Plutarco |
Testo
della conferenza che terrò domani 9 gennaio - leggendo il meno e
ricordando il più possibile - nella biblioteca Ruffilli di Bologna
dalle 17, 30 alle 19, 30
Introduzione
a Plutarco biografo di modelli e contromodelli umani.
Introduzione
a Plutarco come antidoto contro la mediocrità e l'indifferenza
dell'uomo moderno. L'informazione dei giornali, e la
cultura quale potenziamento della fuvsi"
Plutarco
è noto soprattutto per le Vite
parallele le
quali "sono il monumento classicistico della storia
classica"[1].
Nel nostro studio lo anticipiamo rispetto al più antico Polibio,
poiché in questo scrittore più recente, biografo, storiografo,
moralista, rivivono i grandi temi e i valori etici, politici,
religiosi dell'età non solo classica ma anche
arcaica, particolarmente quel tema dell'eroismo, della
grandezza umana, che abbiamo cercato durante tutto il percorso fatto
insieme. Plutarco viene trascurato dalla scuola del nostro tempo
poiché le sue figure grandiose, nel bene e nel male, non sono di
moda; il "genocidio culturale"[2] perpetrato
dai mezzi di informazione ha annichilito prima di tutto la razza
davvero umana delle persone intellettualmente e moralmente autonome,
sostituendola con una massa di omuncoli privi di identità personale,
eppure non sempre innocui. Una genìa di cui già si lamentava
Foscolo nelle Ultime
lettere di Jacopo Ortis deplorando:"i
delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di nominare, se le loro
scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di
Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto
quantunque e' si vedano presso il patibolo-ma ladroncelli, tremanti,
saccenti-più onesto insomma è tacerne"(4 dicembre). L'homo
consumens odierno
non deve avere a cuore altro che lo spendere e lo sprecare. Questo
tramonto dell'eroe, con il rimpianto di alcuni fortunati, o
sfortunati, pochi[3] che
sentono il bisogno di tale dimensione, un declino parallelo al
tramonto degli dèi lamentato già da Sofocle[4],
non è un fatto recente, se consideriamo il bisogno di Plutarco, e il
rimpianto dei suoi grandi personaggi, in autori che certamente sono
noti agli studenti liceali: Vittorio Alfieri, ad esempio, il quale
nell'autobiografia scrive:"Ma il libro dei libri per me, e che
in quell' inverno mi fece veramente trascorrere dell'ore di rapimento
e beate, fu Plutarco, le vite dei veri Grandi. Ed alcune di quelle,
come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a
quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di
pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella
camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All'udire
certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in
piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi
scaturivano al vedermi nato in Piemonte e in tempi e governi ove
niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente
appena forse ella si poteva sentire e pensare"[5].
Insomma leggendo Plutarco troviamo, in età oramai non lontana dalla
"tardo antica", quella grandiosità di sentimenti e
concezioni che abbiamo amato in Omero, in Erodoto e nella tragedia.
Il che non toglie, vedremo, quel senso della misura e quel rifiuto
dell'eccesso che abbiamo pure individuato come valore fondamentale
nello storiografo delle guerre persiane. Non per niente Plutarco fu
sacerdote delfico.
Ma
prima di esporre la vita e le opere che si
trovano in tutti i manuali, e ciò nondimeno racconterò, più tardi
però, e a modo mio, voglio riportare testimonianze davvero
"autorevoli", non come quelle che ora vengono attribuite, a
sproposito, ad alcuni giornali presunti tali, mentre sono, bene che
vada, "la sfera dei secondi dell'orologio della storia",
almeno a detta di Schopenhauer[6]. Non
meno critico con i giornali e i giornalisti è Leopardi quando
nell'ironica Palinodia
Al Marchese Gino Capponi ammette
di avere riconosciuto "la pubblica letizia, e le dolcezze/del
destino mortal"(vv. 21-22) dacché "viva rifulse/agli occhi
miei la giornaliera luce/delle gazzette"(vv. 18-20). Addirittura
sarcastico nei confronti dei giornali "autorevoli" è il
Leopardi-Tristano delle Operette
morali quando
dice:"Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i
quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio,
massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età
presente"[7].
