Le
sofferenze del parto
“Nella Medea di
Euripide si
sottolinea l’infelicità della condizione femminile: nel matrimonio
tutti i vantaggi sono per l’uomo, e Medea proclama che “è cento
volte meglio imbracciare lo scudo che partorire una volta sola”. E’
tutta una rivendicazione, è anche un problema di emancipazione della
donna. In questo mi pare che Euripide ribalti Eschilo, che vedeva
come generatore solo il padre mentre Euripide sottolinea ed esalta il
ruolo- e la difficoltà, la sofferenza, il valore- della madre”[1].
La
sofferenza del parto ancora più doloroso della guerra.
La
Medea di Euripide afferma di preferire la guerra al
parto inaugurando un tovpo" che
arriva alle soldatesse di oggi. “Dicono
di noi che viviamo una vita senza pericoli/ in casa, mentre loro
combattono con la lancia,/ pensando male: poiché io tre volte
accanto a uno scudo/ preferirei stare che partorire una volta sola.
( Medea, vv. 248- 251).
Ennio (239-169
a. C.) traduce i versi di Euripide quando fa dire alla sua Medea
exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam
semel parĕre”, infatti preferirei decidere la vita sotto
le armi tre volte che partorire una volta sola.
Le
sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di
Sofocle da Clitennestra quando l’adultera assassina tenta
di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non
era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza
avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk
i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' ,
w{sper hJ tivktous' ejgwv"
( vv. 531-532). Qui il seminare conta meno del partorire,
diversamente dalle Eumenidi di Eschilo.
Più
avanti Clitennestra viene a sapere che Oreste è morto in una gara di
carri. La notizia è falsa ma la madre la crede vera. Quindi chiede a
Zeus che cosa significhi-tiv
tau'ta; 766 ,
Se
è una fortuna o una cosa tremenda, ma utile (povteron eujtuch'
legw- h] deina;
me;n, kevrdh dev;
766-7677). Comunque è penoso se mi salvo la vita a prezzo dei miei
lutti commenta (768).
Il
pedagogo le domanda perché sia così turbata e Clitennestra risponde
“deino;n
to; tivktein ejstivn (770),
partorire è tremendo, e di fatto neppure a quella che subisce del
male sopravviene odio per i figli che ha partorito oujde; ga;r
kakw'"-pavsconti mi'so" wn tevkh/ prosgivgnetai (771)
Nelle Fenicie di
Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per
Polinice dicendo:"deino;n
gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn
gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno""
(vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le
doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei
figli.
Giocasta
lo è stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia
in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra
per la figliola, ricordando quale prova terribile sia il
parto:"deino;n to; tivktein
kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein
tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta
una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i
figli.
Partorire
dunque è una delle cose tremende (ta;
deinav).
Tanto
più perché il parto può causare una perdita di
bellezza: nell’Hercules Oetaeus di
Seneca, Deianira, vedendo la fulgida bellezza della
giovanissima Iole, lamenta l’oscurarsi della propria con queste
parole: “Quidquid in nobis fuit olim petitum, cecidit et partu
labat” (vv. 388-389), tutto quello che una volta in noi era
desiderato, è caduto e con il parto vacilla.
Le
matrone romane potevano arrivare a vergognarsi di avere partorito e
allattato i figli poiché dopo non potevano più essere eccitanti con
un bel seno. Lo ricavo da Properzio che esorta
l'amante alla rixa amorosa nella luce:"necdum
inclinatae prohibent te ludere mammae:/viderit haec, si quam iam
peperisse pudet " (II, 15, 20-21), non ancora le
mammelle cadenti ti impediscono tali giochi: badi a questo una se si
vergogna di aver partorito.
Sentiamo
anche Schopenhauer
“Come
ad esempio, la formica femmina, dopo l'accoppiamento, perde per
sempre le ali, superflue, anzi pericolose per la prole, così, di
solito, dopo una o due gravidanze, la donna perde la sua bellezza e
probabilmente, perfino, per la stessa ragione. In conformità con
ciò, le giovinette considerano nel segreto del loro cuore, i loro
lavori domestici o professionali una cosa secondaria, forse, perfino,
un semplice trastullo: come loro unica seria professione esse
considerano l'amore, le conquiste e ciò che vi si collega, come
acconciature, balli, eccetera"[2].
