Lucano, Pharsalia I
libro
Lucano
dunque canta bella
plus quam civilia e ius datum sceleri e populum potentem
conversum victrici dextrā in sua viscera, cognatasque acies; poi, rotto il
patto del potere
rupto foedere regni tra i triumviri, certatum si
combattè totis viribus concussi orbis con tutte le forze del mondo
sconquassato, in
commune nefas per la comune scelleratezza.
Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri? (8) Furore, licenza della guerra.
Intanto
l’ombra di Crasso vagabat inulta (12).
Crasso
console nel 70, triumviro nel 60, console di nuovo nel 55, morì a Carre nel 53.
Se invece
di rivolgere le armi contro se stessa, i Romani le avessero impiegate contro i
popoli esterni ci sarebbero state grandi conquiste: nondum tibi defuit
hostis, non ancora i nemici ti sono mancati: “totum sub Latias
reges cum misĕris orbem” (22) solo dopo che avrai messo il mondo intero
sotto le leggi latine in te verte manus (23).
L’Italia
del resto è in rovina: moenia pendent semirutis
tectis le mura pencolano su case diroccate, rarus habitator errat
antiquis in urbibus, Hesperia est horrida
dumis, irta di macchie selvatiche multosque inarata per annos, desuntque manus
poscentibus arvis (29). Ma questo non è colpa tua Pyrre ferox, nec tantis cladibus
auctor Poenus erit, alta sedent vulnera
civilis dextrae (32) profonde si stendono le ferite della destra
armata per la guerra civile.
Per
quanto riguarda l’ Hesperia multosque
inarata per annos Cfr. Tacito Annali, XII, 43, meritatamente
celebre”[1]: "at
hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus portabat, nec
nunc infecunditate laboratur, sed
Africam potius et Aegyptum exercemus, navibusque et
casibus vita populi Romani permissa est ", eppure, per
Ercole, una volta l'Italia mandava vettovaglie per le legioni in province
lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far coltivare
l'Africa e l'Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi della
navigazione. Sono parole di una riflessione dell’autore.
Lo storico si riferisce all’ultimo periodo del principato di
Claudio (41-54), ma già Ottaviano Augusto temeva che le campagne rimanessero
non coltivate a causa dell'ozio della plebe, e decise di abolire le
distribuzioni frumentarie:"quod earum fiduciā cultură agrorum cessaret" [2], poiché,
confidando in queste, la gente trascurava la coltivazione dei campi. Tuttavia
l'imperatore non perseverò nel proponimento. Poi "Una grande crisi scoppiò
nel 33 d. C.: i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile una
qualunque concorrenza da parte di piccoli proprietari; questi si erano
indebitati, ricorrendo a prestiti di latifondisti senatori, sebbene ai senatori
fosse proibita l'usura… Ne derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i
quali svendevano i campi per pagare i debiti"[3].
Elogio di Nerone nel proemio della Pharsalia
Ma le
guerre civili hanno portato a Nerone e scelera ipsa nefasque
hāc mercede placent. C’è stata Farsalo, Munda, Perugia, Modena, “multum Roma tamen debet
civilibus armis-quod tibi res acta est” (I, 45-46), poiché è stata fatta
per te. Verrai accolto tra le stelle, tardi-serus-, e il
cielo ne gioirà, ogni divinità ti cederà il passo tibi numine ab omni
cedetur (50)
Dopo
l’apoteosi di Nerone ci sarà la pax per orbem inque
vicem gens omnis amet e ogni popolo si ami reciprocamente, e “ferrea belligeri compescat limina Iani”
(62), si chiuda la porta di ferro di Giano bellicoso.
Sed mihi iam numen, ma
per me tu sei già un dio, e prenderò ispirazione da te per scrivere il poema,
non invocherò Apollo né Dioniso “tu satis ad vires Romana in
carmina dandas” (66).
Cfr.
l’elogio di Domiziano nell’Achilleide di
Stazio. L’eroe celebrato nel poema, il Pelide, sarebbe stato un preludio
dell’ultimo dei Flavi: “magnusque tibi praeludit Achilles (I,
19)
Le cause della guerra civile
Spinse
il popolo romano invida fatorum series
summisque negatum- stare diu e il fatto che è negato a chi è giunto in
cima di restarvi, nec se Roma ferens (70-71)
e Roma che non reggeva se stessa (72).
