NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 8 gennaio 2019

Introduzione a Plutarco. Parte 1

Plutarco

Testo della conferenza che terrò domani 9 gennaio - leggendo il meno e ricordando il più possibile - nella biblioteca Ruffilli di Bologna dalle 17, 30 alle 19, 30

Introduzione a Plutarco biografo di modelli e contromodelli umani.
Introduzione a Plutarco come antidoto contro la mediocrità e l'indifferenza dell'uomo moderno. L'informazione dei giornali, e la cultura quale potenziamento della fuvsi"

Plutarco è noto soprattutto per le Vite parallele  le quali "sono il monumento classicistico della storia classica"[1]. Nel nostro studio lo anticipiamo rispetto al più antico Polibio, poiché in questo scrittore più recente, biografo, storiografo, moralista, rivivono i grandi temi e i valori etici, politici, religiosi dell'età non solo classica ma anche arcaica,  particolarmente quel tema dell'eroismo, della grandezza umana, che abbiamo cercato durante tutto il percorso fatto insieme. Plutarco viene trascurato dalla scuola del nostro tempo poiché le sue figure grandiose, nel bene e nel male, non sono di moda; il "genocidio culturale"[2] perpetrato dai mezzi di informazione ha annichilito prima di tutto la razza davvero umana delle persone intellettualmente e moralmente autonome, sostituendola con una massa di omuncoli privi di identità personale, eppure non sempre innocui. Una genìa di cui già si lamentava Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis  deplorando:"i delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e' si vedano presso il patibolo-ma ladroncelli, tremanti, saccenti-più onesto insomma è tacerne"(4 dicembre). L'homo consumens  odierno non deve avere a cuore altro che lo spendere e lo sprecare. Questo tramonto dell'eroe, con il rimpianto di alcuni fortunati, o sfortunati, pochi[3] che sentono il bisogno di tale dimensione, un declino parallelo al tramonto degli dèi lamentato già da Sofocle[4], non è un fatto recente, se consideriamo il bisogno di Plutarco, e il rimpianto dei suoi grandi personaggi, in autori che certamente sono noti agli studenti liceali: Vittorio Alfieri, ad esempio, il quale nell'autobiografia scrive:"Ma il libro dei libri per me, e che in quell' inverno mi fece veramente trascorrere dell'ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri Grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All'udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano al vedermi nato in Piemonte e in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare"[5]. Insomma leggendo Plutarco troviamo, in età oramai non lontana dalla "tardo antica", quella grandiosità di sentimenti e concezioni che abbiamo amato in Omero, in Erodoto e nella tragedia. Il che non toglie, vedremo, quel senso della misura e quel rifiuto dell'eccesso che abbiamo pure individuato come valore fondamentale nello storiografo delle guerre persiane. Non per niente Plutarco fu sacerdote delfico.
Ma prima di esporre la vita  e le opere  che si trovano in tutti i manuali, e ciò nondimeno racconterò, più tardi però, e a modo mio, voglio riportare testimonianze davvero "autorevoli", non come quelle che ora vengono attribuite, a sproposito, ad alcuni giornali presunti tali, mentre sono, bene che vada, "la sfera dei secondi dell'orologio della storia", almeno a detta di Schopenhauer[6].  Non meno critico con i giornali e i giornalisti è Leopardi quando nell'ironica Palinodia Al Marchese Gino Capponi  ammette di avere riconosciuto "la pubblica letizia, e le dolcezze/del destino mortal"(vv. 21-22) dacché "viva rifulse/agli occhi miei la giornaliera luce/delle gazzette"(vv. 18-20). Addirittura sarcastico nei confronti dei giornali "autorevoli" è il Leopardi-Tristano delle Operette morali  quando dice:"Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età presente"[7].
