Presentazione
dell’autore e dell’Opera Rerum gestarum
libri XXXI
Partivano dal
regno di Nerva (96) e arrivano al 378 con la morte dell’imperatore Valente
nella battaglia di Adrianopoli. Non ci sono arrivati i primi 13 libri. Quelli
superstiti partono dal 352.
Prima parte 13-18
AMMIANO
MARCELLINO 330-400 d.C. circa
Nato ad
Antiochia, città di cultura greca, scrive in latino che non è la sua lingua
madre. Diversamente da Polibio e da Plutarco. Leopardi lo menzione quale eccezione:
gli altri scrittori di lingua greca non hanno scritto in latino ma in greco
Funzionario
della corte imperiale, ebbe incarichi militari da Costanzo e da Giuliano. Nelle
Storie racconta la sua fuga dalla
fortezza di Amida (XIX 8)
Dopo il 378 Ammiano
andò a Roma ed entrò in relazione con il circolo di Simmaco.
La sua storia
si dilunga più sugli eventi meno lontani dal tempo di cui aveva conoscenza
diretta (come l’opera di Tucidide).
Inoltre come
lo storiografo greco, anche Ammiano disprezza le minuzie[1]..
Con parole di sapore tucididèo, questo siriano
ricorda i princìpi della storiografia che non deve trattare avvenimenti minimi
bensì discurrere per negotiorum
celsitudines (26, 1, 1), non humilium
minutias indagare causarum. Indagare sulle minuzie è come sperare di poter
contare individua illa corpuscula
volitantia per inane, ajtovmou~, ut nos appellamus (XXVI, 1).
Ammiano
inserisce i discorsi di vari personaggi ricostruiti secondo le regole della
retorica. Né manca l’aspetto moralistico: l’autore passa in rassegna vizi e
virtù. Come la storia di Erodoto, quella di Ammiano contiene descrizioni
geografiche, etnografiche, non senza la presenza di scienze occulte secondo la
tendenza enciclopedica dell’epoca.
Tra i latini,
lo storiografo cui si avvicina di più è Tacito. Hanno in comune l’ammirazione
per la grandezza di Roma e l’indignazione per chi degenera dall’antica virtù,
lo spirito militaristico imperialistico e le inclinazioni aristocratiche.
Ammira la Roma
antica come Livio. Disprezza la viltà di Gioviano che cedette diversi territori
ai Persiani.
I segni: Quando Costanzo II morì (novembre
361), il cadavere fu portato a Costantinopoli scortato in pompa regale cum regia pompa, e folle al passaggio del feretro. Guidava il corteo Gioviano.
Questa sua funzione preannunciava l’impero (363-364) sed cassum et umbratile debole e oscuro, come si addiceva a un
ministro di cose funebri (XXI, 16). In altre parole un becchino.
Dopo la morte
di Giuliano, i Romani si ritirano dalla Persia (363). Gioviano conclude una
pace vergognosa con Sapore. L’imperatore cede la città di Nisibi. Le matrone
costrette all’esilio si strappavano le chiome “cum laceraret crines matrona exul fuganda-scacciata- laribus in quibus nata erat et educata,
orbataque mater liberis vel coniuge viduata” (XXV, 9)
Storiografia
patetica e di stampo tragico condannata da Polibio.
Gioviano morì
improvvisamente nel sonno (364)
I barbari
sono disprezzati quali incarnazione di rabies
e furor. Cfr. Petrarca
L’impostazione moralistica gli fa contrapporre
le virtù del passato alla corruzione del presente, come avevano fatto Sallustio
e Tacito.
Ammiano cerca
di essere imparziale e spesso lo è (cfr. Tucidide e Tacito). Ammira comunque
Giuliano presentato come il re filosofo della tradizione platonica e stoica,
novello Marco Aurelio, idealizzato come un santo laico. Del resto non gli risparmia
alcune critiche, come il divieto ai maestri cristiani di insegnare la
grammatica e la retorica.
Giuliano con un editto del 362 escluse
dall’insegnamento i maestri di retorica e grammatica cristiani arcebat docere magistros rhetoricos et
grammaticos ritus christiani cultores (22, 10) devoti della religione
cristiana.
Questo provvedimento dunque fu inclēmens e obruendum perenni silentio, da coprire
con perenne oblio (Ammiano, Storie, XXII,
10).
Ammiano non ha simpatia per i Cristiani, ma
rispetta l’eroismo dei martiri. Il basso popolo rimane nello sfondo ed è
guardato con disprezzo come una massa oziosa e bestiale che emerge solo in
improvvise esplosioni di ferocia. Quale in Tacito.
Ammiano considera con sguardo attento la
cerchia della corte imperiale. Si è già avviati verso la società feudale con la
scomparsa delle classi medie e la riduzione del popolo a condizione di servitù
della gleba. Si rappresenta una società dai costumi barbarico feudali dove
dominano la ferocia, la violenza, la malafede.
La fides, fundamentum iustitiae, non fa più parte delle virtù romane.
Fides è un valore di base della civiltà
latina, un valore politico, giuridico e pure etico. Cicerone nel De officiis [2] ne dà una definizione " Fundamentum
autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas
" (I, 23), orbene la fides è il
fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei
patti convenuti. Fides è il rispetto del foedus.
"Foedus
e fides sono legati etimologicamente:
foedus è "l'accordo", il
trattato stipulato secondo le sacre regole della fides "[3].
Lo stesso
Giuliano ricorre qualche volta all’inganno con i nemici.
In questi
casi si comporta da greco.
Quale
testimonianza di questa affermazione sulla scarsa fides dei Greci (Danaumque…insidiae[4])
riferisco un motto di Lisandro il quale concluse la guerra del Peloponneso
sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano che i
discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e
raccomandava sempre:" o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai
prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra
quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6). La perfidia
plus quam punica[5]
di Annibale e quella italica di Machiavelli hanno avuto dei maestri negli
Elleni.
