La
fobia dell'amore e del sesso
Tentativi
di riabilitazione
Le Argonautiche, che
descrivono la fase iniziale dell'amore di Medea per Giasone, sono
piene di anatemi di Eros: il dio quando arriva, mandato dalla madre,
per costringere Medea ad amare e aiutare Giasone, è invisibile,
sconvolgente (tetrhcwv~, Argonautiche,
3, 276), come l’assillo (oi\stro~) che
si scaglia sulle giovani vacche[1].
Rapidamente questo dio del dolore prese una freccia dolorosa:
“poluvstonon
ejxevlet j ijovn”
(v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della ragazza, come
una fiamma (flogi;
ei[kelon,
v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione:
“glukerh'/
de; kateivbeto qumo;n ajnivh/”
(v. 290). Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto
lavqrh/ ou\lo~ [Erw~ ”
(vv. 296-297).
Come
Giasone appare splendidissimo al desiderio di Medea, il giovane
prestante viene paragonato a Sirio che si leva alto sopra
l'Oceano, bello e splendente però reca sciagure infinite alle
greggi: così il figlio di Esone portava il travaglio di un amore
angoscioso (Argonautiche, 3, vv. 957-961). L'infelicità è
connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi: quando
la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e
le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra
la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore
("daivmwn ajlginovei"",
IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va'
allora e preparati in ogni modo a sopportare, per quanto
sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo
presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi
produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato
l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del
poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “
Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini
("Scevtli j [Erw",
mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da
te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori
infiniti si agitano per giunta. Ármati contro i figli dei miei
nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di
Medea (oi|o" Mhdeivh/
stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn)", Argonautiche,
IV, vv. 445- 449). L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di
necessità. Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come
un dio malvagio : “Improbe Amor, quid non mortalia
pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).
Questo
è l’amore di Didone, frustra moritura,
destinata a morire invano, per Enea.
Nell’Ippolito di
Euripide, quando Fedra domanda alla nutrice che cosa è
ciò che gli uomini chiamano amore, ella risponde: una cosa
dolcissima (h[diston) e
nello stesso tempo dolorosa (taujto;n
ajlgeinovn q j a{ma, v. 348). Poi Fedra le confessa
di essere innamorata di Ippolito: allora la nutrice vede il
sovvertimento della bellezza e dei valori: “ejcqro;n
eijsorw' favo~ ” (v. 355), odiosa vedo la luce.
Più
avanti però consiglia alla pupilla l’ardimento di amare ( tovlma
d’ ejrw'sa,
v. 476) e poco dopo le dice: non di parole decorose hai
bisogno tu, ma di quell’uomo (ouj
lovgwn eujschmovnwn-dei' s j, ajlla; tajndrov~,
vv. 490-491). La premessa è che Cipride non si può sostenere,
quando si abbatte possente: “Kuvpri~
ga;r ouj forhtov~, h]n pollh; rJuh'/”(v.
443) e gli dèi stessi ne sono stati soggetti, come Zeus che amò
Semele. Tu non puoi essere più forte degli dèi: cessa di essere
arrogante: “ lh'xon
d j uJbrivzous j ouj
ga;r a[llo plh;n u{bri~ -tavd j ejstiv, kreivssw daimovnwn
ei\nai qevlein”
(vv. 474-475), non è altro che arroganza questo, voler essere più
forte degli dèi. Dunque: “ tovlma
d’ ejrw'sa: qeo;~ ejboulhvqh tavde (v. 476), osa
amare, un dio l’ha voluto!
Nel
primo Stasimo, il Coro di donne trezenie invoca Eros come colui che
infonde piacere a chi muove guerra (v. 527), ma è nello stesso tempo
tiranno degli uomini (538), e, se non lo veneriamo, distrugge e
procede fra sventure di ogni genere contro i mortali, quando
arriva (vv. 540-543).
Ecco
come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio
dell’Ippolito: “ Pollh;
me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo"-qea; kevklhmai Kuvpri~,
oujranou' t j e[sw ( vv. 1-2), grande e non
oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo. Nel
primo episodio la nutrice di Fedra le attribuisce una
forza d'urto ineluttabile:" Kuvpri"
ga;r ouj forhto;n hj;n pollh; rJuh'/"
(v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con
tutta la forza.