E, poco più avanti:" per la donna una sola cosa è decisiva,
vale a dire a quale uomo essa sia piaciuta" (p. 838).
Sentiamo H.
Hesse:"Domandai
al servitore Leo perché mai gli artisti sembrassero talvolta uomini
soltanto per metà, mentre le loro immagini apparivano così
inconfutabilmente vive. Leo mi guardò stupefatto della mia domanda.
Poi…rispose:" Lo stesso avviene per le madri. Dopo che hanno
partorito i figli e dato loro il proprio latte, la propria bellezza
ed energia, diventano a loro volta poco appariscenti e nessuno più
le cerca"[3].
Nei Memorabili di
Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i
benefici dei genitori alle proprie creature e il dovere della
gratitudine, fa presente che “il nascimento” mette a repentaglio
la vita della madre:" hJ
de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te
kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la
donna, dopo avere concepito, porta questo peso, aggravata e con
rischio della vita.
In Anna
Karenina c'è il
parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa,
mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La
faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era
qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che
di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto,
sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si
era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo
limite dell'orrore, a un tratto si spense" [4].
Medea
dunque avverte gli uomini che il parto può essere più tremendo
della guerra.
Del
resto il letto è il campo di battaglia della donna.
T.
Mann.
Rachele,
moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, soffrì e morì di parto nel
dare alla luce la seconda creatura: “Quando il dolore travalicò
ogni limite umano, ella gridò e fu un gridare terribilmente
selvaggio, che non si accordava con il suo volto e non si addiceva
alla piccola Rachele. In quell’ora, infatti, in cui ancora una
volta fu giorno, ella non era più in sé, non era più lei, lo si
udiva da quel suo orrendo muggito: non era pià lei, la sua era una
voce completamente estranea…Erano doglie spasmodiche che non
affrettavano l’opera, ma serravano soltanto in una morsa di
tormenti infernali quella povera santa, così che la maschera del suo
volto contratta nell’urlo era divenuta cianotica e le sue dita
artigliavano l’aria…E poi da Rachele si levò un ultimo grido,
come l’esplosione estrema di una furia demoniaca, quale non si può
lanciare una seconda volta senza morire, quale non si può udire una
seconda volta senza perdere la ragione…il figlio di Giacobbe era
uscito, il suo undicesimo e il suo primo, venuto fuori dall’oscuro
grembo insanguinato della vita, Dumuzi-Absu, il vero figlio
dell’abisso”[5].
La Medea di
Seneca pensa di incenerire l'istmo di Corinto e di assumere
la ferocia massima negando la propria femminilità:"Per
viscera ipsa quaere supplicio viam,/si vivis, anime, si quid antiqui
tibi/remanet vigoris; pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum
mente indue./Quodcumque vidit Pontus aut Phasis nefas,/videbit
Isthmos. Effera ignota horrida,/tremenda caelo pariter ac terris
mala/mens intus agitat: vulnera et caedem et vagum/funus per artus "
(vv. 40-48), attraverso le viscere stesse cerca la via per il
castigo, se sei vivo, animo, se ti rimane qualche cosa dell'antico
vigore; scaccia le paure femminili e indossa mentalmente il Caucaso
inospitale. Tutta l'empietà che il Ponto o il Fasi hanno visto, le
vedrà anche l'Istmo. La mia mente medita dentro di sé malvagità
feroci, inaudite, terrificanti, terribili per il cielo parimenti e
per le terre: ferite e strage e un cadavere smarrito tra le membra.
Dopo
l’assassinio del primo figlio, Giasone chiede a Medea di
accontentarsi di una sola vittima.
Medea
risponde:"Si posset una caede satiari manus,/nullam petisset.