Messa in dubbio, attraverso un grande nome della letteratura ed uno della filosofia, l' autorevolezza che le "gazzette" e i gazzettieri effimeri si attribuiscono a vicenda, passiamo ad autori seri  per autorizzare Plutarco, un'operazione forse non inutile poiché l'autore delle Vite parallele  nella scuola non ha il posto che si merità siccome essa vuole ragazzi mediocri, apatici e servili. Cercherò di usare il biografo degli eroi, lo scrittore morale dei Moralia  come antidoto a tali malattie dello spirito inoculate dai media. Ma andiamo con ordine. Un accorato grido contro l'apatia e il vuoto mentale si trova in Kierkegaard che guarda all'Antico Testamento  e a Shakespeare come a rifugi.
 Plutarco non è nominato direttamente, ma proprio per questo abbiamo l'occasione di chiarire un nesso tra il drammaturgo elisabettiano e il nostro storiografo:" Per l'uomo moderno, Plutarco significa Shakespeare"[8], e viceversa. E allora diciamo subito che alcune tragedie di Shakespeare (il Giulio Cesare, l'Antonio e Cleopatra, il Coriolano ) dipendono da Plutarco che il drammaturgo inglese leggeva nella traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella  francese (del 1559) del vescovo Amyot che tradusse pure i Moralia (1572)[9]. Nonostante la doppia traduzione ci sono, soprattutto nel Coriolano , situazioni e frasi che riproducono gli originali di Plutarco, tanto che Elias Canetti in un passo[10] de La provincia dell'uomo , afferma che " Plutarco non è affatto schizzinoso. Nelle sue pagine accadono cose terribili, come nelle pagine del suo seguace Shakespeare".
 Stabilito questo collegamento, diamo la parola al filosofo danese:"Lasciamo che gli altri si lamentino che i tempi sono cattivi; io mi lamento che il nostro tempo è miserabile, poiché è senza passioni. I pensieri degli uomini sono sottili e fragili come merletti, essi stessi miseri come le ragazze che fanno i merletti. I pensieri delle loro menti sono troppo meschini per essere peccaminosi. In un verme si potrebbe forse considerare come peccato l'avere tali pensieri, non in un uomo, creato a immagine di Dio. I loro desideri sono compassati e torpidi, le loro passioni sonnolente...Puah! Ed è per questo che la mia anima torna sempre all'Antico Testamento e a Shakespeare. Là si sente che quei che parlano sono uomini; là si odia, là si ama, si ammazza il nemico, si maledice la sua stirpe per tutte le generazioni, là si pecca"[11]. Un'idea simile si trova in Nietzsche:"Leggi Shakespeare: egli è pieno di questi uomini forti, rozzi, duri, potenti, uomini di granito. Di tali individui l'epoca nostra è poverissima, e quindi anche di uomini che abbiano animo capace di accogliere i miei pensieri"[12].
 Shakespeare dunque, e a maggior ragione il suo maestro Plutarco possono, o perfino debbono, essere utilizzati contro la mediocrità, la passività e la volgarità quando queste sembrano sommergere tutto. Aggiungiamo qualche altra testimonianza di scrittori per noi "autorevoli" che cercano nel greco quella dimensione eroica di cui tutti i figli della luce hanno bisogno. 