“The
Kypris of the Hippolytus is none other than the Venus Genetrix of
Lucretius, the Life Force of Schopenhauer, the élan vital of Begson
: a force unthinking, unpityng, but divine. Opposed to her, as the
negative to the positive pole of the magnet, stands Artemis, the
principle of aloofness, of refusal, ultimately of death. Between
these two poles swings the dark and changeful life of Man, the
plaything which they exalt for a moment by their companinship, and
drop so easily when it is broken:
says
Hippolytus bitterly”[3],
La Cipride dell’Ippolito non è altro che la Venere Genitrice di
Lucrezio, la Forza della Vita di Scopenhauer, lo slancio vitale di
Bergson: una forza che non pensa, non sente pietà, ma divina.
Opposta ad essa, come il polo negativo a quello positivo del magnete,
sta Artemide, il principio della freddezza, del rifiuto, e in
definitiva della morte. Tra questi due poli oscilla la scura e
cangiante vita dell’Uomo, il giocattolo che essi innalzano per un
momento con la loro amicizia, e poi cade così facilmente quando è
rotto: Tu lasci facilmente la nostra lunga compagnia, dice Ippolito
amaramente.
Ora
infatti è giunto il momento dell’ ajgw;n
mevga~- sw'sai bivon sovn (vv.
496-497) e in questa gara suprema dove si tratta di salvare la
vita, non si possono lesinare o riprovare i mezzi per
vincerla. Il primo stasimo cantato da donne trezenie annuncia con
sgomento la necessità di venerare Eros, il tiranno degli uomini
(tuvrannon
ajndrw'n,
v. 538) che distrugge (pevrqonta,
v. 541) e incede in mezzo a sventure di ogni tipo (dia;
pavsa~-ijovnta sumfora'~,
541-542). La madre Cipride non è da meno: ella uccise la madre di
Bacco con folgore fiammeggiante e dovunque spiri,
terribile (deinav),
continua a volare come un’ape (mevlissa
oi{a,
vv. 563-564). Cioè punge.
Distruttivo
è anche l’e[rw~ che
spinse gli Ateniesi alla disastrosa spedizione in Sicilia
nell’analisi di Tucidide: “Kai;
e[rw~ ejnevpese toi`~ pa`sin oJmoivw~ ejkpleu`sai”
(VI, 24, 3); e su tutti si abbatté la passione di salpare. I più
vecchi erano convinti di assoggettare le città siciliane; i
giovani povqw/
o[yew~ kai; qewriva~,
per desiderio di vedere e osservare nuove realtà; la gran
massa dei soldati pensava di acquisire denaro e potenza. I contrari
non osavano esprimersi data la brama eccessiva dei più (dia;
th;n a[gan tw`n pleiovnwn ejpiqumivan,
VI, 24, 4).
Nella Fedra di
Seneca la figlia di Pasife, innamorata del proprio figliastro, cerca
di giustificarsi con la nutrice denunciando l’onnipotenza del dio
alato, Amore, cui soggiacciono gli stessi dèi maggiori poiché egli
ha un potere incontrollato in ogni parte del mondo: “Hic volucer
omni pollet in terra impotens (v. 186) e vola parimenti
penoso nel cielo e sulla terra : “volitat caelo pariter et terra
gravis” (v. 194).
Secondo Christa Wolf invece
la negazione della gioia non è implicita nell'amore in sé, ma al
contrario deriva dall'odio per la vita. Ecco quanto Giasone nel suo
monologo ricorda di avere sentito dalla madre dei suoi figli, la
quale gli parlava senza essere stata corrotta dal rancore:"Ma
tu, ascolta bene quello che ti dico, non fare del male a Glauce.
Perché ti ama, ed è fragile, molto fragile…Non ne proverai gioia.
Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo in un
modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma
anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita.
Del resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri
non dipenda dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima
gioia dalla propria"[4].
Nella
letteratura latina il sermo amatorius pullula
di metafore che identificano l'amore con il fuoco, le
ferite, la peste, il veleno, la follia, addirittura il cancro:"sed
antiquus amor amor cancer est " (Satyricon 42,
7), ma un amore vecchio è un cancro.
Catullo usa
la parola pestis in
nesso allitterante con pernicies[5] per
definire il proprio amore doloroso dal quale vorrebbe liberarsi, con
l'aiuto degli dèi, come da una malattia non meritata (76, 20-22).
Nella parola pestis è
già implicita l'idea, oggi terroristicamente conclamata, dell'Aids,
chiamata la peste del secolo, quando negli incidenti stradali
muoiono, in Italia, ottomila persone all'anno[6],
ne restano ferite molte di più, e chissà quante altre vengono
consumate dal cancro, quello vero, dovuto ai gas di scarico. Se i
rapporti umani, in primis quelli amorosi, non venissero sporcati,
calunniati, annichiliti, gli uomini non comprerebbero tante macchine
e altre schifezze nocive, o quanto meno inutili.
