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sabato 29 dicembre 2018

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 3

Tacito
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Le passioni del tiranno, i suoi vizi e i suoi crimini

Torniamo a Erodoto
Tiranno per lo storiografo è anche il mouvnarco" raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), come colui che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l' u{bri" , mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno" . Siccome ha questi due vizi, e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4). Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[1].
 Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico della negatività del potere.
La mancanza di controllo ne fa l'antitesi del capo democratico. Tale è Edipo finché non comprende, tale il Creonte dell'Antigone di Sofocle, tale Serse nei Persiani di Eschilo, il grande re il quale, pur se sconfitto, " oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213), non è tenuto a rendere conto alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo. Anche se il grande re perderà la guerra, si consola la madre Atossa, dopo avere raccontato il sogno premonitore della sconfitta e il brutto segno dato dagli uccelli "swqei;~ d j oJmoivw~ th'sde koiranei' cqonov~" (v. 214), basta che si salvi e continuerà comunque a comandare su questa terra.
Un personaggio tragico che afferma l'insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:"What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?-lat. ad and computare" (V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?

Un padrone assoluto è Zeus nel Prometeo incatenato :"tracu;" movnarco" oujd j uJpeuvquno" kratei'" (v. 324), un sovrano rigido, né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio. Per giunta è costretto alla durezza dal fatto che il suo regno è nuovo: " :"a{pa" de; tracu;" o{sti" a}n nevon[2] krath'/", ogni potere che comanda da poco tempo è duro" dice Efesto (v. 35). E' uno dei tanti arcana imperii. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa con i Troiani:"Res dura et regni novitas me talia cogunt/ moliri" (Eneide, I, 563-564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali precauzioni. Una condizione svelata "alle genti"[3] pure da Machiavelli:"Et infra tutti e' principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli" (Il Principe, XVII).

La logica del tiranno non può permettergli alcuna “opra pietosa”[4]. Lo dichiara Agamennone nell’Aiace di Sofocle: “tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rJa/dion” (v. 1350), non è facile che un tiranno sia anche una persona pia. Insomma tirannide e pietà sono incompatibili.

Nelle Supplici[5] di Euripide, Teseo[6], il paradigma mitico di Pericle, elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte autocrate di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405).

Anche Plutarco attribuisce a Teseo la promessa, mantenuta, ai potenti, di un governo democratico, nel quale egli si sarebbe riservato solo il comando dell’esercito e la custodia delle leggi, mentre avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti (Vita di Teseo, 24, 2). Poco più avanti (25, 3). Plutarco aggiunge che di questa rinuncia alla monarchia dà una testimonianza Omero quando nel catalogo delle navi chiama dh'mo" solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).

 L'araldo tebano delle Supplici di Euripide ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là secondo la loro convenienza. Del resto come potrebbe pilotare uno Stato il popolo che non è in grado di padroneggiare un discorso? Chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta.
Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis:" oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei" (Euripide, Supplici, v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:"kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449).
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore faceva con le donne:"ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw' " (Elettra, vv. 945-946) Il potere dunque può essere funzionale al soddisfacimento di varie brame, compresa quella sessuale inclusiva del libertinaggio.

Una delle passioni fondamentali del tiranno è l’invidia associata alla paura di chi può prevalere su di lui
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: Erodoto chiarisce che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:"oiJ uJpetivqeto (…) tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h).
Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
 Abbiamo visto che già Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro aveva usato l'espressione pa'san kakovthta che, secondo il nobile persiano fautore dell' ijsonomivh, è conseguenza dell' u{bri", la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del monarca ( "uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", III, 80, 3).

Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole:" rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "( Storie, I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
 Il tiranno è invidioso. Infatti l'invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
Dante individua la presenza del vizio dell'invidia soprattutto nei luoghi del potere:""La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio"[7].

L'invidia del tiranno. Tacito[8].
Quanto allo fqovno", Tacito attribuisce più di una volta l' invidia ai suoi Cesari: Tiberio temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales , I, 80), e Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia:"Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli" (Agricola[9] , 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.
Quale deve essere la posizione dell'intellettuale e dell'uomo libero in genere nei confronti del tiranno?
 Tacito Suggerisce una via di mezzo insomma tra il ruere in servitium (Annales , I, 7) o la libido adsentandi (Historiae , I, 1) e l'ambitiosa mors (Agricola , 42), la morte spettacolare degli oppositori estremi. Quella seguita da Agricola e da lui stesso.
Il suocero di Tacito sapeva frenare l’indole di Domiziano, praeceps in iram, con la moderazione e la prudenza. Infatti Agricola “non contumacia neque inani iactatione libertatis famam fatumque provocabat” (Agricola, 42), non provocava la fama e il fato con l’arroganza né con una vuota ostentazione di indipendenza. Dunque è possibile, lo sappiano chi ammirano inlicita gli atti di ribellione, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, e che l’obbedienza e la moderazione, se ci sono operosità e vigore (si industria ac vigor adsint) possono arrivare a quel livello di lode dove i più divennero famosi per abrupta, attraverso vie dirupate, con una morte spettacolare ambitiosa morte, per niente utile allo stato, in nullum rei publicae usum ( 42).


CONTINUA




[1]  C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca  , p. 170.
[2]  Di nuovo la difficoltà del nevon.
[3]   Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[4]   Cfr. Alfieri, Antigone, V, 2, v. 76.
[5]   Data probabile: 422 a. C.
[6]  Il re di Atene che del resto, nel carme 64 di Catullo e nella Fedra di Seneca è presentato come perfidus, sleale, dalle due sorelle figlie di Pasife e di Minosse, Arianna e Fedra appunto.
[7]  Inferno , XIII, vv. 64-66.
[8]   “Chi vuole vedere quali sieno e pensieri de’ tiranni, legga Cornelio Tacito, quando referisce gli ultimi ragionamenti che Augusto morendo ebbe con Tiberio”. F. Guicciardini, Ricordi, 13.
[9]  Del 98 d. C.

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