Il potere della passione
Percorso presentato nel liceo Aldo Moro di Manfredonia durante la notte dei licei, 11 gennaio 2019
La passione del potere (pp. 15-21)
Difesa delle leggi scritte
Nelle Supplici di
Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da
Creonte che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi - koinoiv, vv. 430 - 431). E procede: “gegrammevnwn de;
tw'n novmwn o{ t j ajsqenh;~ - oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ”
(vv. 433 - 434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli
stessi diritti.
Nella storia romana "la maggiore singolarità" è data
dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio
Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi
altri "veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono
dalla tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e
venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis del 451/450 agirono in favore della
plebe:
" Di contro alla prepotenza
patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le
concessioni che prima cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte
per tutti i cittadini nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e
l'altra richiesta si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei
patrizi:"Come dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del
decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e
dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"[1].
Le leggi valgono meno dei mores
Tacito nella Germania nota: "paucissima
in tam numerosa gente adulteria", quindi aggiunge: "nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere
et corrumpi saeculum vocatur " (19), e conclude polemicamente il
capitolo:"plusque ibi boni mores
valent quam alibi bonae leges ".
La sua conclusione negli Annales: “Corruptissima re publica plurimae leges" ( III, 27), quanto
più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione:
che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono;
dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano se già le non son mosse
da uno che con estrema forza le faccia osservare tanto che la materia diventi
buona; il che non so se si è mai intervenuto o se fosse possibile ch’egli
intervenisse”[2].
La propaganda da parte del potere
la cui passione principale è la conservazione di se stesso.
Propaganda contro i nemici.
Fama bella constant (Alessandro Magno in Curzio Rufo)
Nelle Leggi di
Platone, l’Ateniese ricorda allo Spartano che l’ideale guerriero della sua
città non si cura abbastanza di esercitare la capacità di resistenza al piacere,
e aggiunge che non sarebbe difficile per chi volesse difendere le leggi di
Atene criticare le norme spartane indicando la licenza delle loro donne: “deiknu;~ th;n tw`n
gunaikw`n parj uJmi`n a[nesin “(637c).
Nell’Andromaca di
Euripide, Peleo, il nonno di Neottolemo,
esecra le Spartane e i loro costumi: neppure se lo volesse potrebbe restare
onesta[3]
("swvfrwn",
v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case
con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"",
v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non
sopportabili " ( vv.595 - 600).
L’Andromaca,
scritta nei primi anni della guerra del Peloponneso, mostra un disgusto per
l’arroganza, la crudeltà e la tortuosità degli Spartani.
La stessa protagonista
lancia un anatema contro la genìa dei signori del Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~: "o i più odiosi (e[cqistoi)
tra i mortali per tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri
fraudolenti, signori di menzogne, tessitori di mali,che pensate a raggiri e a
nulla di retto, ma tutto tortuosamente, senza giustizia avete successo per la
Grecia (vv.445 - 449).
Nel dialogo tucididèo tra Melii e Ateniesi questi biasimano
i loro nemici con minore virulenza: “ I Lacedemoni fanno uso della virtù
soprattutto verso se stessi e le istituzioni del loro paese. Ma verso gli
altri, pur potendo uno dire molte cose su come si comportano, riassumendo al
massimo, si potrebbe dimostrare che essi nel modo più evidente tra quelli che
conosciamo, considerano il piacevole bello e il conveniente giusto - ta; me;n hjdeva kala; nomivzousi, ta; de;
xumfevronta divkaia - (Storie, V, 105, 4). Più o meno come il
Trasimaco della Repubblica platonica
citato sopra[4].
Alessandro Magno ricorda ai suoi oppositori macedoni che
ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā[5] enim bella constant, et saepe etiam, quod
falso creditum est, veri vicem obtinuit”[6]
le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e
spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità.
Cfr. 3, 8, 7 dove pure Dario III dice “fama
bella stare”.
Le passioni del tiranno, i suoi vizi e i suoi crimini
Torniamo a Erodoto
Tiranno per lo storiografo è anche il mouvnarco"
raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79 - 84),
come colui che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad
accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l' u{bri" , mentre fin
dall'origine gli è innato lo fqovno" .
Siccome ha questi due vizi, e[cei pa'san
kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80,
4). Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai
gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III,
80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza
giudizio.
"Così il persiano Otane riassume
ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla
tirannide"[7].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico della
negatività del potere.
La mancanza di
controllo ne fa l'antitesi del capo democratico. Tale è Edipo finché non comprende, tale il Creonte
dell'Antigone di Sofocle, tale Serse
nei Persiani di Eschilo, il grande re il quale, pur se
sconfitto, " oujc
uJpeuvquno"
povlei" (ujpov, eujquvnh, sotto controllo, v. 213), non è tenuto a
rendere conto alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo.
Anche se il grande re perderà la guerra, si consola la madre Atossa, dopo avere
raccontato il sogno premonitore della sconfitta e il brutto segno dato dagli
uccelli "swqei;~
d j oJmoivw~ th'sde koiranei' cqonov~" (v. 214), basta che si salvi
e continuerà comunque a comandare su questa terra.
Un personaggio
tragico che afferma l'insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del
sonnambulismo:"What need we fear who
knows it, when none can call our power to account it? - lat. ad and computare" (V, 1), perché
dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a
renderne conto?
