Alberto Martini - Hamlet (La pazzia di Amleto) |
Il potere della passione
Percorso presentato nel liceo Aldo Moro di Manfredonia durante la notte dei licei, 11 gennaio 2019
La cultura greca tende a sviluppare organicamente le forme
originarie: tra Omero[1]
e Plutarco l'uso dell'esempio concreto non viene mai meno, e pure
"l'idealista" Platone utilizza modelli e contromodelli: nel Gorgia il filosofo presentato i tiranni tra gli
incurabili ("ajnivatoi",
525c) diventati tali poiché hanno commesso i crimini più atroci e non
espiabili: ebbene costoro, non potendo più redimersi, servono come paradeivgmata,
esempi negativi per gli altri, stando sospesi nel carcere dell'Ade.
Del resto Plutarco nel
preambolo alla coppia Demetrio -
Antonio dice che questi due sono
uomini adatti a testimoniare quanto Platone scrisse: "o{ti kai;
kakiva" megavla" w{sper ajreta;" aiJ megavlai fuvsei"
ejkfevrousi", che le grandi nature producono grandi virtù come
anche grandi vizi.
Nella Repubblica (491e) Socrate infatti spiega ad Adimanto
che le anime di natura
migliore, se ottengono un' educazione cattiva diventano straordinariamente
cattive, poiché le grandi malvagità nascono da nature grandi.
Torniamo quindi ai due "eroi negativi" di
Plutarco:"genovmenoi
d& oJmoivw" ejrwtikoi; potikoi; stratiwtikoi; megalovdwroi
polutelei'" uJbristaiv, kai; ta;" kata; tuvchn oJmoiovthta"
ajkolouvqou" e[scon", divenuti ugualmente amatori, bevitori,
bellicosi, munifici, sontuosi, violenti, ebbero anche somiglianze conseguenti
per destino, ossia, spiega, con infime cadute nella polvere e sublimi salite
sui fastigi del potere. E' da notare che Plutarco ricorda, nel rappresentare
questi due uomini "uJbristaiv", alcune caratteristiche che Platone
attribuisce al tiranno destinato a divenire paradigma negativo: il turanniko;"
ajnh;r Repubblica (573c) è , per natura, o per le abitudini,
tra l'altro"mequstikov"
te kai; ejrwtikov"" incline al bere e anche al sesso. La
seconda inclinazione invero a me non sembra tanto viziosa né deleteria,
soprattutto se si pensa a coloro che in questi giorni di maggio, un "depraved May "[2],
direbbe Eliot, fanno le code per
comprare, a caro prezzo, la pillola contro l'impotenza sessuale. Ma
questo è tutt' altro discorso.
Metus tyranni:
genitivo soggettivo e oggettivo.
Il tiranno fa paura,
come affermano la nutrice di Medea (119
sgg.), e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502
- 507) , ma il metus tyranni è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota
vive circondato dal fovbo" : fa paura
e ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus
di Seneca:" Qui sceptra duro
saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit " (vv.
703 - 704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli
che lo temono; la paura ricade su chi la incute.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse
est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi
stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di
Dionigi il vecchio di Siracusa e di Alessandro tiranno di Fere il quale
sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era
un’altra furente che infino lo uccise “propter
pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio.
La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse
diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere
durare a lungo sotto la pressione della paura.
La paura che il tiranno ha dei migliori è stata messa in
evidenza anche dal cesariano Sallustio:"Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena
virtus formidulosa est "[3],
infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli
altri per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.
Nell'Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti
e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'" ejmh'"
turannivdo"" (vv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più
avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con
paura ("a[rcein... xu;n
fovboisi", v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie
, il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia,
cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
"La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al
tiranno"[4].
Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide. Callicle nel Gorgia.
Eppure per Eteocle la
divinità più grande è la tirannide (“th;n qew'n megivsthn w{st j e[cein Turannivda”v.
506), e pur di averla egli sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a
scendere sotto terra. Sicché egli non cederà mai questo bene supremo: sarebbe
un atto di viltà (ajnandriva,
v. 509). Non solo: il figlio di Giocasta
conclude la sua celebrazione del potere dicendo alla madre che poi lo
contraddice: " ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston
ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524 - 525, se davvero è
necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto,
altrimenti bisogna essere pio.
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide
meritevole di pena di morte (Capitalis
Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico
caso che era il più scellerato di tutti.
Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l'ambizioso
Cesare: "Nam si violandum est ius,
regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas " (De Officiis , III, 82).
Il
falso sciocco
Bruto
e Amleto, gli ossimori viventi. Per salvarsi dal tiranno si fingono pazzi
Bruto,
per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo
suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere
disprezzato:"Ergo ex industria
factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret,
Bruti quoque haud abnuit cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi
stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il
soprannome di Bruto.
