Countubernales (Miniature Phersu, di Leonardo Torricini) |
L’alloggio
nel collegio. L’incontro con i tre contubernali amici
Proseguii
a piedi. Fatti duecento metri vidi e riconobbi, a mia volta
riconosciuto sebbene fossi male in arnese, alcuni studenti della
facoltà di Lettere di Bologna che, arrivati la sera prima, si erano
già sistemati e mi accompagnarono fino al collegio poco distante
dandomi buone notizie sull’ambiente, immagino per incoraggiarmi. Si
vedeva che ne avevo bisogno. Avevo compiuto il tratto finale del
viaggio aiutato da quei Samaritani mossi a compassione viscerale1
dal mio aspetto e assistito dal destino, poiché dietro a tutto c’è
il Fato, "cum fatum nihil aliud sit quam series
implexa causarum" 2,
dal momento che il fato non è altro che la serie concatenata delle
cause.
Sicché tornai a recuperare l’automobile, e finalmente potei
presentarmi alla segreteria, quindi alla ricezione dove mi
assegnarono un posto in una camera a quattro letti. Il viaggio di
1200 chilometri iniziato a Pesaro due giorni prima, e svoltosi tra
alcune speranze e mille terrori, infine era giunto alla meta. Non
sarebbe stato altrettanto faticoso, mentalmente, quando lo avrei
ripetuto in bicicletta nel 2011, quarantacinque anni più tardi
nonostante una caduta precipitosa in un fosso profondo, con la bici
sotto di me e sopra di me lo zaino, oltre il buon Dio. Grazie a Lui,
chiunque Egli sia, il fosso era erboso, e l’avello suburbano di
gianni ghiselli non sarà a Nagykanizsa la cittadina situata tra il
confine della terra magiara e il lago Balaton. Sollevai il fianco
già antico e raggiunsi di nuovo la meta con Fulvio, il vecchio
amico, anzi l’amico antico e i due amici giovani, gli ex allievi
Maddalena e Alessandro conforti della nostra antichità .
Superati gli anni della sciagura, anche grazie agli incontri fatti
nell’Università estiva di Debrecen, le cose mi andarono bene,
sempre meglio. Quasi invulnerabile come Achille ero diventato.
Dopo
il liceo mi aveva oscurato la visione del mondo la mancanza e la
necessità della gioia amorosa. Chi ne è privo o privato è pure
impedito di raggiungere qualsiasi meta che non sia quel bene agognato
con le forze più vive dell’anima. Le poesie di Leopardi sono belle
per chi le legge, ma per l’autore furono consolazioni piccole e
momentanèe, credo, tali che sicuramente non compensavano il premio
grande, davvero olimpico, cui aspirò per tutta la vita per il suo
genio: negli auspici frequenti dovette sostituirlo con la morte,
“bellissima fanciulla-dolce a veder” ma non tanto bella e dolce
quanto le fanciulle e le donne osservate, ammirate, pensate a
Recanati e altrove, sempre senza uno straccio di contraccambio.
Chi
non assaggia quel sapore che ci assimila agli dèi, “perché la
felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo
superata dalla divina”3,
non sente il gusto della vita.
Ma
torniamo a quel mattino antico. Ti ricordo, lettore novello, che era
il luglio dell’anno di mia salvazione 1966. Quando ebbi ricevuto il
posto del necessario ricovero per il mese seguente, cercai
ansiosamente di inserirmi tra gli altri giovani del corso estivo. A
cominciare dagli italiani maschi con i quali per lo meno riuscivo a
parlare senza incepparmi. Del resto non feci nulla per nascondere la
mia debolezza, non ne ero capace, né lo volevo, e mi resi
compassionevole manifestando le paure che mi assillavano da quando,
finito il liceo tre anni prima, avevo smarrito la mia identità di
ragazzo molto bravo a scuola, ottimo pure nelle corse a piedi e in
bicicletta, e non ne avevo trovata un’altra. Non potevo: un’
identità altra era quella di altri o degli altri, non la mia.
Un’identità gregaria che mi metteva a disagio e mi dava dolore più
di una maschera o una scarpa stretta. Dovevo ritrovare quella
originaria, adatta alla mia natura, a me congeniale: essere bravo in
quanto facevo, ossia fare quello per cui ero dotato, lo studio e lo
sport, a livello più maturo, più alto e proficuo.
Fino
a piacere alle donne. Per fare questo sarebbe stato necessario
incontrare persone, soprattutto femmine umane che apprezzassero le
qualità mie e mi motivassero a potenziarle. E’ bene sviluppare il
proprio genio. Chi lo tradisce va inevitabilmente in rovina. Quelle
che mi hanno capito e amato di più, le più intelligenti e buone, mi
hanno detto “tu sei un genio”, provocandomi a dimostrarlo con
tutti i mezzi, con tutte le forze a disposizione.
Entrato
nella camera 4 del III piano del collegio numero uno dunque, scoprìi
subito le mie carte bassissime che non volevo coprire con la mia mano
tremante; del resto non sarebbe stato facile tenerle nascoste dietro
l’aspetto devastato dall’infelicità e con il mio comportamento
drammaticamente insicuro. La grande, totale infelicità traspariva da
tutti i miei atti “d’allegrezza spenti”4.
Ma
Dio che mi aveva guidato fin lì, mi aiutò: i miei contubernales
5
erano persone buone: mi diedero la mano di cui avevo bisogno per
cominciare la risalita dall’abisso scosceso e dirupato della
sventura. Tra questi c’era Fulvio di Parma che sarebbe diventato il
mio amico migliore, poi Danilo, un ragazzo veneto, studioso eppure
ebbro di incontenibile gioia, almeno così mi sembrò, e Luigino un
dolce ragazzo di Roma, molto sensibile, intelligente, colto e capace
di comprendere le difficoltà del prossimo suo, come le proprie.
