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mercoledì 26 dicembre 2018

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 1

un esempio di tiranno: Dionigi di Siracusa

La passione del potere. La vanità del potere
18 dicembre 2018

I lezione sintesi:
Il Potere. La figura del tiranno. Il persiano Otane, la teoria antitirannica, e l’isonomia che è altra cosa dalla democrazia ateniese la quale, secondo alcuni critici, sarebbe stata una specie di dittatura del proletariato. Platone e la critica della democrazia. Senofonte, Tucidide e Polibio. Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico della negatività del potere assoluto. Tirannide e antitirannide in Eschilo. Nelle Supplici di Euripide Teseo è il Pericle in vesti eroiche. Tebe è il paese guasto, mentre Atene è la polis sana che è retta con giustizia e protegge i supplici (Supplici, Eraclidi di Euripide; Edipo a Colono di Sofocle). Difetti della paideia spartana secondo Euripide (Andromaca). Il potere incontrollato. Ancora il mouvnarco~ di Erodoto. Euripide, Platone. Tito Livio e Bruto, il falso sciocco, l’ossimoro vivente, come Amleto. L’invidia del tiranno: Tacito. Intellettuali e potere: Pasolini, Augusto e gli storiografi martiri. La zoppia del tiranno. Il tiranno è ignobile, servile e impotente. La paura del tiranno, genitivo soggettivo e oggettivo. Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide

Seneca maledice il potere tirannico. Il potere è razionale e morale solo se esercitato al servizio dei sudditi. L’ira del tiranno. Il tiranno, come lo schiavo calpesta la fides che è un valore solo per le persone oneste. L’uguaglianza. Le obiezioni di Giocasta a Eteocle nelle Fenicie. Precarietà del possesso delle ricchezze. Euripide, Menandro e Seneca. Il senso della misura e la teoria della classe media.

“Chi vuole vedere quali sieno e pensieri de’ tiranni, legga Cornelio Tacito, quando referisce gli ultimi ragionamenti che Augusto morendo ebbe con Tiberio”[1].

Nella Medea di Seneca la protagonista prova a chiedere giustizia con un processo equo ma Creonte afferma il valore assoluto del suo ordine:"aequum atque iniquum regis imperium feras" (v. 195), giusto o non giusto, rassegnati all'ordine del re. Infatti esso è insindacabile.
Medea prova a obiettare che l'iniquità è una base instabile per un regno:"iniqua numquam regna perpetuo manent" (v. 196), i regni iniqui non durano mai a lungo.
 L'iniquità consiste nel non ascoltare la parte avversa:"qui statuit aliquid parte inaudita altera,/aequum licet statuerit, haud aequus fuit" (vv. 199-200), chi ha emesso una sentenza senza avere ascoltato l'altra parte, anche se ha decretato il giusto, non è stato giusto.
Del resto il tiranno che fa, e pure ha paura, non lascia parlare, abolisce la parrhsiva che è la cellula della democrazia.
 Nell'Antigone la protagonista rinfaccia a Creonte che il suo gesto sarebbe approvato dal popolo se non fosse per la paura del tiranno:" Si potrebbe dire che a tutti questi questo/piace, se la paura non serrasse la lingua" (eij mh; glw'ssan ejgklh/voi fovbo" , vv. 504-505).
Il tiranno inceppa le lingue anche nel Macbeth: “This tyrant, whose sole name blisters our tongues-old latin dingua” (IV, 2), questo tiranno, il cui solo nome, fa venire vesciche sulla lingua, afferma Malcom, uno dei figli del re Duncan ucciso da Macbeth.
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il dibattito costituzionale, contrappone alla monarchia il potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: "ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti il dh'mo" esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo: "uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei" (III, 80, 6).
Erodoto attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia degenera inevitabilmente in tirannide.
 Tra i sette nobili Persiani parlò anche Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l'inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell'aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori. Prevalse Dario con l'argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca. Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw" (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[2].
Il tiranno ha la passione del potere, Otane quella del non-potere

Una forte tendenza al rifiuto di obbedire è spesso accompagnata da una tendenza altrettanto forte al rifiuto di dominare e di comandare”[3] .
Sentiamo Bertolt Brecht:
“Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto, e mi hanno educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né essere servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
Con la gente del basso ceto”[4].

