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Le passioni del tiranno, i suoi vizi e i suoi crimini
Le passioni del tiranno, i suoi vizi e i suoi crimini
Torniamo
a Erodoto
Tiranno
per lo storiografo è anche il mouvnarco" raffigurato da
Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), come colui che
invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le
calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l' u{bri" , mentre fin
dall'origine gli è innato lo fqovno" . Siccome ha
questi due vizi, e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni
malvagità (III, 80, 4). Dunque egli: "novmaiav te kinevei
pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80,
5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così
il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci
per l'opposizione alla tirannide"[1].
Nelle tragedie il
tiranno è il paradigma mitico della negatività del potere.
La mancanza di controllo ne fa l'antitesi del
capo democratico. Tale è Edipo finché non comprende, tale il Creonte dell'Antigone di Sofocle, tale Serse nei Persiani di Eschilo, il grande re il
quale, pur se sconfitto, " oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213), non è tenuto a rendere conto
alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo. Anche se il grande
re perderà la guerra, si consola la madre Atossa, dopo avere raccontato il
sogno premonitore della sconfitta e il brutto segno dato dagli uccelli "swqei;~ d j oJmoivw~ th'sde koiranei' cqonov~" (v. 214), basta che si salvi e
continuerà comunque a comandare su questa terra.
Un personaggio tragico che afferma l'insindacabilità del
potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:"What
need we fear who knows it, when none can call our power to account it?-lat. ad and computare"
(V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la
nostra potenza a renderne conto?
Un padrone assoluto è Zeus nel Prometeo incatenato :"tracu;" movnarco" oujd j
uJpeuvquno" kratei'" (v. 324), un sovrano rigido, né impera
obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio. Per giunta è costretto alla
durezza dal fatto che il suo regno è nuovo: " :"a{pa" de; tracu;" o{sti" a}n nevon[2] krath'/", ogni potere
che comanda da poco tempo è duro" dice Efesto (v. 35). E' uno dei
tanti arcana imperii. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa
con i Troiani:"Res dura et regni novitas me talia cogunt/ moliri"
(Eneide, I, 563-564), la dura condizione e la novità del regno mi
costringono a tali precauzioni. Una condizione svelata "alle genti"[3]
pure da Machiavelli:"Et infra tutti e' principi, al principe nuovo è
impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di
pericoli" (Il Principe, XVII).
La
logica del tiranno non può permettergli alcuna “opra pietosa”[4]. Lo
dichiara Agamennone nell’Aiace di
Sofocle: “tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rJa/dion” (v.
1350), non è facile che un tiranno sia anche una persona pia. Insomma tirannide
e pietà sono incompatibili.
Nelle Supplici[5]
di Euripide, Teseo[6],
il paradigma mitico di Pericle, elogia la costituzione democratica dialogando
con l'araldo mandato da Creonte autocrate di Tebe. Atene dunque non è comandata
da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Anche Plutarco attribuisce a Teseo la promessa, mantenuta,
ai potenti, di un governo democratico, nel quale egli si sarebbe riservato solo
il comando dell’esercito e la custodia delle leggi, mentre avrebbe offerto a
tutti uguaglianza di diritti (Vita di
Teseo, 24, 2). Poco più avanti (25, 3). Plutarco aggiunge che di questa
rinuncia alla monarchia dà una testimonianza Omero quando nel catalogo delle
navi chiama dh'mo"
solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).
L'araldo tebano delle
Supplici di Euripide ribatte che il
governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i
quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là secondo la
loro convenienza. Del resto come potrebbe pilotare uno Stato il popolo che non
è in grado di padroneggiare un discorso? Chi lavora la terra non ha tempo né
per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno"
mavqhsin ajnti; tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è
infatti il tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta.
Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che
condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis:" oujde;n turavnnou
dusmenevsteron povlei" (Euripide, Supplici, v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali
considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:"kai; tou;"
ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;"
th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si
indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un
campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449).
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo
vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non
parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l'Elettra di
Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale
aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore faceva con le donne:"ta; d j eij"
gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw' " (Elettra,
vv. 945-946) Il potere dunque può essere funzionale al soddisfacimento di varie
brame, compresa quella sessuale inclusiva del libertinaggio.
Una delle passioni fondamentali del tiranno è l’invidia
associata alla paura di chi può prevalere su di lui
La
mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica:
Erodoto chiarisce che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori
in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e
indipendenza. Periandro di Corinto,
quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:"oiJ
uJpetivqeto (…)
tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli
consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie
, V, 92 h).
Il
despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica:
mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più
sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro comprese e
allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh;
pa'san kakovthta ejxevfaine").
Abbiamo visto che già Otane nel dibattito
costituzionale del terzo libro aveva usato l'espressione pa'san
kakovthta
che, secondo il nobile persiano fautore dell' ijsonomivh, è conseguenza
dell' u{bri",
la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del
monarca ( "uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", III, 80,
3).
Tito
Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo il quale indicò al figlio
Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza
parole:" rex velut deliberabundus in
hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa
papaverum capita dicitur baculo decussisse "( Storie, I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della
reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice
che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
Il tiranno è
invidioso. Infatti l'invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et
summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe
e stacca le cime dei papaveri.
Dante
individua la presenza del vizio dell'invidia soprattutto nei luoghi del
potere:""La meretrice che mai
dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti
vizio"[7].
L'invidia del
tiranno. Tacito[8].
Quanto allo fqovno", Tacito attribuisce più di una volta l' invidia ai suoi Cesari: Tiberio
temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis
dedĕcus publicum metuebat , Annales
, I, 80), e Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in
Britannia:"Id sibi maxime
formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli" (Agricola[9]
, 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse
messo al di sopra di quello del principe.
Quale deve essere la posizione dell'intellettuale e dell'uomo libero in
genere nei confronti del tiranno?
Tacito Suggerisce una via di mezzo insomma tra il ruere in servitium (Annales ,
I, 7) o la libido adsentandi (Historiae , I, 1) e l'ambitiosa mors (Agricola , 42), la morte spettacolare degli oppositori estremi.
Quella seguita da Agricola e da lui stesso.
Il suocero di Tacito
sapeva frenare l’indole di Domiziano, praeceps
in iram, con la moderazione e la prudenza. Infatti Agricola “non contumacia neque inani iactatione
libertatis famam fatumque provocabat” (Agricola,
42), non provocava la fama e il fato con l’arroganza né con una vuota
ostentazione di indipendenza. Dunque è possibile, lo sappiano chi ammirano
inlicita gli atti di ribellione, posse
etiam sub malis principibus magnos viros esse, e che l’obbedienza e la
moderazione, se ci sono operosità e vigore (si
industria ac vigor adsint)
possono arrivare a quel livello di lode dove i più divennero famosi per abrupta, attraverso vie dirupate,
con una morte spettacolare ambitiosa
morte, per niente utile allo stato, in
nullum rei publicae usum ( 42).
CONTINUA
[1] C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[3] Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[4] Cfr. Alfieri, Antigone, V, 2,
v. 76.
[5] Data probabile: 422 a. C.
[6] Il re di Atene che del resto, nel carme 64 di Catullo e nella Fedra di Seneca è presentato come
perfidus, sleale, dalle due sorelle figlie di Pasife e di Minosse, Arianna e
Fedra appunto.
[7] Inferno , XIII, vv. 64-66.
[8] “Chi
vuole vedere quali sieno e pensieri de’ tiranni, legga Cornelio Tacito, quando
referisce gli ultimi ragionamenti che Augusto morendo ebbe con Tiberio”. F.
Guicciardini, Ricordi, 13.
[9] Del 98 d. C.
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