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giovedì 17 gennaio 2019

Il potere della passione. Parte 7

Alberto Martini - Hamlet (La pazzia di Amleto)


Il potere della passione



Percorso presentato nel liceo Aldo Moro di Manfredonia durante la notte dei licei, 11 gennaio 2019


La cultura greca tende a sviluppare organicamente le forme originarie: tra Omero[1] e Plutarco l'uso dell'esempio concreto non viene mai meno, e pure "l'idealista" Platone utilizza modelli e contromodelli:  nel Gorgia  il filosofo presentato i tiranni tra gli incurabili ("ajnivatoi", 525c) diventati tali poiché hanno commesso i crimini più atroci e non espiabili: ebbene costoro, non potendo più redimersi, servono come paradeivgmata, esempi negativi per gli altri, stando sospesi nel carcere dell'Ade.
Del resto Plutarco  nel preambolo alla coppia Demetrio  -  Antonio  dice che questi due sono uomini adatti a testimoniare quanto Platone scrisse: "o{ti kai; kakiva" megavla" w{sper ajreta;" aiJ megavlai fuvsei" ejkfevrousi", che le grandi nature producono grandi virtù come anche grandi vizi.
Nella Repubblica  (491e) Socrate infatti spiega ad Adimanto
 che le anime di natura migliore, se ottengono un' educazione cattiva diventano straordinariamente cattive, poiché le grandi malvagità nascono da nature grandi.
Torniamo quindi ai due "eroi negativi" di Plutarco:"genovmenoi d& oJmoivw" ejrwtikoi; potikoi; stratiwtikoi; megalovdwroi polutelei'" uJbristaiv, kai; ta;" kata; tuvchn oJmoiovthta" ajkolouvqou" e[scon", divenuti ugualmente amatori, bevitori, bellicosi, munifici, sontuosi, violenti, ebbero anche somiglianze conseguenti per destino, ossia, spiega, con infime cadute nella polvere e sublimi salite sui fastigi del potere. E' da notare che Plutarco ricorda, nel rappresentare questi due uomini "uJbristaiv", alcune caratteristiche che Platone attribuisce al tiranno destinato a divenire paradigma negativo: il turanniko;" ajnh;r Repubblica  (573c) è , per natura, o per le abitudini, tra l'altro"mequstikov" te kai; ejrwtikov"" incline al bere e anche al sesso. La seconda inclinazione invero a me non sembra tanto viziosa né deleteria, soprattutto se si pensa a coloro che in questi giorni di maggio, un "depraved May "[2], direbbe Eliot, fanno le code per  comprare, a caro prezzo, la pillola contro l'impotenza sessuale. Ma questo è tutt' altro discorso.

Metus tyranni: genitivo soggettivo e oggettivo.
Il tiranno  fa paura, come affermano la nutrice di Medea  (119 sgg.), e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502 - 507) , ma  il metus tyranni è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo" :  fa paura e  ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus  di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit " (vv. 703 - 704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.

In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio di Siracusa e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infino lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio.
La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.
  
La paura che il tiranno ha dei migliori è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:"Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[3], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura.
 Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola  (39) di Tacito.

 Nell'Edipo re   di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'" ejmh'" turannivdo"" (vv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein... xu;n fovboisi", v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
"La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[4].

Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide. Callicle nel Gorgia.
 Eppure per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (“th;n qew'n megivsthn w{st j e[cein Turannivda”v. 506), e pur di averla egli sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a scendere sotto terra. Sicché egli non cederà mai questo bene supremo: sarebbe un atto di viltà (ajnandriva, v. 509).  Non solo: il figlio di Giocasta conclude la sua celebrazione del potere dicendo alla madre che poi lo contraddice: " ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524 - 525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.  
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti.
Questi versi delle Fenicie  li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare: "Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem  colas " (De Officiis , III, 82).

Il falso sciocco
Bruto e Amleto, gli ossimori viventi. Per salvarsi dal tiranno si fingono pazzi
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato:"Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto.
“Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[5].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet  quod ea communis mater omnium mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.