Foscolo nelle già citate Ultime lettere di Iacopo Ortis [13] scrive:"Col divino Plutarco potrò consolarmi de' delitti e delle sciagure della umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell'umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti". Andrea Maffei, l'autore del libretto de I masnadieri  di Verdi (1848), traducendo quasi alla lettera alcune parole del protagonista del dramma Die Räuber[14]  di Schiller ("Che nausea guardare questo secolo parolaio quando leggo Plutarco e i fatti dei grandi uomini"[15], I, 2) fa esordire Karl Moor ( che appare "immerso nella lettura d'un libro" come spiega la didascalia) con queste parole:"Quando io leggo in Plutarco, ho noia, ho schifo/di questa età d'imbelli!".  Plutarco dunque consola della volgarità imbelle dei tempi moderni, ma induce anche a disprezzarli, o a osservarli con distacco apollineo. Canetti nella pagina citata sopra parla di duplice influenza:"Dinanzi alle sue creature, Plutarco non ha mai un atteggiamento acritico. Ma il suo pensiero ha posto per molti tipi di uomini. E' longanime come può esserlo solo un drammaturgo che opera sempre con molti personaggi dai caratteri diversi e in particolare con le loro diversità. Per questo ha esercitato due generi di influenza. Alcuni hanno ricavato i loro modelli da lui, come da un libro di oracoli, e hanno modellato la propria vita in conformità. Altri hanno assunto dentro di sé i suoi quasi cinquanta personaggi e sono, così, divenuti o rimasti drammaturghi". Ma tra gli estimatori di Plutarco il più attento alla sua funzione di educatore, la più interessante anche per noi, è Nietzsche che nell Prefazione alla seconda Considerazione Inattuale , Sull'utilità e il danno della storia per la vita  (del 1874) respinge come "odioso" (con parole di Goethe che però ciascuno di noi potrebbe sottoscrivere) "tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività"(p. 81), e rifiuta il "grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce"(p. 85), affermando che la storia è necessaria  "all' attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente. Così essa occorreva a Schiller: il nostro tempo è infatti così cattivo, dice Goethe, che nella vita umana che lo attornia il poeta non incontra più nessuna natura utilizzabile"(p. 92).
Il nostro tempo  è caratterizzato da gente non solo cattiva ma anche debole:"nella mancanza di dominio su se stessi, in ciò che i romani chiamano impotentia , si rivela la debolezza della personalità moderna"(p. 116). Un ajntifavrmako" , un ottimo contravveleno di questa impotenza può essere Plutarco:"Se invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini, imparerete da essa il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al fascino paralizzante dell'educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non lasciarvi maturare  per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, allora che non siano quelle col ritornello "Il signor Taldeitali e il suo tempo". Saziate le vostre anime con Plutarco ed osate credere in voi stessi, credendo ai suoi eroi. Con un centinaio di uomini educati in tal modo non moderno, ossia divenuti maturi e abituati all'eroico, si può oggi ridurre all'eterno silenzio tutta la chiassosa pseudocultura di questo tempo"(p.125).
Insomma Plutarco e, più in generale, i Greci "impararono a poco a poco a organizzare il caos , concentrandosi, secondo l'insegnamento delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri, e lasciando estinguere i bisogni apparenti (...) E' questo un simbolo per ognuno di noi: ognuno deve organizzare il caos in sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri"[16]. Il giovane deve capire che la cultura può essere "qualcos'altro che decorazione della vita , cioè in fondo unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni ornamento nasconde la cosa ornata. Così gli si svelerà il concetto greco della cultura-in contrapposizione a quello romano-il concetto della cultura come una nuova e migliore physis , senza interno ed esterno, senza dissimulazione e convenzione, della cultura come unanimità fra vivere, pensare, apparire e volere"[17]. E' con questo spirito che affrontiamo lo studio di Plutarco. 

La vita di Plutarco, sacerdote delfico e funzionario dell'impero romano. Il rapporto degli scrittori Greci con la lingua latina secondo Leopardi.
