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Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide. Callicle nel Gorgia.
Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide. Callicle nel Gorgia.
Eppure per Eteocle la divinità più grande è
la tirannide (“th;n qew'n megivsthn w{st j e[cein Turannivda” v. 506), e pur
di averla egli sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a scendere sotto
terra. Sicché egli non cederà mai questo bene supremo: sarebbe un atto di viltà
(ajnandriva,
v. 509). Non solo: il figlio di Giocasta conclude la sua celebrazione del
potere dicendo alla madre che poi lo contraddice :" ei[per ga;r
ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d
eujsebei'n crewvn", vv. 524-525, se davvero è necessario commettere
ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna
essere pio.
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide
meritevole di pena di morte (Capitalis
Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico
caso che era il più scellerato di tutti.
Questi versi delle Fenicie
li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare:"Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus
pietatem colas " (De Officiis
, III, 82).
Il falso sciocco.
Bruto e Amleto, gli ossimori viventi. Per salvarsi dal tiranno si fingono
pazzi
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non
lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua
fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato:"Ergo ex industria factus ad imitationem
stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit
cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se
stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto.
“Perché non vi è nulla
di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[1].
Ma quella che sembrava
pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo delfico infatti
preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse
baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea
communis mater omnium mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse
caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché
quella era la madre comune di tutti i mortali.
Amelethus dei Gesta
Danorum di Saxo Grammaticus (1140 ca-1210 ca) è l’antenato dell’ Hamlet di
Shakespeare
Vediamo un aspetto della sua pazzia con alcune
considerazioni di Maurizio Bettini:"L'eroe ha appena fatto all'amore con
la futura Ofelia shakespeariana, e gli viene chiesto: su quale cuscino? E
lui:" Su uno zoccolo di giumenta, una cresta di gallo e le travi del
tetto"[2].
Ma il falso stolto deve anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne. Odisseo a
Itaca, davanti a Menelao e Agamennone, aggioga all'aratro un bue e un cavallo e
se ne va in giro con in capo il berretto (pileus) dello stolto[3].
Ancora Amelethus, alla corte di Fengo, giace per terra sporco di cenere,
intento a indurire nel fuoco dei bastoncini ricurvi[4];
poi lo vediamo salire su un cavallo a rovescio, reggendo naturalmente la coda
al posto delle redini"[5].
L’Amleto di Shakespeare si finge pazzo
E anche nella sua
follia c'è metodo ( Though this be
madnness, yet there is method in’t, dice Polonio Hamlet,, II, 2) tanto che il re sentenzia che la pazzia nei grandi
deve essere vigilata (Madness in great
ones must not unwatch’d go, III, 1).
Falso sciocco è anche
Demo (Popolo) nei Cavalieri di
Aristofane (del 424). Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da
ingannare (eujparavgwgo" , v. 1115), gli dice, ti piace troppo essere adulato.
E il vecchietto irritabile, sordastro (duvskolon gerovntion-uJpovkwfon, vv. 42-43) risponde: non avete senno sotto le vostre
zazzere, se credete che io non capisca “ejgw; d j eJkw;n -tau't j
hjliqiavzw”, vv. 1123-1124), io mi
comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi portare da bere. Il
Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone in testa, di essere ladri,
per poi costringerli a vomitare fuori (pavlin ejxemei'n, v. 1148) quello che gli hanno rubato usando l’urna
elettorale per provocare il vomito.
Seneca maledice il potere.
Il regnum secondo Seneca è un fallax bonum del
quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto
seducente:" Quisquamne regno
gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis"(Oedipus,vv.7-8), qualcuno gode del
regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così
lusinghiera!
Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo
l'infuriare della pestilenza.
"Per questo uomo di potere (…) il potere è un nucleo
irriducibile di male-insieme fatto e subìto, avviluppato nelle rispondenze tra
violenza oggettiva e angoscia soggettiva"[6].
"Il tema fondamentale di
tutto il teatro senecano (…) è che potere e regno, condizioni di illusoria
felicità soggette a rovinosi cambiamenti di sorte, coincidono con la frode, con
l'Erinni familiare, con il furor mentre l'unica salvezza è la obscura
quies [7],
la serenità del proprio cantuccio, l'esser parte indistinguibile della folla.
