Plutarco
racconta che Tiberio appena eletto dhvmarco", nel
133, si dispose alla realizzazione della riforma agraria spinto dal retore
Diofane esule da Mitilene e dal filosofo Blossio che era di Cuma e a Roma
avevafrequentato Antipatro di Tarso (8, 6)
Andando in
Campidoglio, Tiberio incespicò nel terreno spezzandosi l’unghia di un alluce e
perdendo sangue, poi si videro su un tetto a sinistra dei corvi che si
azzuffavano (w[fqhsan ujpe;r keravmou macovmenoi kovrake" ejn
ajristera'/, 17, 4) e
fecero cadere una pietra ai piedi di Tiberio. Questi brutti segni spaventarono
perfino i più audaci della sua scorta, ma Blossio di Cuma disse che sarebbe
stata aijscuvnhn kai; kathvfeian pollhvn, una grossa vergogna e umiliazione
se Tiberio, figlio di Gracco e della figlia dell’Africano, kovraka
deivsa" (17, 5) per paura di un corvo, non avesse ascoltato i
cittadini che lo chiamavano
Tiberio poi
venne ucciso dai reazionari guidati da Scipione Nasica che aveva chiesto
un senatus consultum ultimum la cui formula è videant
consules ne quid res publica detrimenti capiat . Il decreto formale
non ci fu e Nasica procedette privatus ut si consul esset (Cic. Tusc.
IV, 23, 51)
Il
cadavere di Tiberio fu gettato nel fiume con quelli dei seguaci. Venne
costituita una sezione speciale del tribunale quaestio extraordinaria per
giudicare i suoi seguaci superstiti. L’oratore Diofane fu arrestato e ucciso,
Blossio portato davanti ai consoli rispose di avere obbedito a Tiberio. Nasica
gli chiese che cosa avrebbe fatto se Nasica gli avesse ordinato ejmprh'sai to;
Kapetwvlion
(20, 6), di incendiare il Campidoglio. Blossio rispose che
mai gliel’avrebbe ordinato, ma, nel caso, l’avrebbe fatto poiché gli ordini di
Tiberio erano dati nell’interesse del popolo. Blossio non fu incriminato e andò
in Asia presso Aristonico figlio naturale di Eumene II di Pergamo e
fratellastro del re lunatico Attalo III che aveva lasciato il regno in eredità
al popolo romano. Aristonico lo rivendicò, ma venne sconfitto da Perpenna nel
130.
Carneade
nella sua orazione del 155 aveva detto che l’imperialismo romano era la prova
che nei rapporti tra Stato e Stato decide soltanto la forza, non il diritto
(cfr. il dialogo Ateniesi Meli in Tucidide V)
Panezio invece,
seguendo Aristotele, scrisse che per
certi popoli è necessario e utile essere governati da un popolo superiore e
che questo con i suoi governanti aveva la responsabilità morale di elevare i
soggetti. (p. 417).
Plutarco "raccomanda,
nei suoi Precetti politici
(composti non molto dopo la morte di Domiziano[5]) di non insuperbirsi per le corone
vedendo i calzari dei Romani che sono al di sopra del tuo
capo"(813E)".
Il
discorso di Lelio in Cicerone Rep. III 45 dipende da Panezio che
prende le mosse contro l’egoismo di Epicuro.
Lelio nega
che esista uno Stato quando c’è una tirannide, sia questa di un un despota o
dei decemviri, come ci fu a Roma, o della folla (multitudo) che non
obbedisce alle leggi: “est tam tyrannus iste conventus quam si esset unus,
hoc etiam taetrior, quia nihil istā, quae populi speciem et nomen imitatur,
immanius beluā est” (III, 45)
Cfr. l’oclocrazia in Senofonte, Platone e Polibio.
Panezio celebra anche la gioia di vivere che gli veniva dal fatto che la sua vita era
conforme alla sua natura e agiva per il bene proprio e dei suoi simili. La
morte e le malattie non lo angosciavano perché sapeva che sono processi
naturali e sapeva che la sorte non poteva togliergli niente di quanto aveva
dentro di sé.
Seneca: “age
gratias pro his quae accepisti” (De ira III, 31).
Panezio non
aveva bisogno di onorare gli dèi in feste o santuari poiché per lui il più
savro dei santuari è il cosmo e ogni giorno va celebrato come un dì i festa (p.
419).
Scrisse un Peri; eujqumiva", Sulla
letizia, ripresa da Plutarco (Moralia, 30).
Seneca, De ira II, 6, 2: “Gaudere
laetarique proprium et naturale virtutis est; irasci non est ex dignitate eius,
non magis quam maerere: atqui iracundiae tristitia comes est”.
Cfr.Strabone : essere felici secondo
questo geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas :"gli
uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire
ancor meglio quando sono felici eâ mn g¦r e‡rhtai kaˆ toàto, toÝj ¢nqrèpouj tÒte
m£lista mime‹sqai toÝj qeoÝj Ótan eÙergetîsin· ¥meinon d' ¨n lšgoi
tij, Ótan eÙdaimonîsi[6].
Infernale
è colpevole allora può essere considerata l'infelicità:" E' una vergogna
essere infelici. E' una vergogna non poter mostrare a nessuno la propria vita,
dover nascondere e dissimulare qualcosa"[7].
Panezio era
volto alla vita e fece sparire dalla dottrina gli aspetti che mortificano la
vita. La dialettica cavillosa, la minuta casistica, la mantica e l’astrologia
pseudoscientifiche, la riduzione della natura umana alla ragione. Col suo
sentire ellenico Panezio comsidera l’uomo nella sua integrità di anima e corpo
e fonde il sentimento etico con la sensibilità estetica nel culto del bello
morale. Dà importanza non solo al logos ma anche alla aisthesis.
Riprese Platone, Aristotele ed ellenizzò la Stoà. Inoltre la avvicinò alla
classe dominante che reggeva le sorti dell’Occidente. La sua opera Sulla
Provvidenza costituì la base della teologia stoica della quale si
nutrirono pure i Cristiani.
Ma lo
stoicismo più avanti seguirà strade nuove
Continua
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