Plutarco nacque a Cheronea poco prima del 50 d. C. da famiglia antica, illustre e benestante, anzi "dotata...di un diritto ereditario alla supremazia locale"[18]. Anche la cittadina dove lo scrittore vide la luce e passò la maggior parte della sua vita, per non renderla ancora più piccola con la sua assenza, come scrisse[19], era del resto illustre: là infatti, nell'estate del  338 a. C  "ebbe luogo l'epocale battaglia"[20] con cui  finì il mondo delle povlei" greche indipendenti, sconfitte da Filippo II di Macedonia e da suo figlio Alessandro che divennero i padroni dell'Ellade. Al tempo della vita di Plutarco però i signori della Grecia erano diventati i Romani e il nostro autore, dovette fare i conti con loro. Non furono calcoli particolarmente eroici invero, o per lo meno tutt'altro che rivoluzionari, poiché, come afferma Mazzarino, "egli, cittadino di Cheronea e filosofo e sacerdote greco, poteva riassumere in sé gli ideali dell'alta borghesia greca, da cui proveniva, e quelli delle classi dirigenti "umanistiche" di Roma"[21]. Tutta la sua opera monumentale insomma "mira a rappresentare (ed a giustificare storicamente) la 'condirezione greco-romana del vasto impero"[22]. Canfora fa anche notare[23] che Plutarco "raccomanda, nei suoi Precetti politici  (Politika; paraggevlmata) composti non molto dopo la morte di Domiziano[24]) di "tener l'occhio fisso ai calzari dei Romani che sono al di sopra del tuo capo"(813E)". All'inizio dello stesso paragrafo Plutarco prescrive al politico greco di dire a se stesso: governi da governato, in quanto la città è sottoposta ai proconsoli, ai procuratori di Cesare ("uJpotetagmevnh" povlew" ajnqupavtoi", epitrovpoi" Kaivsaro""). Più avanti(824B) l'autore consiglia di calzare il coturno di Teramene in caso di sedizione e di dialogare con le due parti senza aderire a nessuna, ma molto meglio sarà prevenirne gli scoppi poiché quello che conta è il benessere economico e ai popoli tocca tanta libertà quanta ne concedono i dominatori" ejleuqeriva" d j  o{on oiJ kratou'nte" nevmousi toi'" dhvmoi" mevtesti"(824C). Questo scritto tutt'altro che eroico "non manca di precisare con brutale franchezza quelli che sono i limiti dell'autonomia cittadina rispetto agli organi di governo provinciale romano"[25], e forse non sarebbe piaciuto a Jacopo Ortis al pari della vita vissuta dal suo autore, ma essa appartiene a lui solo, mentre le sue biografie di  eroi sono patrimonio di tutti .
Plutarco, pur essendo legato alla sua cittadina, e alla non lontana Delfi dove fu sacerdote del tempio di Apollo, viaggiò in Grecia e in altre regioni dell'impero: si recò ad Atene, dove frequentò la scuola dell'accademico Ammonio che lo avviò alla conoscenza di Platone, a Sparta, ad Alessandria, a Roma e in altre località dell'Italia dove del resto non imparò bene la lingua latina in quanto "preso dai doveri politici e dall'insegnamento della filosofia"[26].
I Greci, a partire da Polibio, incominciano a raccontare la storia dei “vincitori” , magari alla luce di un presupposto in cui i loro intellettuali hanno fermamente creduto: quello di un “condominio” greco-romano del mondo via via inglobato nell’impero di Roma. L’idea stessa delle Vite parallele di Plutarco si basa su questo presupposto. L’obiettivo, non sempre concretamente realizzabile, dovrebbe essere quello espresso efficacemente da Arnold J. Toynbee (Civilization on trial), di “studiare la storia greca e romana come una storia ininterrotta, con un corso unico e indivisibile”[27].  
 Questo Greco dunque che accettava il predominio romano come ineluttabile, non si latinizzò come fecero tanti altri intellettuali e collaboratori dell'impero, invero non Greci.  A tale proposito sono interessanti alcune riflessioni dello Zibaldone :"Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero il lat. così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del Demostene, e Longino dove parla di Cic.[28]". Più avanti Leopardi chiarisce questo concetto "Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, Lucano...ed altri Spagnuoli; Ausonio...Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano...S. Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani...Non così i greci...Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi"[29]. Vengono fatti alcuni nomi, tra cui quello di Macrobio (forse nativo dell'Africa) e del siriano Ammiano Marcellino. Quindi continua così:"Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorché sudditi romani, ancorché cittadini romani, ancorché vissuti lungo tempo in Roma o in Italia, ancorché scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai latini...ancorché nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorché impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de' Romani, e nella stessa Roma, ancorché finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco. Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma...così Plutarco...Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci di qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore...la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole... lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura...Questa lingua e letteratura cedette alla romana...la greca non mai...e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci...Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima sua patria. Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi di Costantino[30], possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosiss. scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri...Certo è che la letteratura influisce sommam. sulla lingua...Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile...E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommam. contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dové cedere, giacché non solamente non poté snidare la lingua e letterat. greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi né essa né la sua lingua in veruno di questi paesi"[31].