Amelethus dei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus (1140 ca - 1210 ca) è l’antenato dell’ Hamlet di Shakespeare
 Vediamo un aspetto della sua pazzia con alcune considerazioni di Maurizio Bettini:"L'eroe ha appena fatto all'amore con la futura Ofelia shakespeariana, e gli viene chiesto: su quale cuscino? E lui:" Su uno zoccolo di giumenta, una cresta di gallo e le travi del tetto"[6]. Ma il falso stolto deve anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne. Odisseo a Itaca, davanti a Menelao e Agamennone, aggioga all'aratro un bue e un cavallo e se ne va in giro con in capo il berretto (pileus) dello stolto[7]. Ancora Amelethus, alla corte di Fengo, giace per terra sporco di cenere, intento a indurire nel fuoco dei bastoncini ricurvi[8]; poi lo vediamo salire su un cavallo a rovescio, reggendo naturalmente la coda al posto delle redini"[9].
          
L’Amleto di Shakespeare si finge pazzo
 E anche nella sua follia c'è  metodo ( Though this be madnness, yet there is method in’t, dice Polonio  Hamlet,, II, 2) tanto che il re sentenzia che la pazzia nei grandi deve essere vigilata (Madness in great ones must not unwatch’d go, III, 1).
Falso sciocco è anche Demo (Popolo) nei Cavalieri di Aristofane (del 424). Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da ingannare (eujparavgwgo" , v. 1115), gli dice, ti piace troppo essere adulato. E il vecchietto irritabile, sordastro (duvskolon gerovntion - uJpovkwfon, vv. 42 - 43) risponde: non avete senno sotto le vostre zazzere, se credete che io non capisca “ejgw; d  j eJkw;n  - tau't  j hjliqiavzw”, vv. 1123 - 1124), io mi comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi portare da bere. Il Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone in testa, di essere ladri, per poi costringerli a vomitare fuori (pavlin ejxemei'n, v. 1148) quello che gli hanno rubato usando l’urna elettorale per provocare il vomito.   

Seneca maledice il potere.
Il regnum  secondo Seneca è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente:" Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis"(Oedipus,vv.7 - 8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera!
Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza.
"Per questo uomo di potere (…) il potere è un nucleo irriducibile di male - insieme fatto e subìto - avviluppato nelle rispondenze tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva"[10].
"Il tema fondamentale di tutto il teatro senecano (…) è che potere e regno, condizioni di illusoria felicità soggette a rovinosi cambiamenti di sorte, coincidono con la frode, con l'Erinni familiare, con il furor mentre l'unica salvezza è la obscura quies [11], la serenità del proprio cantuccio, l'esser parte indistinguibile della folla. L'avversione al regno ha come aspetto complementare l'esaltazione della tranquillità di ogni piccolo uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix mediae quisquis turbae, come canta un coro dell' Agamennone (v. 103). Liceat in media mihi/latere turba (Thy. 533 sg,) afferma Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella trappola tesagli da Atreo"[12].

Questo tema è presente anche nella tragedia greca.
Ione  sostiene la superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato del tutto :"del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore  (tajn dovmoisi de; -  luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;" - zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621 - 628).

E' questa un'affermazione ricorrente nell'opera euripidea: torna nell' Ifigenia in Aulide  dove lo stesso Agamennone, richiesto di sacrificare la vita della primogenita , dice a un vecchio servo:" ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini quello che passa una vita/senza pericoli, ignorato, oscuro (ajgnw;" ajklehv" );/ quelli che stanno tra gli onori li invidio di meno"(17 - 20).


CONTINUA


[1] Nell’Odissea Atena -  Mente (I , 301) poi Nestore (III, 193 - 200) propongono a Telemaco il modello di Oreste che ha vendicato il padre
[2]Maggio depravato, in Gerontion , v. 21.
[3]De Catilinae coniuratione , 7.
[4]D. Lanza, op. cit., p. 47.
[5] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[6] Saxo, 3, 6, 11.
[7] Igino, Fabulae, 95.
[8] Saxo, 3, 6, 6.
[9] M. Bettini, Le orecchie di Hermes,, p. 59.
[10] G. Paduano (a cura di), Edipo, p. 9
[11] Fedra 1127.
[12] Gianna Petrone, op. cit., p. 360.

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