Le vespe di Aristofane al Teatro Greco di Siracusa, 2014 fotografia di Tommaso Le Pera |
Il potere della passione
Quarta parte del percorso che presenterò nel liceo Aldo Moro di Manfredonia durante la notte dei licei, 11 gennaio 2019
La passione del potere (pp. 15-21)
“Nulla
era più strano di questo popolo sovrano di Atene. Sempre geloso
della sua democrazia, sempre febbrilmente ansioso a ogni grido
d’allarme contro le minacce oligarchiche e tiranniche, esso si
abbandonava ciecamente alla guida capricciosa, interessata e spesso
irragionevole dei demagoghi. Così, mentre libertà e uguaglianza
valevano al di sopra di ogni cosa, il demos stesso esercitava
malignamente l’oppressione più dura e più dispotica sui ricchi e
sui nobili, ai quali imponeva senza riguardo liturgie e incombenze
d’ogni sorta; anzi il massimo piacere dei giurati era comminare
condanne severe, perfino ingiuste, agli imputati più illustri,
nonostante la loro nobiltà e la loro ricchezza. Gli ottimati
ricorsero allora al mezzo che appariva più a portata di mano:
associazioni o eterie furono allargate fino a diventare clubs
politici, destinati a promuovere il sostegno reciproco fra i loro
membri in caso di elezioni e di processi” (Droysen, Aristofane,
p. 114).
Aristofane
denuncia, ridendo, la parzialità, contraria ai ricchi, dei tribunali
popolari ateniesi, nella commedia Sfh`ke~
(le Vespe, del 422). Un giudice dell’Eliea, il vecchio
Filocleone. che prende la modesta paga di tre oboli al mese, esulta
per il potere che il suo ruolo gli conferisce: tutti lo adulano e
corteggiano, in casa e fuori, e “quando io fulmino - dice -
schioccano con le labbra per paura e se la fanno adosso ricchi e
nobili (vv. 626 - 628). E anche tu – rivolto al figlio Bdelicleone -
mi temi. Ma il giovane, che ha schifo di Cleone, lo convincerà che
il demagogo usa lui e altri stupidi vecchi fanatici compensandoli
con una misera paga rispetto ai propri colossali profitti.
“l’istanza
fatta valere dalla demoktratia ateniese (“il popolo sia al
di sopra di tutto col suo deliberare (boulesthai) viene in
parte vanificata (o contenuta) attraverso il meccanismo
della circolarità masse - capi. E’ Teramene il grande regista
del processo delle Arginuse! Il demo crede di imporre il proprio
volere ma è lui che lo pilota, anche attraverso i “retori
minori”… Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni,
ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”,
prende corpo e dà forma a uno Stato”1.
Sentiamo
quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde;
dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j
a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4 , 4), similmente
non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto
ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella
presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare
i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali
comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan
to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare
democrazia. Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai
tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga
me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi
(polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa
pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo
“contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~
nel primo periodo della democrazia radicale.
Luogo
simile in Cicerone: “Si vero populus plurimum potest omniaque
eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia”
(de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e
tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà,
ma è piuttosto licenza.
Secondo
Cicerone il buon governo è quello degli optimates dei quali
nell’orazione Pro Sestio (del 56 a. C.) dà questa
definizione: “Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec
natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti”
(97), sono tutti ottimati quelli che non sono nocivi, né per natura
malvagi né squilibrati, né inceppati da difficoltà familiari
“E
appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi:
perché ne risulterà che la democrazia della quale parlano gli
scrittori greci del V e del IV secolo non è quella democrazia che
consiste nel regime di libertà e di uguaglianza, bensì quella che
ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la definisce il
governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri,
si badi, e non, come si ode spesso ripetere a proposito di questa
definizione aristotelica, dei molti o della maggioranza…
Ora, è perché la democrazia è il governo di classe nel quale i
poveri - noi oggi diremmo il proletariato - hanno il potere, che
Aristotele la considera forma di governo degenere: e non certo perché
in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa, la
libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele deplora nella
democrazia è che il popolo - cioè, ripeto, il proletariato - vi
tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn”
(Politica, 1298b), padrone delle leggi e non soggetto ad esse,
e conseguentemente non vi siano la libertà e l’uguaglianza, che
soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da quella di
un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele
condanna la demokratìa perché è un regime di classe
socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma retta
di governo quella - la politèia - in cui governa la
maggioranza sì, ma sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto
insomma, lo Stato di democrazia liberale”2.