Nello
stesso modo riportando il caos tutte le costellazioni si scontreranno con le
costellazioni mescolate tra loro: “antiquum repĕtens
iterum chaos, omnia mixtis-sidera sideribus concurrent, ignea pontum-astra
petent, tellus extendere litora nolet” (74-76) gli astri si dirigeranno sul
mare, la terra non vorrà estendere le coste.
E tutta macchina
discorde confonderà i patti del mondo lacerato
“totaque discors- machina divulsi
turbabit foedera mundi” (79-80)
“In se magna ruunt:
laetis hunc numina rebus-crescendi posuere modum” (81-82) le cose grandi
crollano su se stesse, i numi hanno posto questo limite di crescita alle
situazioni prospere.
Cfr.
Orazio: “suis et
ipsa Roma viribus ruit” (Epodi, 16, 2)
Ci fu il
primo triumvirato (60) omnisque potestas- impatiens consortis erit (Pharsalia I,
91-92).
In Tacito
questo fa parte degli arcana domus: “eam condicionem esse
imperandi ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur” (Annales, I, 6)
Non c’è
bisogno di cercare altrove gli esempi del destino: di Roma sono maledette le
origini “fraterno
primi maduerunt
sanguine muri” Pharsalia, 95).
Orazio: “sic est: acerba fata
Romanos agunt-scelusque fraternae necis,-ut inmerentis fluxit in terram
Remi-sacer nepotibus cruor” (Epodi, 7, 17-20)
Crasso
posto tra gli altri due era di indugio alla loro guerra. Li teneva separati
come fa la sottile striscia di terra dell’Istmo di Corinto dividendo lo Ionio
(golfo di Corinto) dall’Egeo (golfo Saronico).
Ma poi Crasso
venne ucciso a Carre (53) e questi Parthica damna
solverunt Romanos furores (106) sciolsero i lacci ai furori romani.
Con la
morte di Giulia, la figlia di Cesare, sposata a Pompeo, le fiaccole
matrimoniali divennero funerarie.
Solo
Giulia avrebbe potuto trattenere le furie del padre e del marito“ut generos soceris
mediae iunxere
Sabinae ” (118). La fortuna di Cesare è impatiens loci
secundi (124) . Cesare non sopporta chi gli stia davanti, Pompeo chi
gli sia pari
E’
difficile stabilire chi è il meno peggio: il migliore è Catone cui victa causa placuit (128)
mentre victrix
causa deis placuit.
Pompeo va
verso la vecchiaia (106-48) e oramai abituato alla toga dedidicit iam pace
ducem (131), nella pace ha disimparato a fare il comandante; concede
molto al volgo per acquisire popolarità, e gode dell’applauso del teatro suo[4].
Si erge
come ombra del suo grande nome stat magni nominis
umbra (135).
Vengono
in mente le teste svigorite della Nevkuia omerica (" ajmenhna; kavrhna", XI, 29)
E’
quale una quercia che oramai secca e dalle radici deboli, rimane tuttavia
conficcata per il suo peso nec iam validis
radicibus haerens- pondere fixa suo est, e fa ombra con il tronco, non con
le fronde: trunco,
non frondibus efficit umbram (140) sola tamen colitur,
però è la sola a essere venerata.
Cesare
(100-44)
Sed non in Caesare tantum- nomen erat nec fama ducis, sed
nescia virtus-stare loco, solusque pudor: non vincere bello”. (143-145), si vergognava
solo di non vincere in guerra.
Incalza
i successi, incalza il favore della divinità e gode nel farsi strada provocando
macerie-gaudens
viam fecisse ruinā (150). Viene paragonato al fulmine che atterrisce e
distrugge. Queste le cause per i duci hae ducibus causae, ma
c’erano anche publica
belli semina (159).
Infatti mundo subacto, opes
nimias Fortuna intulit et mores cessēre rebus secundis, i buoni costumi si
ritrassero di fronte alla prosperità, “predaque et hostiles
luxum suasēre rapinae” (162, il bottino e le rapine di guerra
consiglirono il lusso.