Ut duos perimam, tamen/nimium est dolori numerus angustus meo./In
matre si quod pignus etiamnum latet,/scrutabor ense viscera, et ferro
extraham" (vv. 998-1002), se le mie mani si potessero
saziare di una sola uccisione, non ne avrei commessa alcuna. Che ne
ammazzi due è comunque un numero troppo piccolo per il mio tormento.
Se c'è ancora qualche residuo di figlio nel mio grembo, frugherò
con la spada le viscere e lo estrarrò con il ferro.
Con
questa immagine cruenta Medea nega definitivamente il suo ruolo di
madre.
Pure Lady
Macbeth vuole defemminilizzarsi quando invoca gli spiriti
che apportano pensieri di morte:"unsex me here",
snaturatemi il sesso ora, e riempitemi dalla testa ai piedi della
crudeltà più orrenda (of direst cruelty). Il sangue di cui
gronda la tragedia, nel suo corpo deve addensarsi e
chiudere ogni via di accesso al rimorso ( Macbeth, I, 5).
Quindi la donna chiama una densa notte che giunga avvolta nel più
tetro fumo d'inferno perché il suo pugnale non veda la ferita che
produce .
Poco
più avanti questa creatura atroce immagina l'uccisione di
un suo bambino piccolo:"Io ho dato latte: e so quanta tenerezza
si prova nell'amare il bambino che lo succhia; ebbene io avrei
strappato il capezzolo dalle sue gengive senza denti mentre egli mi
avesse guardata in faccia sorridendo e gli avrei fatto schizzare via
il cervello, se lo avessi giurato come tu hai giurato questo"(I,
7).
"La
sua voce dovrebbe indubbiamente sollevarsi fino a raggiungere in
"schizzar via il cervello", un urlo quasi isterico"[6].
Un
altro caso ancora è la Medea del romanzo
di Christa Wolf: ella accetta l'identità scomoda che
vogliono attribuirle senza diventare un'assassina.
:"
Non sono giovane, ma pur sempre selvaggia, lo dicono i corinzi, per
loro una donna è selvaggia se fa di testa sua. Le donne dei corinzi
mi sembrano animali addomesticati, resi con cura mansueti, e mi
fissano come un'apparizione estranea…"[7].
Questa Medea non ha ucciso il fratello, né i figli, ma contro di lei
è stata messa su una montatura perché ha ficcato il viso a fondo
negli arcana del
Palazzo:"Medea sarebbe stata accusata di aver ucciso suo
fratello Apsirto in Colchide. Ciò avrebbe dato ad Acamante il
pretesto per procedere contro di lei, se voleva, dato che non poteva
utilizzare il suo vero crimine, l'essersi intromessa in un intimo
segreto di Corinto. Noi due del resto, Presbo e io, non ci
nascondemmo la nostra gioia maligna per il fatto che anche questa
Corinto meravigliosa, ricca, così sicura di sé ed arrogante ha i
suoi passaggi sotterranei con segreti profondamente celati"[8].
La
Medea della Wolf ha subito calunnie ordite da chi aveva il potere e
voleva conservarlo. Apsirto venne fatto uccidere dal loro padre Eeta
perché lo richiedeva una tradizione barbarica ineludibile. Medea, in
uno degli undici monologhi di cui è composto il romanzo, racconta:"
Quando corsi per il campo su cui le donne folli avevano sparpagliato
le membra fatte a pezzi, quando corsi singhiozzando per quel campo
nell'oscurità che calava e ti raccolsi, povero fratello scorticato,
pezzo dopo pezzo, osso dopo osso, allora smisi di credere. Come
potremmo mai ritornare su questa terra in nuova forma. Perché le
membra di un uomo morto sparse sul campo dovrebbero rendere fertile
questo campo" (p. 99).
Anche
a Corinto c'è stato un crimine dell'ambizione politica: il re
Creonte , come l'Agamennone dell' Ifigenia
in Aulide di
Euripide, ha
voluto, o permesso, l'assassinio della figlia adolescente per lo
stesso motivo abbietto: non perdere il potere:"Allora gli dico
quello che so: che là, nella caverna, ci sono le ossa di una
ragazza, una bambina, quasi, della tua età, fratello. E che sono le
ossa della figlia del re, la prima figlia del re Creonte e della
regina Merope"[9].