Invero
Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~
tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce solo
alla democrazia ma pure a un ordinamento oligarchico estremo: quando
poi coloro che detengono la sovranità nei corpi deliberativi si
scelgono gli uni con gli altri, quando il figlio succede al padre nel
posto che questi ha lasciato libero, quando costoro pretendono di
essere padroni delle leggi, allora è necessario che questo sia un
ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavthn
tavxin). Dove il potere dunque si perpetua attraverso la
cooptazione.
Il
potere delle leggi
Nella
Politica, Aristotele afferma che dove le leggi non sono
sovrane appaiono i demagoghi, in quanto allora diventa sovrano il
popolo. Un popolo del genere diventa dispotico in quanto non è
governato dalla legge. In questa situazione sono reputati gli
adulatori, e una democrazia di tale fatta corrisponde alla tirannide.
Infatti le decisioni dell’assemblea corrispondono agli editti del
tiranno e il demagogo corrisponde all’adulatore. Il popolo è
sovrano di tutto di nome, ma di fatto il demagogo è padrone dei
sentimenti del popolo. Dunque ha ragione chi dice che tale democrazia
non è una vera costituzione, poiché non c’è costituzione dove
non comandano le leggi ( o[pou ga;r mh; novmoi
a[rcousin, oujk e[sti politeiva, 1292a).
Nella
democrazia radicale c’è l’oppressione sui migliori attraverso i
decreti (yhfivsmata) che prevalgono
sulle leggi (novmoi). Così nella
tirannide gli editti ejpitavgmata
prevalgono sulle leggi.
Si
può pensare al khvrugma di Creonte
nell’Antigone di Sofocle (v. 8)
Nella
Costituzione degli Ateniesi , scritta negli ultimi anni di
vita, il filosofo di Stagira (384 - 322 a. C.) passa in rassegna gli
11 regimi che si sono succeduti ad Atene e nota gli errori seguiti
alla riforma di Efialte che abbatté il potere dell’Areopago: da
allora il governo commise più errori a causa dei demagoghi dia;
th;n th'~ qalavssh~ ajrchvn (41, 2), per il potere sul mare.
Dopo la spedzione in Sicilia ci fu la costituzione oligarchica dei
Quattrocento e la tirannide dei Trenta, quindi, con la restaurazione
democratica, il popolo ha reso se stesso padrone assoluto di ogni
cosa: “aJpavntwn ga;r aujto;~ auJto;n
pepoivhken oJ dh'mo~ kuvrion” (41, 2).
La
teoria della classe media. Tre voci diverse: Euripide, Aristotele,
Salvatorelli
Troviamo
la teoria della classe media nelle Supplici
3
di Euripide: “triw'n de; moirw'n hj
jn mevsw/ sw9zei povlei"”.
Sono parole di
Teseo che in questo testo
non è il perfido seduttore e profittatore di Arianna4,
ma l'eroe patrio garante dei valori della povli",
il fondatore della democrazia e la prefigurazione di Pericle.
Questa
teoria torna nell'Oreste (del 408) dove Euripide "
vede negli aujtourgoiv, nei lavoratori
in proprio, coloro che soli sono in grado di salvare la polis .
Il v. 920 dell'Oreste - "un lavoratore in proprio, di
quelli che appunto sono i soli a salvare la patria"5
- ricorda da vicino Suppl. 244:"delle tre parti quella
che sta in mezzo salva le città". La classe media era quindi
per Euripide costituita essenzialmente dai contadini che lavorano il
fondo di loro proprietà"6.