Sono
le distruzioni e le guerre che spingono a comprare. Il consumare è
collegato al distruggere, è una sua metafora. Sono le attività
empie, le malattie dello spirito che distolgono dall’amore.
Nell'Atene dominata dal demagogo guerrafondaio Cleone, Diceopoli, il
cittadino giusto compiange la sua città perché gli abitanti non si
curano della pace (Acarnesi,
v. 27) e pure odia la vita cittadina, mentre ama la pace e
rimpiange il suo villaggio dove ciascuno produceva il necessario per
sé, mentre nella povli" è
onnipresente l'invito a comprare:"privw"[7],
che si tratti di carbone, di aceto o di olio ( vv. 34-36). Ecco
dunque un altro male deleterio dell’amore oltre la guerra: il
consumismo e il mercato che uccide gli affetti. Un disagio analogo
viene manifestato da Ulrich in L'uomo
senza qualità :"
Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli
sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci
d'Europa"(p. 800).
Qualche
anno fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare
valori in Oriente, dove infatti sono ambientati alcuni suoi film,
siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il
comprare.
"In
Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente
Euripide. Anche Virgilio si riattacca ad Euripide direttamente (e non
solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri
dell'Eneide ci
mostra come egli utilizzi e fondi suggestioni non solo di autori
vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di
dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una
catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il
personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il
personaggio di Enea"[8].
Veramente il nesso Giasone-Enea, individuato come seduttore, lo
denuncia Ovidio: nell’Ars
amatoria il
poeta peligno mette il fallax
Iason (Ars,
III, 33), l’ingannevole Giasone, al primo posto nel terzetto
dei seduttori perfidi: gli altri due sono Teseo[9] e
quel “sant’ uomo” di Enea: "et
famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[10]/praebuit
et causam mortis, Elissa, tuae"
(Ars,
III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì
la spada e il motivo della morte tua, Elissa.
La
personificazione del tormento amoroso dei mortali nel De
rerum natura è
costituita da Tizio:"Sed
Tityos nobis hic est, in amore iacentem/quem volucres lacerant atque
exest anxius angor "
(III, 992-993), ma Tizio è qui in noi, quello che,
prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano e un angoscioso affanno
divora. "La pena di Tizio-il gigante ucciso da Apollo per aver
insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso
dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm.
3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad
Aen. 6,
596), allegoria dell'angosciosa passione amorosa, la cupido"[11].
Ma
i versi più dolorosi sull'amore sono quelli dove il termine vulnus ,
ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene
una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata :"Ulcus
enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque
aerumna gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera
plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut alio possis
animi traducere motus "
( De rerum natura,
IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e diventa cronica a
nutrirla, la smania cresce di giorno in giorno, e
l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi
colpi, e le recenti non curi prima, vagando con una Venere
vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.
CONTINUA
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[1] Si
pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca del Prometeo
incatenato,
tormentata da un assillo appunto (oi\stro~ ,
v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila
occhi: “ E subito l'aspetto e la mente furono/stravolti: divenni
cornigera, come vedete, e punta/da un assillo dall'acuto morso, con
salti furibondi/balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere/e
alla fonte di Lerna: e il bovaro nato dalla terra/Argo violento
nell'ira mi scortava/ spiando i miei passi con occhi fitti” (vv.
673-679).
[2] 1441.
[3] Dodds,
The ancient concept of progress, p. 87.
[5]"me miserum aspicite
et, si vitam puriter egi,/eripite hanc pestem
perniciemque mihi" (76, 19-20), guardate
me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire,/strappatemi
questa peste e rovina.
[6] L’automobile
è una vera e propria arma terroristica usata contro pedoni e
ciclisti in primis, poi contro gli stessi automobilisti che si
ammazzano a vicenda come i nati dalla terra e dai denti del drago
seminati da Giasone nelle Argonautiche (3,
1372 sgg.).
[9] Tanto
perfido questo che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito
gli uccelli marini
[10] Spada
lasciata da Enea (ensem
relictum, Eneide,
IV, 507) e impiegata da Didone per
il suicidio: “non
hos quaesitum munus in usus”, Eneide, IV,
647, dono richiesto non per questo uso. Didone
conclude la VII Epistula scrivendo
il proprio epitaffio: “ Praebuit
Aeneas et causam mortis et ensem;/ipsa sua Dido concidit usa manu”
(Heroides, VII,
199-200), Enea offrì il motivo della morte e la spada; Didone morì
da sola, uccisa dalla sua mano.
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