E’ la
fine del pericolo esterno e della conseguente cessazione della paura a questo
connessa che fa cambiare il costume e promuove vizi, rapine delitti
Polibio afferma che è difficile trovare un sistema politico
migliore della costituzione mista dei Romani: “o{tan me;n ga;r ti~ e[xwqen koino;~ fovbo~ ejpista;~
ajnagkavsh/ sfa'~ sumfronei'n kai; sunergei'n ajllhvloi~, thvlikauvthn kai;
toiauvthn sumbaivnei givnesqai th;n duvnamin tou' politeuvmato~ w{ste mhvte
paraleivpesqai tw'n deovntwn mhdevn…”(6, 18, 2-3), quando infatti
qualche paura comune incombente da fuori li costringe alla concordia e alla
cooperazione, tanta e tale succede che diventi la potenza dello Stato che né
viene tralasciata nessuna delle cose necessarie, in quanto, continua Polibio,
tutti fanno a gara per trovare i mezzi utili a fronteggiare la situazione, né
le decisioni falliscono l’occasione in quanto tutti contribuiscono ad attuarle.
Cfr. il metus hostilis di
Sallustio
Bellum Iugurthinum[5] di Sallustio: "Nam
ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat.
Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant,
lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti prima della
distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel
buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei
vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.
Non c’era
più limite per l’oro e le case - non auro tectisve modus - l’appetito
disprezzò le parche mense di prima mensasque priores-
aspernata fames (163-164); i maschi si impossessarono di eleganze appena
decorose da portare per giovani donne-cultus decōros vix
nuribus (165), l’avere poco, cosa feconda di uomini veri, viene
schivato paupertas
fecunda virorum fugitur (166).
Cfr.
Sallustio paupertas
probro haberi coepit, Cat. 12, 1.
Viene
importato da tutto il mondo quello per cui tutti i popoli muoiono-totoque arcessĭtur
orbe-quo gens quaeque perit- 166-167.
I
latifondi longa
rura vengono coltivati da coloni senza nome.
Latifundia perdidere Italiam" scrive Plinio il Vecchio[6].
La
violenza crebbe con l’avidità e divenne la misura del diritto mensuraque iuris- vis
erat, hinc leges et plebis scita coactae (175-176) leggi e decreti del
popolo forzato, et cum consulibus
turbantes iura
tribuni (177) tribuni con i consoli scompaginavano il diritto; hinc rapti fasces
pretio, fasci estorti pagando, il popolo che vende i voti, letalisque ambitus
urbi e i brogli elettorali mortali per l’Urbe. Di qui anche usura vorax,
l’usura vorace et
multis utile bellum (182) la guerra utile a molti.
Cesare giunge sul Rubicone (gennaio del 49) e gli
parla la ingens
visa duci patriae trepidantis imago (185). Roma è vultu maestissima,
canos effundens vertice crines, caesarie lacera, nudisque lacertis con
le chiome scompigliate
Roma
parlava gemitu permixta. Dice: “ Si iure venitis, si
cives, huc usque licet “(192), è lecito solo fin qui. Non dovete
procedere.
Ma Cesare
prega gli dèi, e Roma in particolar modo: Roma, fave coeptis (200)
asseconda l’impresa. Non vengo furialibus armis,
con le armi delle furie ma quale victor terraque
marique, ubique tuus (…) miles (202),
dappertutto soldato tuo. “ille erit, ille
nocens, qui me tibi fecerit hostem” (203). Poi si ferma un momento come un
leone totam
dum colligit iram, quindi si avventa con un balzo.
Il
Rubicone è il certus limes che
separa le terre galliche da quelle coltivate ab Ausoniis colonis (216).
Era inverno e il fiume era gonfio. Cesare, giunto sui campi d’Esperia, dice: i
patti precedenti siano lontani “te, Fortuna sequor
procul hinc iam foedera sunto-credidimus fatis, utendum est iudice bellum”
(226-227). I patti del triumvirato (60) sono lontani. Ci siamo affidati al
destino e come giudice bisogna servirsi della guerra.
CONTINUA
-------------------
Nessun commento:
Posta un commento