liceo Aldo Moro di Manfredonia |
Il potere della passione
Terza parte del percorso che presenterò nel liceo Aldo Moro di Manfredonia durante la notte dei licei, 11 gennaio 2019
Argomenti
del percorso
Il
Potere. La figura del tiranno. Il persiano Otane, la
teoria antitirannica, e l’isonomia che è altra cosa dalla
democrazia ateniese la quale, secondo alcuni critici, sarebbe
stata una specie di dittatura del proletariato. Platone e la critica
della democrazia. Senofonte, Tucidide e Polibio. Nelle tragedie il
tiranno è il paradigma mitico della negatività del potere assoluto.
Tirannide e antitirannide in Eschilo. Nelle Supplici di
Euripide Teseo è il Pericle in vesti eroiche. Tebe è il paese
guasto, mentre Atene è la polis sana che è retta
con giustizia e protegge i supplici (Supplici, Eraclidi di
Euripide; Edipo a Colono di Sofocle).
Difetti della paideia spartana secondo Euripide
(Andromaca). Il potere incontrollato
Ancora
il mouvnarco~ di
Erodoto. Euripide, Platone. Tito Livio e Bruto, il falso sciocco,
l’ossimoro vivente, come Amleto. L’invidia del tiranno: Tacito.
Intellettuali e potere: Pasolini, Augusto e gli storiografi martiri.
La zoppia del tiranno. Il tiranno è ignobile, servile e
impotente. La paura del tiranno, genitivo soggettivo e oggettivo. Il
fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di
Euripide.
Seneca
maledice il potere tirannico. Il potere è razionale e morale
solo se esercitato al servizio dei sudditi. L’ira del
tiranno. Il tiranno, come lo schiavo calpesta la fides che
è un valore solo per le persone oneste. L’uguaglianza. Le
obiezioni di Giocasta a Eteocle nelle Fenicie. Precarietà
del possesso delle ricchezze. Euripide, Menandro e Seneca. Il senso
della misura e la teoria della classe media.
Il
tiranno abolisce la parrhsiva
Nella Medea di
Seneca la protagonista prova a chiedere giustizia con un processo
equo ma Creonte afferma il valore assoluto del suo ordine:"aequum
atque iniquum regis imperium feras" (v. 195), giusto o non
giusto, rassegnati all'ordine del re. Infatti esso è insindacabile.
Medea
prova a obiettare che l'iniquità è una base instabile per un
regno:"iniqua numquam regna perpetuo manent" (v.
196), i regni iniqui non durano mai a lungo.
L'iniquità
consiste nel non ascoltare la parte avversa:"qui
statuit aliquid parte inaudita altera,/aequum licet statuerit, haud
aequus fuit"
(vv. 199-200), chi ha emesso una sentenza senza avere ascoltato
l'altra parte, anche se ha decretato il giusto, non è stato giusto.
Il
tiranno che fa ha paura e pure ne ha, non lascia parlare: abolisce
la parrhsiva che
è la cellula della democrazia.
Nell'Antigone la
protagonista rinfaccia a Creonte che il suo gesto sarebbe approvato
dal popolo se le lingue non fossero inceppate :" Si
potrebbe dire che a tutti questi questo/piace, se la paura non
serrasse la lingua" (eij
mh; glw'ssan ejgklh/voi fovbo" ,
vv. 504-505).
Il
tiranno inceppa le lingue anche nel Macbeth: “This
tyrant, whose sole name blisters our tongues-old latin dingua”
(IV, 2), questo tiranno, il cui solo nome, fa venire vesciche sulla
lingua, afferma Malcom, uno dei figli del re Duncan ucciso da
Macbeth.
Il
tiranno ha la passione del potere, il nobile persiani Otane quella
del non-potere
Nelle Storie di
Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile
persiano Otane il quale, durante il dibattito
costituzionale, contrappone alla monarchia il potere del popolo che
prima di tutto ha il nome
più bello: " ijsonomivhn",
poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti
il dh'mo" esercita
a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a
controllo:" uJpeuvqunon
de; ajrch;n e[cei"
(III, 80, 6).
Erodoto
attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio,
secondo la quale la monarchia degenera inevitabilmente in tirannide.
Tra
i sette nobili Persiani parlò anche Megabizo, che propugnava
l'oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la
monarchia e l'inevitabilità della degenerazione sia della
democrazia sia dell'aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme
deteriori. Prevalse Dario con l'argomento che a loro la
libertà era venuta da un monarca. Allora Otane non entrò
in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di
manifesto dell'antisadismo:"ou[te
ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw"
(III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[1].
