La vana
fama, la fama inconsistente arriva a
Roma
Cfr. fama
bella constant di Curzio Rufo.
Alessandro
Magno ricorda ai suoi oppositori macedoni che ricevere il nome di
figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā
enim
bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem
obtinuit”[12] le
guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la
propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha
fatto le veci della verità.
Cfr.
pure 3, 8, 7 dove pure Dario III dice “fama
bella stare”.
A
Roma la Fama diffonde anche notizie false e comunque tutte spaventose
Dicono
che le truppe ausiliare galliche hanno ricevuto l’ordine di
distruggere Roma. Sic quisque
pavendo-dat vires famae (484-485).
Non
solo il popolo ma anche la Curia ha paura. Il Senato in fuga affida
al console Marcello gli odiosi decreti (coscrizione dei cittadini,
sequestro del tesoro di Stato e degli ex voto, Cassio Dione, 41, 63;
7, 1).
La
folla impazzita corre attraverso la città. Fuggono come quando
pilota e marinai si gettano da una nave che il turbidus
Auster colpisce e il legno
scricchiola. Desilit in fluctus
deserta puppe magister –navitǎque (501-502).
Sic urbe relicta-in bellum fugitur,
è per andare incontro alla guerra che si fugge.
Ruit
irrevocabile vulgus (509).
E’ una inopinata iunctura,
inaspettata.
Ci
si aspetta che l’aggettivo venga riferito al tempo come in
Lucrezio De rerum natura,
I, 468: “irrevocabilis abstulerit
iam praeterita aetas” l’oggetto
sono le generazioni umane (saecla
hominum, 467) già portate via
dall’irrevocabile tempo passato.
Dunque ignavae
manus, forze militari vigliacche
abbandonano Roma.
In
terre lontane i soldati romani si difendono exiguo vallo con
una sottile palizzata e un subitus
agger un terrapieno
improvvisato con zolle di terra fa loro dormire sonni tranquilli
dentro le tende, mentre “tu tantum
audito bellorum nomine, Roma.” desereris (518-519),
soltanto al nome di guerra vieni abbandonata.
Pompeio
fugiente, timent (521)
Si
videro anche prodigi sinistramente ominosi come “fulgura
fallaci micuerunt
crebra sereno” (530), oppure la
luna terrarum
subitā percussa expalluit umbrā (539)
colpita dall’ombra improvvisa della terra.
Il
sole caliginoso avvolse di tenebre il mondo.
La
fiamma che mostra la conclusione delle Ferie latine scinditur
in partis geminoque cacumine surgit –thebanos imitata
rogos (551-552).
Poi
le Alpi si scrollarono di dosso dalle vette oscillanti la neve
antica: “veteremque iugis
nutantibus Alpes –discussere nivem (553-554).
Il mare invase Gibilterra, dirasque
volucres- foedasse diem accipimus (559),
uccelli di malaugurio sporcarono la luce del giorno “crinemque
rotantes-sanguineum populis ulularunt tristia Galli”
(566-567) gridarono al popolo parole di auspicio sinistro.
Cfr.
l’episodio della Magna Mater in Lucrezio (De
rerum natura, II, 600 ss.)
Ingens
urbem cingebat Erinys (572)- excutiens
pronam flagranti vertice pinum- (57),
faceva il giro della città
un’Erinni gigantesca scuotendo una fiaccola di pino rovesciata con
la cima che bruciava, stridentisque
comas e le chiome che
sibilavano.
Come
quella che spinse Agave contro Penteo o Licurgo contro Dioniso o come
Megera che fece impazzire Ercole (in Seneca Hercules
Furens 982; nell’Eracle di
Euripide è Lyssa)
Apparvero
anche gli spettri di Mario e di Silla.
Haec
propter, placuit Tuscos, de more vetusto-acciri vates”
(584-585)
Il
più vecchio maximus
aevo “Arruns
incoluit desertae moenia Lucae”
586 abitava le mura della città abbandonata
Sapeva
interpretare bene i movimenti dei fulmini, le vene calde delle
viscere degli animali et monitus
errantis in aere pinnae (588).
Nell’Inferno di
Dante (XX, 46-51) Arrunte è vicino a Tiresia (“Arrunte è quei
ch’al ventre li s’atterga”. Cerchio VIII, bolgia IV, gli
indovini.
Egli
“nei monti di Luni (…) ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca-per
sua dimora, onde a guardar le stelle-e ‘l mar non li era la veduta
tronca”.
Per
prima cosa Arrunte ordina che siano tolti di mezzo i mostri nati
senza seme da una natura in discordia con se stessa, monstra
iubet primum quae nullo semine discors- protulerat natura (590).
Poi
c’è una processione di sacerdoti con l’augure esperto
nell’osservare gli uccelli di sinistra “et
doctus volucres augur servare sinistras”,
601 (di buon augurio per i Romani, di cattivo augurio per i Greci),
poi
i Salii che portano gli scudi sul collo lieto-“et
Salius laeto portans ancilia collo”
(603) e i Flamini con il berretto a punta.
