un esempio di tiranno: Dionigi di Siracusa |
La passione del potere. La vanità del potere
18 dicembre 2018
I lezione sintesi:
Il Potere. La figura
del tiranno. Il persiano Otane, la teoria antitirannica, e l’isonomia che è
altra cosa dalla democrazia ateniese la quale, secondo alcuni critici, sarebbe
stata una specie di dittatura del proletariato. Platone e la critica della
democrazia. Senofonte, Tucidide e Polibio. Nelle tragedie il tiranno è il
paradigma mitico della negatività del potere assoluto. Tirannide e
antitirannide in Eschilo. Nelle Supplici
di Euripide Teseo è il Pericle in vesti eroiche. Tebe è il paese guasto, mentre
Atene è la polis sana che è retta con
giustizia e protegge i supplici (Supplici,
Eraclidi di Euripide; Edipo a Colono di Sofocle). Difetti della paideia spartana secondo Euripide (Andromaca). Il potere incontrollato. Ancora il mouvnarco~ di Erodoto. Euripide, Platone. Tito Livio e
Bruto, il falso sciocco, l’ossimoro vivente, come Amleto. L’invidia del
tiranno: Tacito. Intellettuali e potere: Pasolini, Augusto e gli storiografi
martiri. La zoppia del tiranno. Il tiranno è ignobile, servile e
impotente. La paura del tiranno,
genitivo soggettivo e oggettivo. Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide
Seneca maledice il
potere tirannico. Il potere è razionale e morale solo se esercitato al
servizio dei sudditi. L’ira del
tiranno. Il tiranno, come lo schiavo calpesta la fides che è un valore solo per le persone oneste. L’uguaglianza. Le obiezioni di Giocasta a
Eteocle nelle Fenicie. Precarietà del
possesso delle ricchezze. Euripide, Menandro e Seneca. Il senso della misura e
la teoria della classe media.
“Chi vuole vedere quali sieno e pensieri de’ tiranni, legga
Cornelio Tacito, quando referisce gli ultimi ragionamenti che Augusto morendo
ebbe con Tiberio”[1].
Nella Medea di
Seneca la protagonista prova a chiedere giustizia con un processo equo ma
Creonte afferma il valore assoluto del suo ordine:"aequum atque iniquum regis imperium feras"
(v. 195), giusto o non giusto, rassegnati all'ordine del re. Infatti esso è
insindacabile.
Medea prova a obiettare che l'iniquità è una base instabile
per un regno:"iniqua numquam
regna perpetuo manent"
(v. 196), i regni iniqui non durano mai a lungo.
L'iniquità consiste
nel non ascoltare la parte avversa:"qui statuit aliquid parte inaudita altera,/aequum licet statuerit, haud
aequus fuit" (vv. 199-200), chi ha emesso una sentenza senza
avere ascoltato l'altra parte, anche se ha decretato il giusto, non è stato
giusto.
Del resto il tiranno che fa, e pure ha paura, non lascia
parlare, abolisce la parrhsiva che è
la cellula della democrazia.
Nell'Antigone
la protagonista rinfaccia a Creonte che il suo gesto sarebbe approvato dal
popolo se non fosse per la paura del tiranno:" Si potrebbe dire che a
tutti questi questo/piace, se la paura non serrasse la lingua" (eij mh; glw'ssan ejgklh/voi fovbo" ,
vv. 504-505).
Il tiranno inceppa le lingue anche nel Macbeth: “This tyrant, whose
sole name blisters our tongues-old latin dingua” (IV, 2), questo tiranno,
il cui solo nome, fa venire vesciche sulla lingua, afferma Malcom, uno dei
figli del re Duncan ucciso da Macbeth.
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile
persiano Otane il quale, durante il dibattito costituzionale, contrappone alla
monarchia il potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: "ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra
l'autocrate: infatti il dh'mo"
esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo: "uJpeuvqunon de; ajrch;n
e[cei" (III, 80, 6).
Erodoto attraverso Otane formula
già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia
degenera inevitabilmente in tirannide.
Tra i sette nobili Persiani parlò anche
Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la
monarchia e l'inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia
dell'aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori. Prevalse Dario
con l'argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca. Allora Otane
non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di
manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw"
(III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[2].
Il tiranno ha la passione del
potere, Otane quella del non-potere
“Una
forte tendenza al rifiuto di obbedire è spesso accompagnata da una tendenza
altrettanto forte al rifiuto di dominare e di comandare”[3]
.
Sentiamo Bertolt Brecht:
“Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi
hanno
messo un colletto, e mi hanno
educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare
ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai
intorno
non mi piacque la gente della mia
classe,
né dare ordini né essere servito.
E io lasciai la mia classe e feci
lega
Con la gente del basso ceto”[4].
Credo di avere riconosciuto un’eco di questa splendida
affermazione che condivodo nel film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler,
scambiato per il grande dittatore, deve fare un discorso che legittimi ed
esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla come il futuro
imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene
il barbiere non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice: “I’m sorry, but I don’t want to be an
emperor. That’s not my business. I don’t want tu rule or conquer anyone”,
mi dispiace, ma io non voglio essere imperatore, non è il mio mestiere, io non
voglio governare o conquistare nessuno.
E continua: “I should
like to help everyone(…) greed has
poisoned mens’s souls”, mi piacerebbe aiutare tutti…l’avidità ha avvelenato
le anime umane.