E più avanti: “Non si sa che i costumi de’ romani passassero ai greci neppur dopo Costantino…Da che i costumi de’ greci furono formati, essi li comunicarono agli altri ma non li ricevettero più da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro lingua, e la sua durata fino al presente. La tenacità che i greci ebbero sempre per le cose loro, e l’amore esclusivo che portarono e portano alla loro nazione, e a’ loro nazionali, è maravigliosa. Ho udito di alcune colonie greche ancora sussistenti in Corsica e in Sicilia, dove i coloni parlano ancora il greco, conservano i costumi greci, e non hanno stretta relazione se non fra loro, benché abitino in mezzo a un paese di nazione diversa, e sieno soggetti a un governo forestiero….E non è meraviglioso lo stato presente dei greci?”. Leopardi nota che altre lingue, compresa l’italiana, si sono mescolate e confuse “Ma i greci non sono divenuti mai turchi, né i turchi greci” (Zibaldone, 1591-1592).
Polibio non si accorge, come non sembra essersi accorto Posidonio, della superiorità che la classe politica romana si era procurata imparando a parlare greco, mentre i Greci non sapevano il latino”[32].
Plutarco dunque non imparò il latino e non scrisse mai in questa lingua. Nondimeno  fu cittadino romano con il nome di Mestrio, e se fu colpito dal bando con il quale Domiziano nel 93/94 d. C. decretò la cacciata dei filosofi da Roma, da Traiano ricevette gli ornamenta consularia ( in greco "th;n tw'n uJpatw'n ajxivan", secondo la voce Plutarco della Suda , un'enciclopedia letteraria bizantina, messa insieme nel X secolo d. C.), mentre al principio del regno di Adriano gli fu affidato l'incarico di curatore della provincia di Acaia, ossia di procuratore della Grecia, secondo una notizia del Chronicon  di Eusebio[33]. L'Adriano romanzato della Yourcenar ricorda:"A Cheronea, dove ero andato a commuovermi sulle antiche coppie di amici del Battaglione Sacro, fui per due giorni ospite di Plutarco"[34].

Non è stato Plutarco stesso a lasciarci le notizie sulle sue cariche alte, sebbene soltanto onorifiche, di funzionario dell'impero romano; egli invece ci parla delle sue magistrature locali, quelle di Cheronea e della Beozia dove fu arconte eponimo, sovrintendente all'edilizia pubblica e televarco", sovrintendente alla polizia di Tebe. Ma soprattutto fu fiero del suo sacerdozio delfico, incarico per il quale organizzava i giochi pitici, presiedeva le Anfizionie, offriva sacrifici, guidava processioni e danzava[35]. L'autore delle Vite parallele dunque con i suoi impegni politici e amministrativi "rappresenta bene i comportamenti ( e la visione del proprio posto nella compagine imperiale) proprî dei gruppi dirigenti filoromani. La tutela degli interessi della propria regione, o anche della propria cittadina, diventa preminente preoccupazione di questi gruppi dirigenti: è il modo in cui essi vedono concretamente attuarsi quella 'condirezione dell'impero che non poteva certo essere impostata-ed essi ne erano ben consapevoli-su un piano di parità"[36]. Plutarco morì in età alquanto avanzata in una data compresa tra il 120 e il 127 d. C.

CONTINUA

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[1]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , Laterza, Bari, 1974.  p. 136 III vol.