Messa
in dubbio, attraverso un grande nome della letteratura ed uno della
filosofia, l' autorevolezza che le "gazzette" e i
gazzettieri effimeri si attribuiscono a vicenda, passiamo ad autori
seri per autorizzare Plutarco, un'operazione forse non
inutile poiché l'autore delle Vite parallele nella
scuola non ha il posto che si merità siccome essa vuole ragazzi
mediocri, apatici e servili. Cercherò di usare il biografo degli
eroi, lo scrittore morale dei Moralia come
antidoto a tali malattie dello spirito inoculate dai media. Ma
andiamo con ordine. Un accorato grido contro l'apatia e il vuoto
mentale si trova in Kierkegaard che guarda all'Antico
Testamento e a Shakespeare come a rifugi.
Plutarco
non è nominato direttamente, ma proprio per questo abbiamo
l'occasione di chiarire un nesso tra il drammaturgo elisabettiano e
il nostro storiografo:" Per l'uomo moderno, Plutarco
significa Shakespeare"[8],
e viceversa. E allora diciamo subito che alcune tragedie di
Shakespeare (il Giulio
Cesare, l'Antonio e Cleopatra, il Coriolano )
dipendono da Plutarco che il drammaturgo inglese leggeva nella
traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella francese
(del 1559) del vescovo Amyot che tradusse pure
i Moralia (1572)[9]. Nonostante
la doppia traduzione ci sono, soprattutto nel Coriolano ,
situazioni e frasi che riproducono gli originali di Plutarco,
tanto che Elias Canetti in un passo[10] de La
provincia dell'uomo ,
afferma che " Plutarco non è affatto schizzinoso. Nelle sue
pagine accadono cose terribili, come nelle pagine del suo seguace
Shakespeare".
Stabilito
questo collegamento, diamo la parola al filosofo danese:"Lasciamo
che gli altri si lamentino che i tempi sono cattivi; io mi lamento
che il nostro tempo è miserabile, poiché è senza passioni. I
pensieri degli uomini sono sottili e fragili come merletti, essi
stessi miseri come le ragazze che fanno i merletti. I pensieri delle
loro menti sono troppo meschini per essere peccaminosi. In un verme
si potrebbe forse considerare come peccato l'avere tali pensieri, non
in un uomo, creato a immagine di Dio. I loro desideri sono
compassati e torpidi, le loro passioni sonnolente...Puah! Ed è per
questo che la mia anima torna sempre all'Antico Testamento e a
Shakespeare. Là si sente che quei che parlano sono uomini; là si
odia, là si ama, si ammazza il nemico, si maledice la sua stirpe per
tutte le generazioni, là si pecca"[11].
Un'idea simile si trova in Nietzsche:"Leggi Shakespeare: egli è
pieno di questi uomini forti, rozzi, duri, potenti, uomini di
granito. Di tali individui l'epoca nostra è poverissima, e quindi
anche di uomini che abbiano animo capace di accogliere i miei
pensieri"[12].
Shakespeare
dunque, e a maggior ragione il suo maestro Plutarco possono, o
perfino debbono, essere utilizzati contro la mediocrità, la
passività e la volgarità quando queste sembrano sommergere tutto.
Aggiungiamo qualche altra testimonianza di scrittori per noi
"autorevoli" che cercano nel greco quella dimensione eroica
di cui tutti i figli della luce hanno bisogno.
Foscolo
nelle già citate Ultime
lettere di Iacopo Ortis [13] scrive:"Col
divino Plutarco potrò consolarmi de' delitti e delle sciagure della
umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati
dell'umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti".