Nel XVIII capitolo di Il Principe, Machiavelli ricorda "come
Achille e molti altri di quelli principi antichi[6]
furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li
costudissi". E ne deduce:"Il che non vuol dire altro, avere per
precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno
principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è
durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe
di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da'
lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a
conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno
semplicemente in sul lione, non se ne intendano[7].
Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando
tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono
promettere".
Le adulazioni, le delazioni con calunnie dei cortigiani, le denunce
degli agentes in rebus, agenti del
servizio segreto, mettono in pericolo la vita di chiunque. La paura assiepa
anche gli imperatori che la fanno a tutti: timent
timentes per dirla con Seneca[8].
Metus Augusti dunque è genitivo
soggettivo e oggettivo
Costanzo II (350-361) negli ultimi anni di regno vive chiuso come in una
fortezza; alcuni candidati all’impero rinunciano alla carica per paura.
Tipico è l’esempio di Procopio quando in seguito a
una rivolta in Oriente venne proclamato imperatore (365 sotto Valentiniano
I-364-375). Apparve subtabidus,
deperito, excĭtum putares ab inferis,
lo avresti detto evocato dall’oltretomba, e rivestito con una tunica ricamata
d’oro, come un servo imperiale. Infatti non si trovava un paludamentum, il mantello del capo militare (in greco clamuv~).
Venne
elevato in modo derisorio a questo sfregio di tutte le cariche ludibriose sublatus ad hoc dehonestamentum
honorum omnium .
Quando salì sulla tribuna fu preso da un
tremito che gli impediva di parlare: diu
tacitus stetit. Deinde tumultuariis
succlamationibus plebis imperator appellatus incondite (XXVI, 6).
Quindi entrò pessimo
pede nel palazzo imperiale di Costantinopoli. Era già accaduto che ci
fossero inizi ridicoli di regni infausti: così da Emesa balzò fuori Heliogabalus Antoninus mentre
l’imperatore Macrino si trovava ad Antiochia (nel 218).
Dopo la sua elezione emergebant
ex vulgari faece non nulli, come
suole accadere nelle guerre civili.
I personaggio di Ammiano sono quasi sempre in ansia
siccome non si fidano di nessuno, sono stravolti dall’ira o dalla paura, oppure
immobili in una posa ieratica, come le statue gigantesche dell’epoca di
Costantino.
Ricordo alcuni particolari del ritratto di Costanzo II
(350-361)
XXI, 16.
Non fu mai visto soffiarsi il naso in
pubblico né sputare né volgere il viso qua e là nec tersisse umquam nares in publico nec spuisse nec transtulisse in
partem alterǔtram vultum aliquando est visus, nec pomorum quoad vixerit gustaverit.
Pure Giuliano ha qualche cosa di rigido e
disumano nelle sue virtù.
Il frequente paragone di uomini con animali
segnala il livello bestiale cui è decaduta l’umanità
Ricordo la sedizione della folla romana che
lamentava la mancanza di vino: il prefetto Leonzio, si avvicinò
coraggiosamente.
Seduto sul cocchio cum speciosa fiducia (bella ma anche ostentata e forse apparente) contuebatur acribus oculis osservava con
sguardo severo tumultuantium undique
cuneorum veluti serpentium vultus, gli occhi come di serpenti delle schiere
che tumultuavano ovunque, XV, 7 (355).
CONTINUA
[1] Plutarco, nella Vita di Solone, racconta che il saggio legislatore ateniese
disprezzava la ajpeirokaliva, l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia (27, 20), la meschinità di Creso che si era presentato
coperto di gioielli e d'oro. Luciano in Come
si deve scrivere la storia (scritto tra il 163 e il 165) fa questa osservazione: “Vi sono alcuni
che trascurano completamente, o appena sfiorano, fatti grandi (ta; megavla) e invece, per rozzezza (uJpo; de;
ijdiwteiva"),
mancanza di gusto (ajpeirokaliva"), e ignoranza (kai; ajgnoiva") di quello che va detto o quello che
va taciuto, si attardano a descrivere nei minimi dettagli le cose più
trascurabili (ta; mikrovtata,
27)”. L’ajpeirokaliva è lo
stesso difetto che il filosofo Nigrino di Luciano attribuisce ai ricchi Romani,
i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo
gusto: pw'" ga;r ouj geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;"
porfurivda" profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou" proteivnonte"
kai; pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan; “Come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro
stesse persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e
protendono le dita delle mani, denunciano il loro cattivo gusto?” (Nigrino, 21).
[2] Del 44 a .
C.
[4] Cfr. Eneide, 2, vv. 309-310: “ Tum
vero manifesta fides Danaumque patescunt/insidiae”, allora davvero è
evidente la lealtà e si scoprono gli inganni dei Danai. E’ il momento della scoperta
dell’inganno del cavallo di Troia. Invano Laocoonte aveva cercato di mettere in
guardia i Troiani gridando: “equo ne
credite, Teucri./Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis” (Eneide, 2, vv. 49-50), non dovete
credere alla storia del cavallo, Teucri. Qualunque cosa sia questa, temo i
Danai anche quando portano doni.
[5] Tito Livio, Storie, XXI, 4.
[6] Come Giasone ndr.
[7] In Toscana usano ancora, spesso, il
congiuntivo al posto dell’indicativo. Ndr.
[8] Nell’Oedipus Creonte ribatte al cognato-nipote che la paura diffusa dal
tiranno torna su di lui:"Qui
sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit"
(vv. 705-706), chi impugna lo scettro crudelmente con dura tirannide teme
quelli che lo temono; la paura torna su chi la provoca.
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