Fulvio mi piacque subito molto. Mi sembrò che osservasse le cose e
le persone per meditarci sopra, invece di spiarle per
impossessarsene, usarle o sottometterle, come fa la gente volgare.
Aveva
due anni e mezzo più di noi altri e un’aria assai più matura. Lo
scelsi come l’educatore, il padre, il maestro e l’ amico di cui
avevo un grande, insoddisfatto bisogno. Le sue parole non erano mai
prive di idèe e sentimenti: Fulvio non era vago di ciance e ostile
al pensiero, come tanti omuncoli e diverse donnicciole incontrati sia
a Pesaro sia a Bologna. Anche Luigino e Danilo mi piacquero. Erano
tutti e tre degli studiosi capaci di apprezzare letture e cultura. Da
loro capìi di averle colpevolmente trascurate per paura della mia
diversità dalla gente usuale “ una gente-zotica, vil; cui nomi
strani, e spesso-argomento di riso e di trastullo,- son dottrina e
saper”6.
Quei
ragazzi, se citavo un verso di Virgilio o di Euripide o di Leopardi,
non mi deridevano, anzi mi approvavano e incoraggiavano a continuare
o a ripetere. Capii che questa mia sensibilità alle parole e la mia
memoria erano qualità, non difetti come sostenevano i più nel natìo
borgo selvaggio dal quale ero partito così desolato.
Fui
subito bendisposto verso queste persone tanto differenti da quelle
che avevo preso la cattiva abitudine di frequentare: queste non mi
avrebbero umiliato né deriso, né ferito, siccome non erano di uno
stampo del tutto differente dal mio. Fulvio era di destra, gli altri
due di sinistra e avremmo fatto anche discussioni accese, ma eravamo
tutti e quattro tendenzialmente, anzi sostanzialmente diversi dal
borghesuccio che pensa a fare denaro e a combinare affari. A loro
tre, come a me, interessavano l’amore, la bellezza, le idèe, più
delle cose materiali: vestiti, automobili, mobili padelle, o altre
minuzie7.
Avevamo bisogni spirituali innanzitutto e nessuno di noi è diventato
un filisteo un “a[mouso" ajnhvr",
un uomo estraneo alle muse”8,
uno di quegli individui “continuamente affaccendati nel modo più
serio attorno a una realtà che non è tale (…) Di conseguenza le
ostriche e lo champagne9
sono il punto culminante della sua esistenza”10.
Spero
che questi tre amici, Fulvio, Luigi e Danilo, ancora al mondo grazie
al buon Dio, dove prego che ci conservi tutti e quattro ancora a
lungo, non me ne vorranno se ricordando i nostri vizi e le nostre
virtù non ho cambiato i loro nomi a me cari come le loro persone. Un
abbraccio forte a tutti e tre. Vi chiedo di nuovo scusa se più
avanti dopo queste parole di affetto non vi risparmierò canzonature
e motteggi. Del resto non li ho mai risparmiati nemmeno a me stesso.
Bologna
20 dicembre 2018. Giovanni Ghiselli, detto gianni il poverello di
Pesaro.
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sono le visite di oggi,ore 11. Nel febbraio del 2010 il mio blog
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1
Cfr. N. T.
Luca, 10, 33 “Samarivth"
de; ti" ojdeuvwn h\lqen kat j aujto;n kai; ijdw;n
ejsplagcnivsqh”.
2
Seneca, De
beneficiis, IV, 7
3
G. Leopardi, Operette
morali, Storia del
genere umano.
4
Cfr. F. Petrarca, XXXV, sonetto XXVIII.
5
Compagni di camerata . Cfr. Seneca Ep.
47, quella su gli schiavi.
6
G. Leopardi, Le
ricordanze, 30-33
7
Plutarco, nella Vita
di Solone,
racconta che il saggio legislatore ateniese disprezzava la
ajpeirokaliva,
l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia
(27, 20), la meschinità
di Creso che si era presentato coperto di gioielli e d'oro. Luciano
in Come si deve
scrivere la storia (scritto
tra il 163 e il 165)
fa questa
osservazione: “Vi sono alcuni che trascurano completamente, o
appena sfiorano, fatti grandi (ta;
megavla) e
invece, per
rozzezza (uJpo;
de; ijdiwteiva"),
mancanza di gusto (ajpeirokaliva"),
e ignoranza (kai;
ajgnoiva")
di quello che va
detto o quello che va taciuto, si attardano a descrivere nei minimi
dettagli le cose più trascurabili (ta;
mikrovtata,
27)”. L’ajpeirokaliva
è lo stesso
difetto che il filosofo Nigrino di Luciano attribuisce ai ricchi
Romani, i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando
il loro cattivo gusto: pw'"
ga;r ouj geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;"
porfurivda" profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou"
proteivnonte" kai; pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan;
“Come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro stesse
persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora
e protendono le dita delle mani, denunciano il loro cattivo gusto?”
(Nigrino,
21).
8
A. Schopenhauer Parerga
e Paralipomena
, Tomo I, p. 462.
9
Peggio ancora quel vero e proprio “anticibo” che qui a Bologna
amano e chiamano “lasagne”. Nelle Marche “vincisgrassi” che
sono meno mangiati e pure meno schifosi e nocivi Quando me lo
portano a casa, dico che non ho fame e rimasto solo, lo butto nella
spazzatura. N.d.R.
10
Schopehauer Op. cit., p. 463
per me, che dei tre conosco e amo Fulvio, è commovente
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