Questa
Medea anomala cerca di aiutare la nuova donna di
Giasone a scendere "in quell' abisso dove giacciono le immagini
del passato" ossia a guardare il rimosso con ricordo
dell'uccisione della sorella Ifinoe "la fanciulla sacrificata
sull'altare del potere"[10].
Infatti quell'assassinio fu ordinato da suo padre Creonte, il re di
Corinto. "In quella voragine dove io mi vidi seduta, molto
piccola ancora, in lacrime, inconsolabile, sulla soglia di pietra tra
una delle stanze del palazzo e il lungo corridoio gelido. Che camera
era, quella sulla cui soglia sedevo, volle sapere, ma io non volevo
guardarmi intorno, avevo paura, lei mormorò le sue formule
tranquillizzanti, allora fui costretta a voltarmi. Era una camera in
cui viveva una ragazza. C'era una cassapanca dipinta con colori
meravigliosi, sul letto erano sparsi dei vestiti, su una mensola
stava un piccolo specchio incorniciato d'oro, ma nessun segno di chi
potesse viverci. Tu lo sai Glauce, disse la donna[11],
tu lo sai bene. No gridai, no, urlai, non lo so, come potrei saperlo,
è sparita, mai più ricomparsa, nessuno l'ha mai più nominata,
anche la camera è sparita, probabilmente mi sono solo immaginata
tutto questo, probabilmente non è mai esistita. Chi, Glauce, chiese
la donna. La sorella, urlai. Ifinoe"[12].
giovanni
ghiselli
il
blog è arrivato a
Visualizzazioni di pagine: tutta la cronologia | 716.248 |
Appendice
Diverse
volte in questi ultimi anni abbiamo letto che una madre ha ucciso i
propri figlioli.
Un
articolo di Umberto
Galimberti sul
quotidiano "la Repubblica" sostiene che bisogna ascoltare
le madri:"quando un figlio nasce e cresce, bisogna accudire le
madri. Troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro
tempo, l'occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e
profondo. E quando l'anima è vuota e nessuna carezza rassicura il
sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte,
non come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che
fanno argine all'amore separandolo dall'odio, allo sguardo sereno che
tiene lontano il gesto truce. Non basta che i padri assistano al
parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e
figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l'una e l'altro
per cercare quell'atmosfera di protezione che scalda il cuore e, col
calore che genera, tiene separato l'amore dall'odio… La natura
contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce
nell'isolamento e nella solitudine conosce quanto è fragile il
limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si
compiono senza di lei… Un invito ai padri: tutelate la maternità
nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà.
Questa tutela ha un solo nome:"Accudimento", per sottrarre
le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua
comparsa nell'abisso della solitudine"[13].
------------------------------------
1] Da
un’intervista a Claudio Magris compresa in Madri,
a cura del Centro Studi La
permanenza del Classico,
pp. 225-226.
[6]A.
C. Bradley, La
tragedia di Shakespeare,
p. 403. Qualche pagina prima (370) Bradley scrive: "I
versi più terribili della tragedia sono quelli del suo grido
raccapricciante "Ma chi avrebbe mai pensato che quel vecchio
avesse dentro tanto sangue?" (V, 1).
[8] Op.
cit.,
p. 88. Parla Agameda della Colchide, un'ex allieva di
Medea arrivata a odiarla. Acamante è l'astronomo del re di Corinto
Creonte. Presbo è un altro Colco divenuto organizzatore dei giochi
di Corinto. Sono entrambi amanti di Agameda.
[11] E'
Medea che, vittima di un complotto di Stato, e diventata
innominabile.
[12] Medea ,
p. 148. Queste parole fanno parte del monologo di Glauce, figlia del
re Creonte e della regina Merope di Corinto.
[13] Umberto
Galimberti, "la Repubblica" 2 dicembre 2004, p. 15.
Nessun commento:
Posta un commento