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lunedì 14 gennaio 2019

Il potere della passione. Parte 5

Le leggi di Gortina (Creta), di epoca arcaica

Il potere della passione

Percorso presentato nel liceo Aldo Moro di Manfredonia durante la notte dei licei, 11 gennaio 2019

La passione del potere (pp. 15-21)


Difesa delle leggi scritte
Nelle Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi -  koinoiv, vv. 430 - 431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t j ajsqenh;~ - oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433 - 434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti.

Nella storia romana  "la maggiore singolarità" è data dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi altri "veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis del 451/450 agirono in favore della plebe:
" Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi:"Come dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"[1].

Le leggi valgono meno dei mores
Tacito nella Germania nota: "paucissima in tam numerosa gente adulteria", quindi aggiunge: "nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur " (19), e conclude polemicamente il capitolo:"plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges ". 
La sua conclusione negli Annales: “Corruptissima re publica plurimae leges" ( III, 27), quanto più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano se già le non son mosse da uno che con estrema forza le faccia osservare tanto che la materia diventi buona; il che non so se si è mai intervenuto o se fosse possibile ch’egli intervenisse”[2].

La propaganda da parte del potere la cui passione principale è la conservazione di se stesso.
Propaganda contro i nemici.
Fama bella constant (Alessandro Magno in Curzio Rufo)

Nelle Leggi di Platone, l’Ateniese ricorda allo Spartano che l’ideale guerriero della sua città non si cura abbastanza di esercitare la capacità di resistenza al piacere, e aggiunge che non sarebbe difficile per chi volesse difendere le leggi di Atene criticare le norme spartane indicando la licenza delle loro donne: “deiknu;~ th;n tw`n gunaikw`n parj uJmi`n a[nesin “(637c).
Nell’Andromaca di Euripide,  Peleo, il nonno di Neottolemo, esecra le Spartane e i loro costumi: neppure se lo volesse potrebbe restare onesta[3] ("swvfrwn", v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"",  v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non sopportabili " ( vv.595 - 600).
L’Andromaca, scritta nei primi anni della guerra del Peloponneso, mostra un disgusto per l’arroganza, la crudeltà e la tortuosità degli Spartani.
La stessa protagonista  lancia un anatema contro la genìa dei signori del Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~: "o i più odiosi  (e[cqistoi) tra i mortali per tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri fraudolenti, signori di menzogne, tessitori di mali,che pensate a raggiri e a nulla di retto, ma tutto tortuosamente, senza giustizia avete successo per la Grecia (vv.445 - 449).

Nel dialogo tucididèo tra Melii e Ateniesi questi biasimano i loro nemici con minore virulenza: “ I Lacedemoni fanno uso della virtù soprattutto verso se stessi e le istituzioni del loro paese. Ma verso gli altri, pur potendo uno dire molte cose su come si comportano, riassumendo al massimo, si potrebbe dimostrare che essi nel modo più evidente tra quelli che conosciamo, considerano il piacevole bello e il conveniente giusto -  ta; me;n hjdeva kala; nomivzousi, ta; de; xumfevronta divkaia -  (Storie, V, 105, 4). Più o meno come il Trasimaco della Repubblica platonica citato sopra[4].

Alessandro Magno ricorda ai suoi oppositori macedoni che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā[5] enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit[6] le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità. Cfr. 3, 8, 7 dove pure Dario III dice “fama bella stare”.

Le passioni del tiranno, i suoi vizi e i suoi crimini
Torniamo a Erodoto
Tiranno per lo storiografo è  anche il mouvnarco" raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79 - 84), come colui che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l' u{bri" , mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno" . Siccome ha questi due vizi, e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4).  Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[7]. 
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico della negatività del potere.
La mancanza di controllo ne fa l'antitesi del capo democratico. Tale  è Edipo finché non comprende, tale il Creonte dell'Antigone di Sofocle, tale Serse nei  Persiani  di Eschilo, il grande re il quale, pur se sconfitto, " oujc uJpeuvquno" povlei" (ujpov, eujquvnh, sotto controllo, v. 213), non è tenuto a rendere conto alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo. Anche se il grande re perderà la guerra, si consola la madre Atossa, dopo avere raccontato il sogno premonitore della sconfitta e il brutto segno dato dagli uccelli "swqei;~ d j oJmoivw~ th'sde koiranei' cqonov~" (v. 214), basta che si salvi e continuerà comunque a comandare su questa terra. 
Un  personaggio tragico che afferma l'insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:"What need we fear who knows it, when none can call our power to account it? - lat. ad and computare" (V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?