L'avversione al regno ha come aspetto complementare l'esaltazione della
tranquillità di ogni piccolo uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix
mediae quisquis turbae, come canta un coro dell' Agamennone (v.
103). Liceat in media mihi/latere turba (Thy. 533 sg,) afferma
Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella trappola tesagli da
Atreo"[8].
Questo tema è presente anche
nella tragedia greca.
Ione sostiene la superiorità della vita ritirata su quella
impegnata o tesa al potere che viene smontato del tutto :"del potere
lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de;-
luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di
traverso (dedoikw;"
kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da
popolano felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;"-zh'n
a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace
di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione,
vv. 621-628).
E' questa un'affermazione ricorrente nell'opera euripidea:
torna nell' Ifigenia in Aulide dove lo stesso Agamennone, richiesto di
sacrificare la vita della primogenita , dice a un vecchio servo:" ti
invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini quello che passa una vita/senza
pericoli, ignorato, oscuro (ajgnw;" ajklehv" );/ quelli che stanno tra gli
onori li invidio di meno"(17-20).
La falsità del Potere
Nel Riccardo III
di Shakespeare, il duca di Gloucester, non ancora re, simula una ripugnanza del
potere per dissimularne la brama: lord Rivers, cognato del re Edoardo IV, gli
dice che lui e i suoi figli hanno sempre seguito il re, dunque” so should we, you, if you should be our king”,
faremmo lo stesso con voi, se foste re. E Riccardo risponde: “If I should
be? I had rather be a pedlar!-Far be it from my heart, the thought thereof ”
(I, 3), se fossi re? Preferirei essere un venditore ambulante! Sia
lontano dal mio cuore un pensiero del genere!
Riccardo
III, è “ il principe che ha letto Il Principe. La politica è per lui pura
pratica, un’arte il cui fine è governare. Un’arte amorale come quella di
costruire i ponti o come una lezione di scherma. Le passioni umane sono
argilla, e anche gli uomini sono un’argilla di cui si può fare quel che si
vuole.”[9].
Quando Riccardo viene aizzato dai
suoi alleati a vendicarsi dei suoi nemici, reagisce in questo modo “ But then I sigh, and, with a piece of
Scripture,-Tell them that God bĭds us do good for evil:- And thus I clothe my naked villainy-With odd
old ends stol’n forth of Holy Writ-And seem a saint, when most I play the devil”
( I, 3), ma allora io sospiro, e, con un brano della Scrittura, dico loro che
Dio ci ordina di rendere bene per male: e così rivesto la mia nuda
scelleratezza con occasionali vecchi scampoli tirati fuori dalla Sacra
Scrittura, e sembro un santo quando più faccio il diavolo.
A Lady Ann che in un primo tempo lo
rifiuta con sdegno chiamandolo foul devil,
diavolo immondo, siccome gli ha ucciso marito e suocero, il duke of Gloucester, replica: “lady, you know no rules of charity,-which
renders good for bad, blessing for courses”, signora, voi ignorate le
regole della carità, che rende bene per male, benedizioni per imprecazioni. (I,
2, 68-69)
La constatazione del
sangue umano che scorre nella corte viene denunciata da Donalbain, un figlio
del re vecchio assassinato dal nuovo re, da Macbeth :"qui dove siamo ci sono pugnali nei sorrisi degli
uomini: il vicino per sangue è il più vicino all'essere sanguinario” (where we are, there’s daggers in men’s
smile: the near in blood, the nearer bloody, Macbeth 2, 3).
La "grande sconsacrazione rinascimentale della maestà"[10]
si trova anche nel teatro di Shakespeare: nel prologo di The tempest
davanti ai cavalloni ruggenti, più di un re conta il nostromo (boatswain) che fa una domanda retorica
:"what cares-not allied to L. cura- these roarers for the name of king?"
(I, 1), che importa a queste bestie ruggenti del titolo di re? . Quindi il
nostromo si rivolge al re Alonso e al gentiluomo Gonzalo: “To cabin: silence trouble-lat. turba- us not!” (I, 1, 16-18), in
cabina, silenzio, non dateci noia.
CONTINUA
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