Arrunte
seppellisce maesto cum
murmure le cose colpite dal
fulmine. Poi sacrificò un toro la maxima
victima, ma questa non riuscì
gradita agli dèi e dalla ferita slabbrata uscì, invece di sangue
rosso, del pus nero-“nec cruor
emicuit solitus, sed vulnere laxo-diffusum rutilo nigrum pro sanguine
virus”. Palluit
attonitus Arruns e nelle
viscere strappate cercò quale fosse l’ira degli dèi: “atque
iram superum raptis quaesivit in extis”
(617).
Cor
latet, il cuore non si vede, le
viscere mandano fuori sangue corrotto, il fegato presenta due lobi.
Simili
risultati del sacrificio nell’Oedipus di
Seneca: "cor marcet
aegrum penitus, ac mersum latet,/liventque venae; magna pars fibris
abest;/et felle nigro tabidum spumat iecur"
(vv. 356-358), il cuore malato è marcio profondamente, e rimane
nascosto colato a fondo, le vene sono livide; alle fibre manca grande
parte; e il fegato schiuma putrefatto in un fiele nero.
Sono
tutti simboli: il cuore marcio che si nasconde allude ai sentimenti
malati e obbrobriosi della famiglia, il fegato[13] putrefatto
alle passioni pervertite e letali, le fibre carenti alla vita caduta
a terra e incapace di risollevarsi, le vene livide all'invidia delle
corti.
Arrunte
capì che il destino assegnava grandi mali.
L’Etrusco
però prega che non ci sia verità in quei segni e che Tagete il
fondatore dell’arte si sia inventato tutto et fibris
sit nulla fides e Tages
conditor artis finxerit ista (637).
Il Tuscus dunque
profetava aggirando i presagi e coprendoli con l’ambiguità tegens
ambage (638).
Ma
Nigidio Figulo[14] disse:
se è il Destino a muovere le stelle, a Roma e al genere umano si sta
preparando la rovina.
“Imminet
armorum rabies, ferrique potestas
Confundet
ius omne manu, scelerique nefando
Nomen
erit virtus
multosque exībit in annos
Hic
furor. Et superos
quid prodest poscere finem?
Cum
domino pax ista venit (666- 670),
questa pace giunge insieme a un padrone
Roma
rimarrà libera solo per il tempo della guerra civile civili tantum
iam libera bello. Poi ci sarà
la dittatura.
Cfr.
Tacito : omnem potentiam ad unum
conferri pacis interfuit (Hist
.I, 1), fu utile alla pace.
Chi
vuole la libertà deve affrontarne le battaglie, chi preferisce la
pace deve accettarne la servitù.
Tacito
rifiuta le res novae e
i molitores rerum novarum,
i macchinatori del disordine, egli è il cittadino romano “che
vuole in Roma la pace per portare la guerra nel mondo” (Tacito di
Concetto Marchesi, p. 119)
Tacito
del resto denuncia l’asservimento della società urbana: “At
Romae ruere in servitium consules, patres, eques, Quanto quis
inlustrior, tanto magis falsi et festinantes”
(Ann.
I, 7)
Una
donna corre invasata per l’Urbe rivelando urguentem
pectora Phoebum,
Febo che preme il suo petto (678). La donna antivede non vanamente la
storia fino a Filippi. Vede Pompeo che giace deformis
truncus fluminea harena, tronco
deforme sulla rena del fiume, La guerra civile continuerà in senato
con l’assassinio di Cesare. Poi riprenderà fino a Filippi.
Fine
primo libro
FINE
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[7] S.
Mazzarino, Il
pensiero storico classico,
2, p. 199-200.
[8] P.
e. Svetonio, Caesaris
vita,
32.
[9] S.
Mazzarino, Il
pensiero storico classico,
2, p. 201.
[10] B.
Brecht, Gli
affari del signor Giulio Cesare,
p. 22.
[11] Era
stato partigiano di Pompeo.
[12] Curzio
Rufo, Historiae
Alexandri Magni,
8, 8, 15. Cfr. pure 3, 8, 7 dove Dario III dice “fama
bella stare”.
[13] Gli aruspices,
giunti in un primo tempo dall’Etruria, erano
specializzati a leggere il futuro nel fegato delle vittime.
[14] Nato
in una famiglia
plebea, si suppone che il cognomen
Figulus ("vasaio")
derivi dalla sua dimostrazione della rotazione della Terra su
se stessa (similmente alla ruota dei vasai); in
uno scolio alla Farsaglia di Lucano è
riferito che Nigidio ebbe il soprannome di "Figulo"
("vasaio") perché “regressus
a Graecia dixit se didicisse orbem ad celeritatem rotae figuli
torqueri”
("ritornato dalla Grecia disse che aveva imparato che la Terra
gira con la rapidità del tornio del vasaio"). Fu forse tribuno
della plebe nel 59
a.C.[2] e pretore nel 58
a.C.[3] Fu
amico di Marco
Tullio Cicerone,
che ci informa di una legazione di
Nigidio in Asia
Minore nel 52
a.C.[4] Durante
la guerra
civile tra Cesare e Pompeo,
si schierò in favore di quest'ultimo.[5] Costretto
all'esilio da Gaio
Giulio Cesare nel 46
a.C.,
si appellò contro il provvedimento col patrocinio di Cicerone.
Nigidio morì pochi mesi dopo, nel 45
a.C. (come
ci ricorda Svetonio).
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