[2]Denunciato da Pasolini negli Scritti corsari , Garzanti, Milano, 1975, pp. 285-286:" E' in corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani".
[3]Echeggio, non per caso l'Enrico V  di Shakespeare : il re prima della battaglia di Agincourt esorta se stesso e i suoi con un discorso che culmina con il noto e quasi paradossale makarismov": "We few, we happy few, we band of brothers "(IV, 3), noi pochi, noi fortunati pochi, noi schiera di fratelli.
[4]Cfr. Edipo re , v. 910:" e[rrei de; ta; qei'a".
[5]La vita di Vittorio Alfieri scritta da esso , Epoca terza, cap. VII.
[6]Parerga E Paralipomena , Tomo II, p. 593. Scopenhauer nel luogo citato aggiunge che "L'esagerazione in ogni caso è il tratto essenziale del giornalismo come dell'arte drammatica: bisogna, infatti, ricavare il più possibile da ogni avvenimento. Per queta ragione, tutti i giornalisti sono, dato il loro mestiere, degli allarmisti: è il loro modo di rendersi interessanti. Essi somigliano in ciò a dei botoli, che, appena sentono un rumore, si mettono ad abbaiare con impeto".
[7]Dialogo di Tristano e di un amico .
[8]Mazzarino, op. cit., p. 138. L'autore continua così:"significa Robespierre e Verginaud e Danton; solo uno storico di razza (sia pure uno storico moralista, storico dell' ethos  di grandi individui) poteva trasmetterci l'eredità classica, in quanto eredità di tradizione storica, in maniera così rilevante e decisiva.
[9]Traduzioni approvate, da Montaigne che, qualche anno più tardi, scrive nei Saggi  :" Io do giustamente, mi sembra, la palma a Jacques Amyot su tutti i nostri scrittori francesi, non solo per la semplicità e la purezza del linguaggio, nella quale supera tutti gli altri, né per la costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo sapere, poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore tanto spinoso...ma soprattutto gli sono grato di aver saputo discernere e scegliere un libro tanto degno e tanto appropriato per farne dono al suo paese. Noialtri ignoranti saremmo stati perduti se questo libro non ci avesse sollevato dal pantano; grazie a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno lezione ai maestri di scuola; è il nostro breviario"(II, 4, pp. 467-468).
[10]In Opere 1932-1973 , trad. it. Bompiani, Milano, 1990,  p. 1812.
[11]Aut- Aut in Kierkegaard Opere , p. 12.
[12]Epistolario , novembre 1883, p. 204.
[13]18 ottobre 1797.
[14] Del 1782
[15]Traduzione di L. Ruggieri.
[16]Nietsche, Utilità e danno della storia , p. 160.
[17]Nietsche, op. cit., p. 160.
[18]C. P. Jones citato da Canfora in Storia Della Letteratura Greca , p. 558.
 [19]Vita di Demostene , 2
[20]Musti, Storia greca , p. 629.
[21]Il Pensiero Storico Classico , III vol., p. 171.
[22]Canfora, Storia Della Letteratura Greca , p. 558.
[23]Opera e pagina citate sopra.
[24]Avvenuta nel 96 d. C.
[25]P. Desideri, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 22.
[26]Vita di Demostene , 2.
[27] L. Canfora, Prima lezione di storia greca, p. 67.
[28]Pagina 44.
[29]Pagine 990-991.
[30]Morto nel 337 d. C.
[31]Zibaldone , pp. 992-996.
[32] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 267.
[33]Vescovo di Cesarea e amico dell'imperatore Costantino, autore, tra l'altro, di questa storia universale e parallela di vari popoli  con una tavola sincronica che giungeva fino al 303 d. C.. Ne rimangono frammenti in greco e larghi passi in traduzione latina.
[34]M. Yourcenar, Memorie di Adriano , p. 73.
[35]Cfr. An seni sit gerenda res publica  , 16, 792F.
[36]Canfora, op. cit., p. 559.

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