Andrea Maffei, l'autore del libretto de I
masnadieri di
Verdi (1848), traducendo quasi alla lettera alcune parole del
protagonista del dramma Die
Räuber[14] di
Schiller ("Che nausea guardare questo secolo parolaio quando
leggo Plutarco e i fatti dei grandi uomini"[15],
I, 2) fa esordire Karl Moor ( che appare "immerso nella lettura
d'un libro" come spiega la didascalia) con queste parole:"Quando
io leggo in Plutarco, ho noia, ho schifo/di questa età
d'imbelli!". Plutarco dunque consola della volgarità
imbelle dei tempi moderni, ma induce anche a disprezzarli, o a
osservarli con distacco apollineo. Canetti nella pagina citata sopra
parla di duplice influenza:"Dinanzi alle sue creature, Plutarco
non ha mai un atteggiamento acritico. Ma il suo pensiero ha posto per
molti tipi di uomini. E' longanime come può esserlo solo un
drammaturgo che opera sempre con molti personaggi dai caratteri
diversi e in particolare con le loro diversità. Per questo ha
esercitato due generi di influenza. Alcuni hanno ricavato i loro
modelli da lui, come da un libro di oracoli, e hanno modellato la
propria vita in conformità. Altri hanno assunto dentro di sé i suoi
quasi cinquanta personaggi e sono, così, divenuti o rimasti
drammaturghi". Ma tra gli estimatori di Plutarco il più attento
alla sua funzione di educatore, la più interessante anche per noi, è
Nietzsche che nell Prefazione alla seconda Considerazione
Inattuale , Sull'utilità
e il danno della storia per la vita (del
1874) respinge come "odioso" (con parole di Goethe che però
ciascuno di noi potrebbe sottoscrivere) "tutto ciò che mi
istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la
mia attività"(p. 81), e rifiuta il "grado di insonnia, di
ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e
alla fine perisce"(p. 85), affermando che la storia è
necessaria "all' attivo e al potente, a colui che
combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e
consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel
presente. Così essa occorreva a Schiller: il nostro tempo è infatti
così cattivo, dice Goethe, che nella vita umana che lo attornia il
poeta non incontra più nessuna natura utilizzabile"(p. 92).
Il
nostro tempo è caratterizzato da gente non solo cattiva
ma anche debole:"nella mancanza di dominio su se stessi, in ciò
che i romani chiamano impotentia , si rivela la
debolezza della personalità moderna"(p. 116).
Un ajntifavrmako" ,
un ottimo contravveleno di questa impotenza può essere Plutarco:"Se
invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini, imparerete da
essa il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al
fascino paralizzante dell'educazione del tempo, che vede la sua
utilità nel non lasciarvi maturare per dominare e
sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, allora che
non siano quelle col ritornello "Il signor Taldeitali e il suo
tempo". Saziate le vostre anime con Plutarco ed osate credere in
voi stessi, credendo ai suoi eroi. Con un centinaio di uomini educati
in tal modo non moderno, ossia divenuti maturi e abituati all'eroico,
si può oggi ridurre all'eterno silenzio tutta la chiassosa
pseudocultura di questo tempo"(p.125).
Insomma
Plutarco e, più in generale, i Greci "impararono a poco a poco
a organizzare
il caos ,
concentrandosi, secondo l'insegnamento delfico, su se stessi, vale a
dire sui loro bisogni veri, e lasciando estinguere i bisogni
apparenti (...) E' questo un simbolo per ognuno di noi: ognuno deve
organizzare il caos in sé, concentrandosi sui suoi bisogni
veri"[16].
Il giovane deve capire che la cultura può essere "qualcos'altro
che decorazione
della vita ,
cioè in fondo unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni
ornamento nasconde la cosa ornata. Così gli si svelerà il concetto
greco della cultura-in contrapposizione a quello romano-il concetto
della cultura come una nuova e migliore physis ,
senza interno ed esterno, senza dissimulazione e convenzione, della
cultura come unanimità fra vivere, pensare, apparire e volere"[17].
E' con questo spirito che affrontiamo lo studio di Plutarco.
La vita
di Plutarco, sacerdote delfico e funzionario dell'impero romano. Il
rapporto degli scrittori Greci con la lingua latina secondo Leopardi.
Plutarco
nacque a Cheronea poco prima del 50 d. C. da famiglia antica,
illustre e benestante, anzi "dotata...di un diritto ereditario
alla supremazia locale"[18].
