Aristofane
denuncia ridendo la parzialità, contraria ai ricchi, dei tribunali
popolari ateniesi, nella commedia Sfh`ke~
(le Vespe, del 422). Un vecchio giudice dell’Eliea,
Filocleone. che prende la modesta paga di tre oboli al mese, esulta
per il potere che il suo ruolo gli conferisce: tutti lo adulano e
corteggiano, in casa e fuori, e “quando io fulmino-dice- schioccano
con le labbra per paura e se la fanno adosso ricchi e nobili (vv.
626-628). E anche tu –rivolto al figlio Bdelicleone- mi temi. Ma il
giovane, che ha schifo di Cleone, lo convincerà che il demagogo usa
lui e altri stupidi vecchi fanatici compensandoli con una misera paga
rispetto ai propri colossali profitti.
“l’istanza
fatta valere dalla demoktratia ateniese (“ il popolo sia al
di sopra di tutto col suo deliberare (boulesthai) viene in
parte vanificata (o contenuta) attraverso il meccanismo
della circolarità masse-capi. E’ Teramene il grande regista
del processo delle Arginuse! Il demo crede di imporre il proprio
volere ma è lui che lo pilota, anche attraverso i “retori
minori”… Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni,
ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”,
prende corpo e dà forma a uno Stato”1.
Sentiamo
quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde;
dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j
a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4 , 4), similmente
non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto
ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella
presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare
i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali
comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan
to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare
democrazia. Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai
tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga
me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi
(polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa
pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo
“contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~
nel primo periodo della democrazia radicale.
Luogo
simile in Cicerone: “Si vero populus plurimum potest omniaque
eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia”
( de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e
tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà,
ma è piuttosto licenza.
“E
appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi:
perché ne risulterà che la democrazia della quale parlano gli
scrittori greci del V e del IV secolo non è quella democrazia che
consiste nel regime di libertà e di uguaglianza, bensì quella che
ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la definisce il
governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri,
si badi, e non, come si ode spesso ripetere a proposito di questa
definizione aristotelica, dei molti o della
maggioranza…Ora, è perché la democrazia è il governo di
classe nel quale i poveri-noi oggi diremmo il proletariato- hanno il
potere, che Aristotele la considera forma di governo degenere: e non
certo perché in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa,
la libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele deplora
nella democrazia è che il popolo-cioè, ripeto, il proletariato-vi
tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn”
(Politica, 1298b), padrone delle leggi e non soggetto ad esse,
e conseguentemente non vi siano la libertà e l’uguaglianza, che
soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da quella di
un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele
condanna la demokratìa perché è un regime di classe
socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma retta
di governo quella-la politèia- in cui governa la maggioranza
sì, ma sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto insomma, lo Stato
di democrazia liberale”2.
Invero
Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~
tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce solo
alla democrazia ma pure un ordinamento oligarchico estremo: quando
poi coloro che detengono la sovranità nei corpi deliberativi si
scelgono gli uni con gli altri, quando il figlio succede al padre nel
posto che wuwsti ha lasciato libero, quando costoro pretendono di
essere padroni delle leggi, allora è necessario che questo sia un
ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavthn
tavxin).
Il
potere delle leggi
Nella
Politica, Aristotele afferma che dove le leggi non sono
sovrane appaiono i demagoghi, in quanto allora diventa sovrano il
popolo. Un popolo del genere diventa dispotico in quanto non è
governato dalla legge. In questa situazione sono reputati gli
adulatori, e una democrazia di tale fatta corrisponde alla tirannide.
Infatti le decisioni dell’assemblea corrispondono agli editti del
tiranno e il demagogo corrisponde all’adulatore. Il popolo è
sovrano di tutto, il demagogo lo è dei sentimenti del popolo. Dunque
ha ragione chi dice che tale democrazia non è una vera costituzione,
poiché non c’è costituzione dove non comandano le leggi ( o[pou
ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva, 1292a).
Nella
democrazia radicale c’è l’oppressione sui migliori attraverso i
decreti (yhfivsmata) che prevalgono
sulle leggi (novmoi). Così nella
tirannide gli editti ejpitavgmata
prevalgono sulle leggi.
Si
può pensare al khvrugma di Creonte
nell’Antigone di Sofocle (v. 8)
Nella
Costituzione degli Ateniesi , scritta negli ultimi anni di
vita, il filosofo di Stagira (384-322 a. C.) passa in rassegna gli 11
regimi che si sono succeduti ad Atene e nota gli errori seguiti alla
riforma di Efialte che abbatté il potere dell’Areopago: da allora
il governo commise più errori a causa dei demagoghi dia;
th;n th'~ qalavssh~ ajrchvn (41, 2), per il potere sul mare.
Dopo la spedzione in Sicilia ci fu la costituzione oligarchica dei
Quattrocento e la tirannide dei Trenta, quindi, con la restaurazione
democratica, il popolo si è reso padrone assoluto di ogni cosa:
“aJpavntwn ga;r aujto;~ auJto;n pepoivhken
oJ dh'mo~ kuvrion” (41, 2). Aristotele preferisce un governo
affidato al ceto dei possidenti.