Credo di avere riconosciuto un’eco di questa splendida affermazione che condivodo nel film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore, deve fare un discorso che legittimi ed esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il barbiere non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice: “I’m sorry, but I don’t want to be an emperor. That’s not my business. I don’t want tu rule or conquer anyone”, mi dispiace, ma io non voglio essere imperatore, non è il mio mestiere, io non voglio governare o conquistare nessuno.
E continua: “I should like to help everyone(…) greed has poisoned mens’s souls”, mi piacerebbe aiutare tutti…l’avidità ha avvelenato le anime umane.
Il film di Chaplin può essere commentato con un verso delle Baccanti di Euripide: mh; to; kravto" au[cei duvnamin ajnqrwvpoi" e[cein (310) non presumere che il potere abbia potenza sugli uomini. Lo dice Tiresia a Penteo.
Il potere dunque non è potenza come “il sapere non è sapienza” “to; sofo;n d j ouj sofiva” (v. 395). Questo verso invece fa parte del I stasimo cantato dalle Menadi

Del resto Otane usa il termine ijsonomivh, uguaglianza davanti alla legge, parità di diritti, per designare plh'qo~ a[rcon (III, 80, 6), il governo del popolo.

Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida…la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso della Repubblica di Platone addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[5].
Il filosofo nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo (558c). E' una costituzione piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa).

 Platone mette in rilievo il cambiamento di valore delle parole quando passa in rassegna le forme costituzionali: nello stato democratico gli appetiti (ejpiqumivai) prendono possesso dell'acropoli dell'anima del giovane-è il potere delle passioni-, poi questa viene occupata da parole e opinioni false e arroganti (yeudei'" dh; kai; ajlazovne" (…) lovgoi te kai; dovxai 560c) le quali chiamando il pudore stoltezza (th;n me;n aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"), lo bandiscono con disonore; chiamando la temperanza viltà (swfrosuvnhn [6] de; ajnandrivan), la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte" ejkbavllousi), e mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta de; kai; kosmivan dapavnhn) persuadendo che sono rustichezza e illiberalità (ajgroikivan kai; ajneleuqerivan 560d).
E non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di molti inutili appetiti transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli nell'anima e chiamano la prepotenza buona educazione (u{brin me;n eujpaideusivan kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan de; ejleuqerivan), la dissolutezza magnificenza (ajswtivan de; megaloprevpeian), e l'impudenza coraggio (ajnaivdeian de; ajndreivan 560e-561). L’uomo così corrotto vive a casaccio, e la sua vita non è regolata da ordine (tavxi") né da alcuna necessità (ajnavgkh). Si capovolgono pure i rapporti umani: il padre teme il figlio, il maestro lo scolaro, i vecchi imitano i giovani, per non sembrare inameni e autoritari (563).

Anche il popolo può essere tirannico: dopo la battaglia delle Arginuse (406 a. C.) il dh'mo" ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche I, 7, 12).
"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", è, come vedremo, "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole").[7]
Un’ altra espressione di condanna di questa negazione dello Stato di diritto si trova nell’Ifigenia in Aulide[8] di Euripide quando il coro delle donne calcidesi lamenta che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù, mentre regna l’empietà, e la licenza prevale sulle leggi “ajnomiva de; novmwn kratei'” (v. 1095),

“Nulla era più strano di questo popolo sovrano di Atene. Sempre geloso della sua democrazia, sempre febbrilmente ansioso a ogni grido d’allarme contro le minacce oligarchiche e tiranniche, esso si abbandonava ciecamente alla guida capricciosa, interessata e spesso irragionevole dei demagoghi. Così, mentre libertà e uguaglianza valevano al di sopra di ogni cosa, il demos stesso esercitava malignamente l’oppressione più dura e più dispotica sui ricchi e sui nobili, ai quali imponeva senza riguardo liturgie e incombenze d’ogni sorta; anzi il massimo piacere dei giurati era comminare condanne severe, perfino ingiuste, agli imputati più illustri, nonostante la loro nobiltà e la loro ricchezza. Gli ottimati ricorsero allora al mezzo che appariva più a portata di mano: associazioni o eterie furono allargate fino a diventare clubs politici, destinati a promuovere il sostegno reciproco fra i loro membri in caso di elezioni e di processi” (Droysen, Aristofane, p. 114).


CONTINUA



[1] F. Guicciardini, Ricordi, 13.
[2] Diodoro Siculo  racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq  j uJperevcein mhvq  j uJpopivptein a[lloi~  kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze. 
[3] Hannah  Arendt, Sulla violenza, p. 41.
[4] Scacciato per buone ragioni in Poesie di Svendborg del 1939.
[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[6] Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Giusto dà inizio alla sua parte dei disso;i lovgoi ricordando che la swfrosuvnh una volta era tenuta in conto come la quintessenza dell'educazione antica (vv. 961 sgg.). Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (v. 961) infatti la castità (swfrosuvnh, v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).
[7]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.
[8] Rappresentata postuma nel 405 o nel 403.

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