Il film di Chaplin può essere commentato con un verso delle Baccanti di Euripide: mh; to; kravto" au[cei duvnamin
ajnqrwvpoi" e[cein (310) non presumere che il potere abbia potenza sugli
uomini. Lo dice Tiresia a Penteo.
Il potere dunque non è potenza come “il sapere non è
sapienza” “to; sofo;n d j ouj sofiva”
(v. 395). Questo verso invece fa parte del I stasimo cantato dalle Menadi
Del resto Otane usa il termine ijsonomivh,
uguaglianza davanti alla legge, parità di diritti, per
designare
plh'qo~ a[rcon (III, 80, 6), il governo del popolo.
“Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo
“popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il
carattere violento (kràtos indica per
l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli avversari del sistema
politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un
sistema liberticida…la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso
della Repubblica di Platone
addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel fuoco di questi problemi
che nasce la nozione-e la parola-democratìa,
a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come
termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la
democrazia”[5].
Il filosofo nell'VIII libro della Repubblica
biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà
pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere
amico del popolo (558c). E' una costituzione piacevole, anarchica e variopinta,
che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai;
a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina
oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa).
Platone mette in
rilievo il cambiamento di valore delle parole quando passa in rassegna le forme
costituzionali: nello stato democratico gli appetiti (ejpiqumivai) prendono possesso dell'acropoli dell'anima del
giovane-è il potere delle passioni-, poi questa viene occupata da parole e
opinioni false e arroganti (yeudei'"
dh; kai; ajlazovne" (…) lovgoi
te kai; dovxai 560c) le quali chiamando il pudore stoltezza (th;n me;n aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"),
lo bandiscono con disonore; chiamando la temperanza viltà (swfrosuvnhn [6]
de; ajnandrivan), la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte" ejkbavllousi), e
mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta de; kai; kosmivan dapavnhn) persuadendo che sono
rustichezza e illiberalità (ajgroikivan
kai; ajneleuqerivan 560d).
E non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di molti
inutili appetiti transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli
nell'anima e chiamano la prepotenza buona educazione (u{brin me;n eujpaideusivan
kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan
de; ejleuqerivan), la
dissolutezza magnificenza (ajswtivan de;
megaloprevpeian), e l'impudenza
coraggio (ajnaivdeian de; ajndreivan
560e-561). L’uomo così corrotto vive a casaccio, e la sua vita non è regolata
da ordine (tavxi") né da alcuna
necessità (ajnavgkh). Si capovolgono
pure i rapporti umani: il padre teme il figlio, il maestro lo scolaro, i vecchi
imitano i giovani, per non sembrare inameni e autoritari (563).
Anche il popolo può essere tirannico: dopo la battaglia
delle Arginuse (406 a .
C.) il dh'mo" ateniese, nel
quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri
espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare
quanto voleva ("to; de; plh'qo"
ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n
bouvlhtai", Senofonte, Elleniche
I, 7, 12).
"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in
assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle
Arginuse", è, come vedremo, "la formula che caratterizza, secondo
Polibio, la degenerazione della
democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che
vuole").[7]
Un’ altra espressione di condanna di questa negazione dello
Stato di diritto si trova nell’Ifigenia
in Aulide[8] di Euripide quando il coro delle donne
calcidesi lamenta che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù,
mentre regna l’empietà, e la licenza prevale sulle leggi “ajnomiva de; novmwn kratei'” (v. 1095),
“Nulla era più strano di questo popolo sovrano di Atene.
Sempre geloso della sua democrazia, sempre febbrilmente ansioso a ogni grido
d’allarme contro le minacce oligarchiche e tiranniche, esso si abbandonava
ciecamente alla guida capricciosa, interessata e spesso irragionevole dei
demagoghi. Così, mentre libertà e uguaglianza valevano al di sopra di ogni
cosa, il demos stesso esercitava
malignamente l’oppressione più dura e più dispotica sui ricchi e sui nobili, ai
quali imponeva senza riguardo liturgie e incombenze d’ogni sorta; anzi il
massimo piacere dei giurati era comminare condanne severe, perfino ingiuste,
agli imputati più illustri, nonostante la loro nobiltà e la loro ricchezza. Gli
ottimati ricorsero allora al mezzo che appariva più a portata di mano:
associazioni o eterie furono allargate fino a diventare clubs politici, destinati a promuovere il sostegno reciproco fra i
loro membri in caso di elezioni e di processi” (Droysen, Aristofane, p. 114).
CONTINUA
[1]
F. Guicciardini, Ricordi, 13.
[2] Diodoro Siculo
racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una
bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti
l’uguaglianza: “tou;~
ga;r maqovnta~ mhvq j uJperevcein
mhvq j uJpopivptein a[lloi~ kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~
peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a
non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte
le circostanze.
[3]
Hannah Arendt, Sulla violenza, p. 41.
[4]
Scacciato per buone ragioni in Poesie di Svendborg del 1939.
[5]
L. Canfora, La democrazia. Storia di
un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[6] Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Giusto
dà inizio alla sua parte dei disso;i lovgoi ricordando che
la swfrosuvnh una volta era tenuta in conto come la quintessenza
dell'educazione antica (vv. 961 sgg.). Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (v. 961) infatti la castità (swfrosuvnh, v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando
mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se
stesso (980).
[7]Canfora,
Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica
, Volume I, Tomo II, p. 835.
[8]
Rappresentata postuma nel 405 o nel 403.
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