Un padrone assoluto è
Zeus nel Prometeo incatenato: "tracu;"
movnarco" oujd j uJpeuvquno" kratei'" (v. 324), un sovrano
rigido, né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio. Per giunta è costretto alla durezza dal fatto
che il suo regno è nuovo: "a{pa" de; tracu;" o{sti" a}n
nevon krath'/", ogni potere che comanda da poco tempo è duro"
dice Efesto (v. 35). E' uno dei tanti arcana
imperii. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa con i
Troiani:"Res dura et regni novitas
me talia cogunt/ moliri" (Eneide,
I, 563 - 564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali
precauzioni. Una condizione svelata "alle genti"[8]
pure da Machiavelli: "Et infra tutti e' principi, al principe nuovo è
impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di
pericoli" (Il Principe, XVII).
Cfr. Lenin e, viceversa, Allende.
Nelle Supplici[9] di Euripide, Teseo[10],
il paradigma mitico di Pericle, elogia la costituzione democratica dialogando
con l'araldo mandato da Creonte autocrate di Tebe. Atene dunque non è comandata
da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Anche Plutarco attribuisce a Teseo la promessa, mantenuta,
ai potenti, di un governo democratico,
nel quale egli si sarebbe riservato solo
il comando dell’esercito e la custodia delle leggi, mentre avrebbe offerto a
tutti uguaglianza di diritti (Vita di
Teseo, 24, 2). Poco più avanti (25, 3). Plutarco aggiunge che di questa
rinuncia alla monarchia dà una testimonianza
Omero quando nel catalogo delle navi chiama dh'mo" solo gli Ateniesi
(Iliade, 2, 547).
L'araldo tebano delle
Supplici di Euripide ribatte che il
governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i
quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là secondo la
loro convenienza. Del resto come
potrebbe pilotare uno Stato il popolo che non è in grado di padroneggiare un
discorso? Chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi
alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" - kreivssw divdwsi (vv. 419 - 420), è
infatti il tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta.
Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che
condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis:" oujde;n turavnnou
dusmenevsteron povlei" (Euripide, Supplici, v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali
considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:"kai; tou;"
ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n - kteivnei, dedoikw;"
th'" turannivdo" pevri" (vv. 444 - 445). Sicché la città
si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da
un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447 - 449).
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo
vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non
parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto
allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore
faceva con le donne: "ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n - levgein,
siwpw' " (Elettra, vv.
945 - 946) Il potere dunque può essere funzionale al soddisfacimento di varie
brame, compresa quella sessuale inclusiva del libertinaggio.
Una delle passioni fondamentali del tiranno è l’invidia
associata alla paura di chi può prevalere su di lui
La mania della distruzione delle
intelligenze fa parte dalla mente autocratica:
Erodoto chiarisce che la scuola
dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti
chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando
era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di
Trasibulo di Mileto il quale: "oiJ
uJpetivqeto (…) tou;"
uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli
consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h).
Il despota esperto aveva dato il
consiglio criminale in maniera simbolica: si mostrò a un araldo, mandato da
Corinto a
domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e
bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro
comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità ("ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
Abbiamo visto che già Otane nel dibattito
costituzionale del terzo libro aveva usato l'espressione pa'san kakovthta che,
secondo il nobile persiano fautore dell' ijsonomivh,
è conseguenza dell' u{bri",
la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del
monarca ("uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n",
III, 80, 3).
Tito Livio attribuisce lo stesso gesto
di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo il quale indicò al
figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza
parole:" rex velut deliberabundus in
hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa
papaverum capita dicitur baculo decussisse" (Storie, I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della
reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice
che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
Il tiranno è
invidioso. Infatti l'invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera
carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei
papaveri.
Dante individua la presenza del vizio
dell'invidia soprattutto nei luoghi del
potere: "La
meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte
comune, delle corti vizio"[11].
CONTINUA
[1]G.
De Sanctis, Storia dei Romani, vol.
II, pp. 46 - 48.
[2]Machiavelli,
Discorsi sopra la prima Deca di Tito
Livio, 17.
[3]Plutarco dà un'interpretazione non malevola dello
stesso fatto: il legislatore volle che le fanciulle rassodassero il loro corpo
con corse, lotte, lancio del disco e del giavellotto (…) per eliminare poi in
loro qualsiasi morbidezza e scontrosità femminile, le abituò a intervenire nude
nelle processioni, a danzare e a cantare nelle feste sotto gli occhi dei
giovani (Vita di Licurgo , 14). E' interessante il fatto che Erodoto (I, 8)
viceversa fa dire a Gige il V antenato di Creso re di Lidia:"la
donna quando si toglie le vesti, si spoglia anche del pudore".
[4] Lo riporto qui per comodità del lettore. “fhmi;
ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron ”, Repubblica,
338c.
[5] Cfr. fhmiv.
[6]Curzio
Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8,
8, 15,
[7]C.
M. Bowra, Mito E Modernità Della
Letteratura Greca , p. 170.
[8] Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[9] Data probabile: 422 a. C.
[10] Il re di Atene che del
resto, nel carme 64 di Catullo e nella
Fedra di Seneca è presentato come perfidus,
sleale, dalle due sorelle figlie di Pasife e di Minosse, Arianna e Fedra
appunto.
[11]Inferno , XIII, vv. 64 - 66.
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