Nella
Costituzione degli Ateniesi pseudosenefontea il dialogante A
biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che essa
è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso il
potere e ha reso forte la città in quanto è il popolo che fa andare
le navi o{ti oJ dh'mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn
ta;~ nau'~ (1, 2).
Vanità
delle leggi, loro impotenza nei confonti dei ricchi
Nella
Vita di Solone di Plutarco troviamo una derisione delle leggi
scritte attribuita ad Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore
Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera del legislatore che
pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le
quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n
tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono
le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai
ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn
diarraghvsesqai).
Le
leggi dunque colpirebbero solo i deboli.
Nietzsche:
“Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle
persone colte e ricche”3.
Sofocle
nell’Antigone e nell’Edipo re pospone le leggi
scritte a quelle divine, di Delfi, del Parnaso e dell’Olimpo ma
nell’Antigone esse colpiscono la nipote del re e conseguentemente
il figlio e la moglie di Creonte, quindi il re stesso.
Difesa
delle leggi scritte
Nelle
Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice
all’araldo tebano mandato da Creonte che quando c’è un tiranno
non esistono più leggi comuni (novmoi-
koinoiv, vv. 430-431). E procede: “gegrammevnwn
de; tw'n novmwn o{ t j ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn
ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il
debole e il ricco hanno gli stessi diritti.
Nella
storia romana "la maggiore singolarità" è data dal fatto
che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio
Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide"
mentre diversi altri "veri o mitici legislatori, Licurgo,
Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi da
un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è
che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis del 451/450
agirono in favore della plebe:
"
Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a
Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di
ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini
nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta
si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi:"Come
dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato
trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e
dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"4.
Le
leggi valgono meno dei mores
Tacito
nella Germania nota:"paucissima in tam numerosa gente
adulteria ", quindi aggiunge:"nemo enim illic vitia
ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur " (19), e
conclude polemicamente il capitolo:"plusque ibi boni mores
valent quam alibi bonae leges ".
La
sua conclusione “Corruptissima re publica plurimae leges"
(Tacito, Annales, III, 27), quanto più è corrotto uno Stato,
tanto più numerose sono le leggi.
“E
si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta,
i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le
leggi bene ordinate non giovano se già le non son mosse da uno che
con estrema forza le faccia osservare tanto che la materia diventi
buona; il che non so se si è mai intervenuto o se fosse possibile
ch’egli intervenisse”5.
Critica
al piacere e alla dissolutezza delle donne legata a uno Stato di
guerrieri. La propaganda antispartana
Nelle
Leggi di Platone, l’Ateniese ricorda allo Spartano che
l’ideale guerriero della sua città non si cura abbastanza di
esercitare la capacità di resistenza al piacere, e aggiunge che non
sarebbe difficile per chi volesse difendere le leggi di Atene
criticare le norme spartane indicando la licenza delle loro donne:
“deiknu;~ th;n tw`n gunaikw`n parj uJmi`n
a[nesin “(637c).
Nell’Andromaca
di Euripide, Peleo, il nonno di Neottolemo, esecra le Spartane e
i loro costumi: neppure se lo volesse potrebbe restare onesta6
("swvfrwn", v. 596) una delle
ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case con le
cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"",
v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me
non sopportabili " ( vv.595-600).
L’Andromaca,
scritta nei primi anni della guerra del Peloponneso, mostra un
disgusto per l’arroganza, la crudeltà e la tortuosità degli
Spartani.
La
stessa protagonista lancia un anatema contro la genìa dei signori
del Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~
:" o i più odiosi (e[cqistoi) tra
i mortali per tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri
fraudolenti, signori di menzogne, tessitori di mali,che pensate a
raggiri e a nulla di retto, ma tutto tortuosamente, senza giustizia
avete successo per la Grecia (vv.445-449).
Nel
dialogo tucididèo tra Melii e Ateniesi questi biasimano i loro
nemici con minore virulenza: “ I Lacedemoni fanno uso della virtù
soprattutto verso se stessi e le istituzioni del loro paese. Ma verso
gli altri, pur potendo uno dire molte cose su come si comportano,
riassumendo al massimo, si potrebbe dimostrare che essi nel modo più
evidente tra quelli che conosciamo, considerano il piacevole bello e
il conveniente giusto" (Storie, V, 105, 4).
Nella
Repubblica di Platone il sofista Trasimaco contrapponendosi a
Socrate sostiene che il giusto non è altro che l’utile del più
forte: “fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion
oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron ”, 338c.
CONTINUA
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1
Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS
BASILEUS, p. 59
2
G. Fassò, La democrazia n Grecia, p. 11.
3
Frammenti postumi, 1876, 14
4
G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pp. 46-48.
5
Machiavelli, discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 17.
6
Plutarco dà un'interpretazione non malevola dello stesso fatto: il
legislatore volle che le fanciulle rassodassero il loro corpo con
corse, lotte, lancio del disco e del giavellotto (…) per eliminare
poi in loro qualsiasi morbidezza e scontrosità femminile, le abituò
a intervenire nude nelle processioni, a danzare e a cantare nelle
feste sotto gli occhi dei giovani (Vita
di Licurgo
, 14). E' interessante il fatto che Erodoto
(I, 8) viceversa
fa dire a Gige il V antenato di Creso re di Lidia:"la donna
quando si toglie le vesti, si spoglia anche del pudore".
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