Anche la cittadina dove lo scrittore vide la luce e passò la maggior
parte della sua vita, per non renderla ancora più piccola con la sua
assenza, come scrisse[19],
era del resto illustre: là infatti, nell'estate del 338
a. C "ebbe luogo l'epocale battaglia"[20] con
cui finì il mondo delle povlei" greche
indipendenti, sconfitte da Filippo II di Macedonia e da suo figlio
Alessandro che divennero i padroni dell'Ellade. Al tempo della vita
di Plutarco però i signori della Grecia erano diventati i Romani e
il nostro autore, dovette fare i conti con loro. Non furono calcoli
particolarmente eroici invero, o per lo meno tutt'altro che
rivoluzionari, poiché, come afferma Mazzarino, "egli, cittadino
di Cheronea e filosofo e sacerdote greco, poteva riassumere in sé
gli ideali dell'alta borghesia greca, da cui proveniva, e quelli
delle classi dirigenti "umanistiche" di Roma"[21].
Tutta la sua opera monumentale insomma "mira a rappresentare (ed
a giustificare storicamente) la 'condirezione greco-romana del vasto
impero"[22].
Canfora fa anche notare[23] che
Plutarco "raccomanda, nei suoi Precetti
politici (Politika;
paraggevlmata)
composti non molto dopo la morte di Domiziano[24])
di "tener l'occhio fisso ai calzari dei Romani che sono al di
sopra del tuo capo"(813E)". All'inizio dello stesso
paragrafo Plutarco prescrive al politico greco di dire a se stesso:
governi da governato, in quanto la città è sottoposta ai
proconsoli, ai procuratori di Cesare ("uJpotetagmevnh"
povlew" ajnqupavtoi", epitrovpoi" Kaivsaro"").
Più avanti(824B) l'autore consiglia di calzare il coturno di
Teramene in caso di sedizione e di dialogare con le due parti senza
aderire a nessuna, ma molto meglio sarà prevenirne gli scoppi poiché
quello che conta è il benessere economico e ai popoli tocca tanta
libertà quanta ne concedono i dominatori" ejleuqeriva"
d j o{on oiJ kratou'nte" nevmousi toi'" dhvmoi"
mevtesti"(824C).
Questo scritto tutt'altro che eroico "non manca di precisare con
brutale franchezza quelli che sono i limiti dell'autonomia cittadina
rispetto agli organi di governo provinciale romano"[25],
e forse non sarebbe piaciuto a Jacopo Ortis al pari della vita
vissuta dal suo autore, ma essa appartiene a lui solo, mentre le sue
biografie di eroi sono patrimonio di tutti .
Plutarco,
pur essendo legato alla sua cittadina, e alla non lontana Delfi dove
fu sacerdote del tempio di Apollo, viaggiò in Grecia e in altre
regioni dell'impero: si recò ad Atene, dove frequentò la scuola
dell'accademico Ammonio che lo avviò alla conoscenza di Platone, a
Sparta, ad Alessandria, a Roma e in altre località dell'Italia dove
del resto non imparò bene la lingua latina in quanto "preso dai
doveri politici e dall'insegnamento della filosofia"[26].
“I
Greci, a partire da Polibio, incominciano a raccontare la storia dei
“vincitori” , magari alla luce di un presupposto in cui i loro
intellettuali hanno fermamente creduto: quello di un “condominio”
greco-romano del mondo via via inglobato nell’impero di Roma.
L’idea stessa delle Vite
parallele di
Plutarco si basa su questo presupposto. L’obiettivo, non sempre
concretamente realizzabile, dovrebbe essere quello espresso
efficacemente da Arnold J. Toynbee (Civilization
on trial),
di “studiare la storia greca e romana come una storia ininterrotta,
con un corso unico e indivisibile”[27].
Questo
Greco dunque che accettava il predominio romano come ineluttabile,
non si latinizzò come fecero tanti altri intellettuali e
collaboratori dell'impero, invero non Greci. A tale
proposito sono interessanti alcune riflessioni dello Zibaldone :"Un
argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero il lat. così
assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini
studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del
Demostene, e Longino dove parla di Cic.[28]".
Più avanti Leopardi chiarisce questo concetto "Ridotti in
provincie romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che
uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse
originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano,
Marziale, Lucano...ed altri Spagnuoli; Ausonio...Terenzio, Marziano
Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano...S. Agostino, S.
Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani...Non così i greci...Nessuno
di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto
pochissimi"[29].
Vengono fatti alcuni nomi, tra cui quello di Macrobio (forse nativo
dell'Africa) e del siriano Ammiano Marcellino. Quindi continua
così:"Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorché
sudditi romani, ancorché cittadini romani, ancorché vissuti lungo
tempo in Roma o in Italia, ancorché scrivendo precisamente in Italia
o in Roma, e in mezzo ai latini...ancorché nel tempo dell'assoluta
padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina,
ancorché impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de' Romani,
e nella stessa Roma, ancorché finalmente nominati con nomi e prenomi
latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco.
Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore
Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma...così
Plutarco...Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con
quanta differenza dalle altre nazioni, i greci di qualunque paese
fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della
latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore...la lingua
latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non
estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla
lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia:
quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non
distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così
varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così
pieghevole... lingua della cui purità erano depositarii e custodi
gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì
lungo tempo ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta influenza
sulla nazione, e massime poi la letteratura...Questa lingua e
letteratura cedette alla romana...la greca non mai...e in ultimo,
piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare
quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci...Ed ora la
lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca,
sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima sua patria.
Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di
tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già
fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi di Costantino[30],
possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da
altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosiss.
scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro
madri...Certo è che la letteratura influisce sommam. sulla
lingua...Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si
spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile...E sebbene anche i
latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommam. contribuì a
formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta,
per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dové
cedere, giacché non solamente non poté snidare la lingua e
letterat. greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche
introdursi né essa né la sua lingua in veruno di questi paesi"[31].
E
più avanti: “Non si sa che i costumi de’ romani passassero ai
greci neppur dopo Costantino…Da che i costumi de’ greci furono
formati, essi li comunicarono agli altri ma non li ricevettero più
da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro lingua,
e la sua durata fino al presente. La tenacità che i greci ebbero
sempre per le cose loro, e l’amore esclusivo che portarono e
portano alla loro nazione, e a’ loro nazionali, è maravigliosa. Ho
udito di alcune colonie greche ancora sussistenti in Corsica e in
Sicilia, dove i coloni parlano ancora il greco, conservano i costumi
greci, e non hanno stretta relazione se non fra loro, benché abitino
in mezzo a un paese di nazione diversa, e sieno soggetti a un governo
forestiero….E non è meraviglioso lo stato presente dei greci?”.
Leopardi nota che altre lingue, compresa l’italiana, si sono
mescolate e confuse “Ma i greci non sono divenuti mai turchi, né i
turchi greci” (Zibaldone, 1591-1592).
“Polibio
non si accorge, come non sembra essersi accorto Posidonio, della
superiorità che la classe politica romana si era procurata imparando
a parlare greco, mentre i Greci non sapevano il latino”[32].
Plutarco
dunque non imparò il latino e non scrisse mai in questa lingua.
Nondimeno fu cittadino romano con il nome di Mestrio, e se
fu colpito dal bando con il quale Domiziano nel 93/94 d. C. decretò
la cacciata dei filosofi da Roma, da Traiano ricevette gli ornamenta
consularia (
in greco "th;n
tw'n uJpatw'n ajxivan",
secondo la voce Plutarco della Suda ,
un'enciclopedia letteraria bizantina, messa insieme nel X secolo d.
C.), mentre al principio del regno di Adriano gli fu affidato
l'incarico di curatore della provincia di Acaia, ossia di procuratore
della Grecia, secondo una notizia del Chronicon di
Eusebio[33].
L'Adriano romanzato della Yourcenar ricorda:"A Cheronea, dove
ero andato a commuovermi sulle antiche coppie di amici del
Battaglione Sacro, fui per due giorni ospite di Plutarco"[34].