Aristotele
preferisce una costituzione fondata sulla supremazia della classe
media che né i poveri né i ricchi potranno rovesciare poiché non
vorranno mai accordarsi tra loro e non potranno trovare un’altra
costituzione che valga per entrambi (Politica, 1296 b, 35). La
clesse media oJ mevso" è
l’arbitro nel quale si nutre la maggiore fiducia oJ
diaiththv" pistovtato". Tanto più è stabile
tosouvtw/ minimwtevra la costituzione,
quanto meglio è stata miscelata o{sw/ d j a]n
a[meinon hj politeiva meicqh'/ (1297a)
Viene
in mente, mutatis mutandis, Luigi Salvatorelli che scrive: “il
fascismo rappresenta “la lotta di classe” della piccola borghesia
incastrata tra capitalismo e proletariato. La mentalità della
piccola borghesia umanistica si riassume in una parola sola:
retorica.
La
piccola borghesia possiede la cosiddetta cultura generale che
potrebbe definirsi “l’analfabetismo degli alfabeti” Questa
consiste in una infarinatura storico - letteraria , in cui la parte
letteraria è puramente grammaticale e formalistica, mentre quella
storica si riduce a un cumulo di date e di battaglie e di nomi di
sovrani. Tutto l’insegnamento è una congerie di nozioni generiche,
astratte, da imparare meccanicamente, senza stimolo al senso critico
e senza contatto con il processo storico e la realtà attuale. Di
qui, nella piccola borghesia, il fanatismo per la formula indiscussa
e indiscutibile.(Nazionalfascismo, 1923).
Oggi
va anche peggio con la verifica della preparazione liceale e perfino
universitaria fatta attraverso i quiz. Sono venute meno anche quelle
parti tecnicistiche, grammaticali, formalistiche le quali potevano
costituire il primo gradino, il più basso del sapere.
Vero
è che pochi insegnanti procedevano oltre, e quanti lo facevano erano
malvisti dai colleghi. Non dagli studenti per fortuna.
Ora
nella maggior parte delle istituzioni che dovrebbero diffondere
cultura c’è il nulla, il nichilismo culturale. Eppure ci sono
tante persone cui la cultura manca nel senso che ne sentono il
desiderio.
Nella
Costituzione degli Ateniesi pseudosenefontea il dialogante A
biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che
essa è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso
il potere e ha reso forte la città in quanto è il popolo che fa
andare le navi o{ti oJ dh'mo;~ ejstin oJ
ejlauvnwn ta;~ nau'~ (1, 2).
Potere
e impotenza delle leggi
Nella
Vita di Solone di Plutarco troviamo una derisione delle leggi
scritte attribuita ad Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore
Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera del legislatore che
pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le
quali, diceva Anacarsi, non differiscono affatto dalle ragnatele
(mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5,
4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre
saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo;
de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le
leggi dunque colpirebbero solo i deboli.
Nietzsche:
“Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle
persone colte e ricche”7.
Sofocle
nell’Antigone (secondo episodio, vv. 450 - 457) e nell’Edipo
re (secondo stasimo, prima strofe, vv. 863 - 872) toglie
valore alle leggi scritte di fronte a quelle divine che promanano
dagli oracoli dei santuari, da Delfi, dal Parnaso e dall’Olimpo.
CONTINUA
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1
Luciano Canfora, Legge
o natura? In NOMOS
BASILEUS, p. 59
2
G. Fassò, La
democrazia in Grecia,
p. 11.
3
Del 422 a. C.
4
Alcuni personaggi del
mito, come Teseo appunto, o Eracle, possiedono una pluralità di
significati.
5Aujtourgo;",
oiJvper kai; movnoi swv/zousi gh'n.
6Di
Benedetto, Euripide:
teatro e società,
, p. 208.
7
Frammenti postumi,
1876, 14
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