Altri
casi di amore del non potere
“Una
forte tendenza al rifiuto di obbedire è spesso accompagnata da una
tendenza altrettanto forte al rifiuto di dominare e di
comandare”[2] .
Sentiamo Bertolt
Brecht:
“Io
son cresciuto figlio
di
benestanti. I miei genitori mi hanno
messo
un colletto, e mi hanno educato
nelle
abitudini di chi è servito
e
istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando
fui adulto e mi guardai intorno
non
mi piacque la gente della mia classe,
né
dare ordini né essere servito.
E
io lasciai la mia classe e feci lega
Un’eco
di questa splendida affermazione, che condivido da quando
le zie mi portavano nei poderi della nonna per assistere alle
battiture del grano e notavo la povertà dei mezzadri, possiamo
trovarla nel film di Chaplin The great
dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler,
scambiato per il grande dittatore, deve fare un discorso che
legittimi ed esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla
folla come il futuro imperatore del mondo dal ministro
della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il barbiere non rispetta
la parte che gli hanno assegnato e dice: “I’m sorry, but I
don’t want to be an emperor. That’s not my business. I don’t
want to rule or conquer anyone”, mi dispiace, ma io non voglio
essere imperatore, non è il mio mestiere, io non voglio governare o
conquistare nessuno.
E
continua: “I should like to help everyone (…) greed
has poisoned mens’s souls”, mi piacerebbe aiutare
tutti…l’avidità ha avvelenato le anime umane.
Questi
rifiuti del potere possono essere commentati con un verso
delle Baccanti di Euripide: mh;
to; kravto" au[cei duvnamin ajnqrwvpoi" e[cein (310) non
presumere che il potere abbia potenza sugli uomini. Lo dice Tiresia a
Penteo.
Il
potere dunque non è potenza come “il sapere non è sapienza”
“to; sofo;n d j ouj sofiva”
(v. 395). Questo verso fa parte del I stasimo cantato
dalle Menadi
Otane
usa il termine ijsonomivh,
uguaglianza davanti alla legge, parità di diritti, per
designare plh'qo~
a[rcon (III, 80, 6), il
governo del popolo.
Critiche
della Dhmokrativa
“Democrazia era
il termine con cui gli avversari del governo “popolare”
definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il
carattere violento (kràtos indica
per l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli
avversari del sistema politico ruotanti intorno all’assemblea
popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida…la
democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso
della Repubblica di
Platone addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel
fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa,
a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello
“scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad
indicare lo “strapotere” (kràtos)
dei non possidenti (dèmos)
quando vige, appunto, la democrazia”[4].
Il
filosofo nell'VIII libro della Repubblica biasima
la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si
dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi
dice di essere amico del popolo (558c). E' una
costituzione piacevole, anarchica e variopinta, che
distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e
disuguali (hJdei'a politeiva kai;
a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav
tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa).
La
passione del potere se questo viene conquistato dà potere ad altre
passioni
Tra
la passione del potere e il potere della passione c'è una
interdipendenza, una circolarità. Il potere conquistato da chi ha la
passione del potere, dà al despota onnipotente la possibilità di
soddisfare altre passioni.
Platone
mette in rilievo il cambiamento di valore delle parole quando
passa in rassegna le forme costituzionali: nello stato
democratico gli appetiti (ejpiqumivai)
prendono possesso dell'acropoli dell'anima del giovane-è il potere
delle passioni che transvalutano tutto perfino le parole-, poi
l’anima viene occupata da parole e opinioni false e
arroganti (yeudei'"
dh; kai; ajlazovne" (…) lovgoi
te kai; dovxai 560c) le
quali chiamando il pudore stoltezza (th;n
me;n aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"),
lo bandiscono con disonore; chiamando la temperanza viltà
(swfrosuvnhn [5] de;
ajnandrivan),
la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte"
ejkbavllousi),
e mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta
de; kai; kosmivan dapavnhn) persuadendo
che sono rustichezza e illiberalità (ajgroikivan
kai; ajneleuqerivan 560d).
E
non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di molti inutili appetiti
transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli
nell'anima e chiamano la prepotenza buona educazione
(u{brin me;n eujpaideusivan
kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan
de; ejleuqerivan),
la dissolutezza magnificenza (ajswtivan
de; megaloprevpeian),
e l'impudenza coraggio (ajnaivdeian
de; ajndreivan 560e-561). L’uomo così corrotto vive a
casaccio, e la sua vita non è regolata da ordine (tavxi") né
da alcuna necessità (ajnavgkh).