Non
è stato Plutarco stesso a lasciarci le notizie sulle sue cariche
alte, sebbene soltanto onorifiche, di funzionario dell'impero romano;
egli invece ci parla delle sue magistrature locali, quelle di
Cheronea e della Beozia dove fu arconte eponimo, sovrintendente
all'edilizia pubblica e televarco",
sovrintendente alla polizia di Tebe. Ma soprattutto fu fiero del suo
sacerdozio delfico, incarico per il quale organizzava i giochi
pitici, presiedeva le Anfizionie, offriva sacrifici, guidava
processioni e danzava[35].
L'autore delle Vite
parallele dunque
con i suoi impegni politici e amministrativi "rappresenta bene i
comportamenti ( e la visione del proprio posto nella compagine
imperiale) proprî dei gruppi dirigenti filoromani. La tutela degli
interessi della propria regione, o anche della propria cittadina,
diventa preminente preoccupazione di questi gruppi dirigenti: è il
modo in cui essi vedono concretamente attuarsi quella 'condirezione
dell'impero che non poteva certo essere impostata-ed essi ne erano
ben consapevoli-su un piano di parità"[36].
Plutarco morì in età alquanto avanzata in una data compresa tra il
120 e il 127 d. C.
CONTINUA
-----------
[2]Denunciato
da Pasolini negli Scritti
corsari ,
Garzanti, Milano, 1975, pp. 285-286:" E' in corso nel nostro
paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla
quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in
primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali
mezzi siano in sé negativi: sono anzi d'accordo che potrebbero
costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora
sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso
regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio
culturale per due terzi almeno degli italiani".
[3]Echeggio,
non per caso l'Enrico
V di
Shakespeare : il re prima della battaglia di Agincourt esorta se
stesso e i suoi con un discorso che culmina con il noto e quasi
paradossale makarismov":
"We
few, we happy few, we band of brothers "(IV,
3), noi pochi, noi fortunati pochi, noi schiera di fratelli.
[6]Parerga
E Paralipomena ,
Tomo II, p. 593. Scopenhauer nel luogo citato aggiunge che
"L'esagerazione in ogni caso è il tratto essenziale del
giornalismo come dell'arte drammatica: bisogna, infatti, ricavare il
più possibile da ogni avvenimento. Per queta ragione, tutti i
giornalisti sono, dato il loro mestiere, degli allarmisti: è il
loro modo di rendersi interessanti. Essi somigliano in ciò a dei
botoli, che, appena sentono un rumore, si mettono ad abbaiare con
impeto".
[8]Mazzarino,
op. cit., p. 138. L'autore continua così:"significa
Robespierre e Verginaud e Danton; solo uno storico di razza (sia
pure uno storico moralista, storico dell' ethos di
grandi individui) poteva trasmetterci l'eredità classica, in quanto
eredità di tradizione storica, in maniera così rilevante e
decisiva.
[9]Traduzioni
approvate, da Montaigne che, qualche anno più tardi, scrive
nei Saggi :"
Io do giustamente, mi sembra, la palma a Jacques Amyot su tutti i
nostri scrittori francesi, non solo per la semplicità e la purezza
del linguaggio, nella quale supera tutti gli altri, né per la
costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo
sapere, poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore
tanto spinoso...ma soprattutto gli sono grato di aver saputo
discernere e scegliere un libro tanto degno e tanto appropriato per
farne dono al suo paese. Noialtri ignoranti saremmo stati perduti se
questo libro non ci avesse sollevato dal pantano; grazie a lui,
osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno lezione ai
maestri di scuola; è il nostro breviario"(II, 4, pp. 467-468).
[13]18
ottobre 1797.
[14] Del
1782
[15]Traduzione
di L. Ruggieri.
[17]Nietsche,
op. cit., p. 160.
[19]Vita
di Demostene , 2
[23]Opera
e pagina citate sopra.
[24]Avvenuta
nel 96 d. C.
[28]Pagina
44.
[29]Pagine
990-991.
[30]Morto
nel 337 d. C.
[33]Vescovo
di Cesarea e amico dell'imperatore Costantino, autore, tra l'altro,
di questa storia universale e parallela di vari popoli con
una tavola sincronica che giungeva fino al 303 d. C.. Ne rimangono
frammenti in greco e larghi passi in traduzione latina.
[36]Canfora,
op. cit., p. 559.
Nessun commento:
Posta un commento