomi da essere
umano, non da bestia o da mostro come
facevano quasi tutti negli ultimi anni, perciò nulla era del tutto impossibile,
nemmeno che una donna bella e fine guardasse me imbruttito, cioè brutto assai e
avvilito parecchio.
Ma tali speranze vennero contraddette
dal fatto che le fanciulle italiche, galliche, o scitiche, o iperborèe che
fossero, non mi guardavano punto, né mi facevano torto siccome avevo la pancia,
una linea da pinguino rimbecillito, un’espressione torbida dietro gli occhiali,
i capelli luridi misti a festuche e la pelle tutta foruncolosa. Per giunta
avevo indosso una maglia rossa sgualcita e sdrucita, il purpureum vestimentum di chi è stato maltrattato a lungo dagli
uomini e dalla vita. Non avevo in testa la
corona spinea del Cristo, tuttavia un’anziana di passaggio, forse una
professoressa, indicandomi a un tale, disse: “Ecce
homo”[1]. Non
me ne offesi, anzi, nell’ottimismo del momento, pensai " buon segno: significa
che tra pochi giorni risorgerò”.
Non mi guardavano le giovani
donne, ma io le guardavo lo stesso. Mi venne in mente “non io, non già ch’io
speri vi ricorro allo sguardo”[2], ma
ricacciai presto il pensiero malato e lo corressi con il farmaco buono che Fulvio, Luigi e Danilo mi avevano donato.
Guardando le femmine umane
pensavo: “la terra è in mezzo alle stelle e qui sulla terra ci sono tali
creature variopinte come la vita, profumate non meno dei fiori che costellano i
prati. Non cederò, non rinuncerò mai alla speranza di partecipare a tanta bellezza,
a tanta grazia di Dio. Mi erano venute in mente queste due parole del’irriducibile
eroe figlio di Tetide, ouj lhvxw”[3].
Sul prato davanti al collegio si trovava un gruppo di fanciulle. Erano giovani femmine umane policrome poiché avevano non solo gli abiti estivi variopinti con diversi colori, ma di colori diversi avevano anche i capelli folti e le epidermidi, pur tutte lisce e splendidamente abbronzate.
Le ragazze sedute o distese,
o inginocchiate, o erette sull’erba venivano da varie parti d’Europa: dalla gelida
Scandinavia, dalle grandi distese sarmatiche, dalle bianche, piovigginose
scogliere del nord, dalle calde, brunite penisole e isole del mare nostro
solare. “Diverse - pensai - ma belle son tutte kalai; de; pa'sai[4], creature di gioia e di poesia”.
Quel prato così variegato
dalle ragazze e illuminato con forza dai raggi del sole, quel verde screziato dai fiori, perfino le
dense ombre meridiane stampate dalle femmine stesse, dai bassi cespugli e dalle
alte querce, alberi antichi, di maestà dodonèa, vocali e profetici quando le
foglie venivano mosse da un vento di paradiso
che accarezzava i capelli di quelle fanciulle che scendevano folti simili ai
fiore del croco o del giacinto[5],
tutto quel luogo sarebbe diventato nella memoria uno dei sacrari del mito, della poesia di Debrecen e
della mia gioventù.
Lì avrei giocato a palla e mi
sarei abbronzato a mezzo il giorno dopo le ore di lezione, lì avrei cantato con
gli amici e le amiche sotto la luna rugiadosa che cospargeva di perle le nostre
teste contente, di lì avrei guardato le donne belle e fini che volevo tutte per
me: Eva, Helena, Kaisa, Paivi, prima con desiderio ansioso, poi rassicurato dal loro
comportamento, con gratitudine a Dio, a me stesso e soprattutto a quelle
creature. Ed ero felice.
Ma questa meravigliosa situazione dovevo
provocarla e costruirla con il tempo utilizzando le occasioni, impiegando
l’intelligenza e la volontà.
Nessun commento:
Posta un commento