Si capovolgono pure i rapporti umani: il padre teme il figlio, il
maestro lo scolaro, i vecchi imitano i giovani, per non sembrare
inameni e autoritari (563).
La
tirannide del dh'mo"
Anche
il popolo può essere tirannico: dopo la battaglia delle
Arginuse (406 a. C.) il dh'mo" ateniese,
nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio
dei capri espiatori, gridava che era tremendo se qualcuno non
permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to;
de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti"
ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai",
Senofonte, Elleniche I,
7, 12).
"E'
la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad
Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse",
è, come vedremo, "la formula che caratterizza, secondo Polibio,
la degenerazione della
democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare
quello che vuole").[6]
Un’
altra espressione di condanna di questa negazione dello Stato di
diritto si trova nell’Ifigenia
in Aulide[7] di
Euripide quando il coro delle donne calcidesi lamenta che sono caduti
i valori forti del Valore e della Virtù, mentre regna l’empietà, e
l’illegalità prevale sulle leggi “ajnomiva
de; novmwn kratei'” (v.
1095). E’ una denuncia del nichilismo: l’assenza dei valori
Il
tiranno non può permettersi la pietà. Il potere incontrollato
annienta valori forti e sentimenti buoni.
All’inizio
del II atto del Giulio
Cesare di
Shakespeare, Bruto dice: th’abuse
of greatness is when it disjoins- lat. disiungo- remors
from power,
l’abuso della grandezza avviene quando essa disgiunge la pietà dal
potere ( II, 1, 18-19).
Cfr.
l’ Aiace di Sofocle quando Odisseo dice
che non odia più il nemico morto; lo faceva quando odiarlo era cosa
nobile in quanto Aiace era nemico “ [egwg
j ejmivsoun d’ hJnivk j h\n misei'n kalovn (1347).
Agamennone
risponde: to;n toi tuvrannon
eujsebei'n ouj rJa/dion” 1350), non è facile che un uomo di
potere abbia pietà.
Magari
può simularla come leggiamo nel Riccardo III di
Shakespeare
Talora
Gloucester viene aizzato a vendicarsi dei suoi nemici: “ But
then I sigh, and, with a piece of Scripture,-Tell them that God bids
us do good for evil:- And thus I clothe my naked
villainy-With odd old ends stol’n forth of Holy Writ-And seem a
saint, when most I play the devil” (I, 3), ma allora
io sospiro, e, con un brano della Scrittura, dico loro che Dio ci
ordina di rendere bene per male: e così rivesto la mia nuda
scelleratezza con occasionali vecchi scampoli della Sacra Scrittura,
e sembro un santo quando più faccio il diavolo. Riccardo
III è il principe che ha letto Il principe .
Nel
XVIII capitolo di Il Principe, Machiavelli
ricorda "come Achille e molti altri di quelli
principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto
la sua disciplina li costudissi". E ne deduce:"Il che non
vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo
uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra
natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno
principe necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle
pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si
difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque
essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi.
Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne
intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe
osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono
spente le cagioni che la feciono promettere".
Si
tratta dunque dell’ipocrisia del potere
Nella Repubblica di
Platone il sofista Trasimaco contrapponendosi a
Socrate sostiene che il giusto non è altro che l’utile del
più forte: “fhmi; ga;r ejgw;
ei\nai to; divkaion oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron ”,
338c.
continua
[1] Diodoro
Siculo racconta una cosa del genere a proposito degli
Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci
sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~
ga;r maqovnta~ mhvq j uJperevcein mhvq j
uJpopivptein a[lloi~ kravtiston e{xein bivon pro;~
aJpavsa~ ta;~ peristavsei~”
(Biblioteca
storica,
2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non
sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le
circostanze.
[5] Nelle Nuvole di
Aristofane il Discorso Giusto dà inizio alla sua parte dei disso;i
lovgoi ricordando
che la swfrosuvnh una
volta era tenuta in conto come la quintessenza dell'educazione
antica (vv. 961 sgg.). Al tempo dell'ajrcaiva
paideiva (v.
961) infatti la castità (swfrosuvnh,
v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la
voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se
stesso (980).
[7] Rappresentata
postuma nel 405 o nel 403.
Nessun commento:
Posta un commento