Ma
quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo
delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che
per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo
contigit, scilicet quod ea communis
mater omnium mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse caduto per una
scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre
comune di tutti i mortali.
Amelethus
dei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus
(1140 ca - 1210 ca) è l’antenato dell’ Hamlet di Shakespeare
Vediamo un aspetto della sua pazzia con alcune
considerazioni di Maurizio Bettini:"L'eroe ha appena fatto all'amore con
la futura Ofelia shakespeariana, e gli viene chiesto: su quale cuscino? E
lui:" Su uno zoccolo di giumenta, una cresta di gallo e le travi del
tetto"[6]. Ma il falso stolto deve
anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne. Odisseo a Itaca, davanti a
Menelao e Agamennone, aggioga all'aratro un bue e un cavallo e se ne va in giro
con in capo il berretto (pileus)
dello stolto[7]. Ancora Amelethus, alla
corte di Fengo, giace per terra sporco di cenere, intento a indurire nel fuoco
dei bastoncini ricurvi[8]; poi lo vediamo salire su
un cavallo a rovescio, reggendo naturalmente la coda al posto delle
redini"[9].
L’Amleto
di Shakespeare si finge pazzo
E anche nella sua follia c'è metodo ( Though
this be madnness, yet there is method in’t, dice Polonio Hamlet,, II, 2) tanto che il re sentenzia
che la pazzia nei grandi deve essere vigilata (Madness in great ones must not unwatch’d go, III, 1).
Falso
sciocco è anche Demo (Popolo) nei Cavalieri
di Aristofane (del 424). Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da
ingannare (eujparavgwgo" , v. 1115), gli dice, ti
piace troppo essere adulato. E il vecchietto irritabile, sordastro (duvskolon gerovntion -
uJpovkwfon, vv.
42 - 43) risponde: non avete senno sotto le vostre zazzere, se credete che io
non capisca “ejgw; d j eJkw;n
- tau't j hjliqiavzw”, vv. 1123 - 1124), io mi
comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi portare da bere. Il
Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone in testa, di essere ladri,
per poi costringerli a vomitare fuori (pavlin
ejxemei'n, v.
1148) quello che gli hanno rubato usando l’urna elettorale per provocare il
vomito.
Seneca maledice il potere.
Il regnum secondo Seneca è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di
mali sotto un aspetto seducente:"
Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda
tegis"(Oedipus,vv.7 - 8),
qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una
facciata così lusinghiera!
Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo
l'infuriare della pestilenza.
"Per questo uomo di potere (…) il potere è un nucleo
irriducibile di male - insieme fatto e subìto - avviluppato nelle rispondenze
tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva"[10].
"Il
tema fondamentale di tutto il teatro senecano (…) è che potere e regno,
condizioni di illusoria felicità soggette a rovinosi cambiamenti di sorte,
coincidono con la frode, con l'Erinni familiare, con il furor mentre l'unica salvezza è la obscura quies [11], la serenità del proprio
cantuccio, l'esser parte indistinguibile della folla. L'avversione al regno ha
come aspetto complementare l'esaltazione della tranquillità di ogni piccolo
uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix
mediae quisquis turbae, come canta un coro dell' Agamennone (v. 103). Liceat
in media mihi/latere turba (Thy.
533 sg,) afferma Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella
trappola tesagli da Atreo"[12].
Questo
tema è presente anche nella tragedia greca.
Ione sostiene la
superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene
smontato del tutto :"del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma
dentro il palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de;
- luphrav): chi infatti è felice,
chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn),
trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto
che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;" - zh'n a]n qevloimi ma'llon h]
tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici
malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621 - 628).
E' questa un'affermazione ricorrente nell'opera euripidea:
torna nell' Ifigenia in Aulide dove lo stesso Agamennone, richiesto di
sacrificare la vita della primogenita , dice a un vecchio servo:" ti
invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini quello che passa una vita/senza
pericoli, ignorato, oscuro (ajgnw;" ajklehv" );/ quelli che stanno tra gli
onori li invidio di meno"(17 - 20).
CONTINUA
[1] Nell’Odissea Atena - Mente (I , 301) poi Nestore (III, 193 - 200)
propongono a Telemaco il modello di Oreste che ha vendicato il padre
[2]Maggio depravato, in Gerontion , v. 21.
[3]De Catilinae coniuratione , 7.
[4]D. Lanza, op. cit., p. 47.
[5] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[6] Saxo, 3, 6, 11.
[7] Igino, Fabulae, 95.
[8] Saxo, 3, 6, 6.
[9] M. Bettini, Le orecchie di Hermes,, p. 59.
[10] G. Paduano (a cura di), Edipo, p. 9
[11] Fedra 1127.
[12] Gianna Petrone, op. cit.,
p. 360.
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