Un padrone assoluto è  Zeus nel Prometeo incatenato: "tracu;" movnarco" oujd j uJpeuvquno" kratei'" (v. 324), un sovrano rigido, né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio.  Per giunta è costretto alla durezza dal fatto che il suo regno è nuovo: "a{pa" de; tracu;" o{sti" a}n nevon krath'/", ogni potere che comanda da poco tempo è duro" dice Efesto (v. 35). E' uno dei tanti arcana imperii. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa con i Troiani:"Res dura et regni novitas me talia cogunt/ moliri" (Eneide, I, 563 - 564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali precauzioni. Una condizione svelata "alle genti"[8] pure da Machiavelli: "Et infra tutti e' principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli" (Il Principe, XVII). Cfr. Lenin e, viceversa, Allende.

Nelle Supplici[9] di Euripide, Teseo[10], il paradigma mitico di Pericle, elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte autocrate di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405).

Anche Plutarco attribuisce a Teseo la promessa, mantenuta, ai  potenti, di un governo democratico, nel  quale egli si sarebbe riservato solo il comando dell’esercito e la custodia delle leggi, mentre avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti (Vita di Teseo, 24, 2). Poco più avanti (25, 3). Plutarco aggiunge che di questa rinuncia alla monarchia dà una testimonianza  Omero quando nel catalogo delle navi chiama dh'mo" solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).

 L'araldo tebano delle Supplici di Euripide ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là secondo la loro convenienza.  Del resto come potrebbe pilotare uno Stato il popolo che non è in grado di padroneggiare un discorso? Chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" - kreivssw divdwsi (vv. 419 - 420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta.
Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis:" oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei" (Euripide, Supplici, v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:"kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n - kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444 - 445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447 - 449).
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.

l'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore faceva con le donne: "ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n - levgein, siwpw' " (Elettra, vv. 945 - 946) Il potere dunque può essere funzionale al soddisfacimento di varie brame, compresa quella sessuale inclusiva del libertinaggio.

Una delle passioni fondamentali del tiranno è l’invidia associata alla paura di chi può prevalere su di lui
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica:  Erodoto chiarisce  che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era  scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale: "oiJ uJpetivqeto (…) tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h).
Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: si mostrò a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità ("ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
 Abbiamo visto che già Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro aveva usato l'espressione pa'san kakovthta che, secondo il nobile persiano fautore dell' ijsonomivh, è conseguenza dell' u{bri", la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del monarca  ("uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", III, 80, 3).

Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole:" rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse" (Storie, I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
 Il tiranno è invidioso. Infatti l'invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
Dante individua la presenza del vizio dell'invidia  soprattutto nei luoghi del potere: "La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio"[11].


CONTINUA



[1]G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pp. 46 - 48.
[2]Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 17.
[3]Plutarco dà un'interpretazione non malevola dello stesso fatto: il legislatore volle che le fanciulle rassodassero il loro corpo con corse, lotte, lancio del disco e del giavellotto (…) per eliminare poi in loro qualsiasi morbidezza e scontrosità femminile, le abituò a intervenire nude nelle processioni, a danzare e a cantare nelle feste sotto gli occhi dei giovani (Vita di Licurgo , 14). E' interessante il fatto che   Erodoto  (I, 8)  viceversa fa dire a Gige il V antenato di Creso re di Lidia:"la donna quando si toglie le vesti, si spoglia anche del pudore". 
[4] Lo riporto qui per comodità del lettore. “fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron ”, Repubblica,  338c.
[5] Cfr. fhmiv.
[6]Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 8, 15,
[7]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca  , p. 170.
[8] Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[9] Data probabile: 422 a. C.
[10] Il re di Atene che del resto, nel carme 64 di Catullo e nella Fedra di Seneca è presentato come perfidus, sleale, dalle due sorelle figlie di Pasife e di Minosse, Arianna e Fedra appunto.
[11]Inferno , XIII, vv. 64 - 66.

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