Il calo demografico nell’Italia di oggi e nell’impero romano
Leggo nel
quotidiano di ieri: “L’Italia che era nella top 10 dei paesi più
popolati al mondo a metà del secolo scorso, ora non è più nemmeno nella top 20
ed è destinata a scendere sempre più in basso nei prossimi decenni. Il nostro
peso relativo sul pianeta è sceso sotto lo 0, 8 per cento. Cina e India assieme
superano il 35 per cento” (Alessandro Rosina, Recessione demografica, “la
Repubblica”, p. 28)
Quali
fattori hanno provocato tale recessione e per quali motivi l’Italia “è
destinata a scendere sempre più in basso?”
Dobbiamo
guardare al passato per capire il presente, ricordare la storia del tempo
passato che non è mai passato del tutto, anzi direi che è sempre presente.
Cicerone nell'Orator (del 46 a. C.) scrive: "Nescire
autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim
est aetas hominis, nisi eă memoriā rerum veterum cum superiorum aetate
contexitur?" (120), del resto non sapere che cosa sia accaduto
prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti
la vita di un uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima,
attraverso la memoria storica?
Vediamo
dunque di risvegliare la memoria storica
ll problema del calo della popolazione era stato posto già nel II secolo a. C., per il
mondo ellenico, da Polibio il quale viceversa notava la virtù delle matrone
romane. Nel libro XXXVI delle Storie viene
ricordata la crisi demografica della Grecia: “una carenza di bambini e un generale calo di popolazione
("ajpaidiva kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI
17, 5) che hanno rese deserte le città, senza guerre né epidemie. In questo
caso non si tratta di interrogare o di supplicare gli dèi poiché la causa del
male è evidente: gli uomini hanno cominciato ad abbandonarsi all'arroganza, all'avarizia, alla perdita di
tempo, a non volersi sposare, o se si sposavano, a non allevare i
figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel lusso. Basta poco dunque
perché le case restino deserte, e, come succede per uno sciame di api, così
anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente: cambiare l'oggetto dei
nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere i figli generati. Non
occorrono veggenti né operatori di magie!”
"Le cause della decadenza demografica sono... secondo Polibio,
l'amore delle ricchezze e il fasto che inducono i Greci ad evitare i matrimoni
o a limitare le nascite. Questi
concetti, che a prima vista sembrano polibiani, sono in realtà un dominio
comune della problematica pitagorica, assai diffusa...nell'ambiente degli
Scipioni. L'opera di "Ocello lucano" che è un caratteristico prodotto
del pitagorismo, databile forse ai primi decenni del II secolo a. C., dà un
grande rilievo al problema demografico. L'autore si volge contro "coloro
che non si uniscono allo scopo di procreare figli"... Polibio adattò questi
concetti a quel disfacimento del mondo greco, ch'egli trattava come storico
"pragmatico". Innanzi a lui si svolgeva la vita quotidiana di Roma
con le sue matrone virtuose; Polibio ne esaltava la sobrietà e
l'amore per i figli"[1]
Questo stesso problema si presenta nell’Urbe alla fine
della Repubblica. Cassio Dione[2] racconta che Augusto
nel 9 d. C. parlò agli sposati e ai celibi della classe alte.
Elogiò i primi, meno numerosi, dicendo che erano cittadini benemeriti e
fortunati: infatti ottima cosa è una donna temperante, casalinga, buona
amministratrice e nutrice dei figli "a[riston gunh; swvfrwn
oijkouro;" oijkovnomo" paidotrovfo" "(LVI, 3, 3) ed è una
grande felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri nati; inoltre anche la
comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva, LVI, 3, 7) di lavoratori e di
soldati.
Quindi
l’imperatore parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più
numerosi. Voi, disse in sostanza,
siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite
la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta: "a[nqrwpoi gavr
pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd j ajgorai; ajndrw'n
kenaiv" (LVI,
4, 1), gli uomini infatti in qualche misura costituiscono la città, non le case
né i portici né le piazze vuote di uomini[3].
Quindi Augusto continuò ad accusare i celibi
paragonandoli ai briganti e alle fiere selvatiche: voi, disse, non è che volete
vivere senza donne, visto che nessuno mangia o dorme solo:"ajll' ejxousivan kai; uJbrivzein kai; ajselgaivnein e[cein
ejqevlete" (LVI, 4, 6-7), ma volete avere la facoltà della
dismisura e dell'impudenza.
Infine il Princeps senatus ammise
che nel matrimonio e nella procreazione ci sono aspetti sgradevoli (ajniarav tina), ma, aggiunse, non mancano i vantaggi. Ci sono per giunta i
premi promessi dalle leggi:"kai; ta; para; tw'n novmwn a\qla" ( LVI,
8, 4).
Una legge
volta a frenare, o per lo meno a regolarizzare e ordinare l'amore, fu la lex
Iulia de maritandis ordinibus, del 18 a. C. Questa
multava i celibi e premiava gli ammogliati fecondi.
Di
questa lex Iulia "che mirava a combattere la licenza
sessuale e la diminuzione della natalità"[4] si
trova un'anticipazione in una delle 19 strofe saffiche del Carmen
Saeculare di Orazio, del 17 a. C. :" Diva,
producas subolem patrumque/prosperes decreta super iugandis/feminis prolisque
novae feraci/lege marita " (vv. 17-20), Dea[5] fa crescere la prole e da' successo
ai decreti del senato sulle donne da unire in matrimonio e sulla legge nuziale
feconda di nuova prole.
La lex
Iulia de maritandis ordinibus (18 a. C.) venne
ribadita e inasprita dalla lex Papia Poppaea (del 9 d. C. )
che, tra l'altro, concedeva agevolazioni fiscali e legali a chi avesse almeno
tre figli (ius trium liberorum ). Tacito ci fa sapere che Augusto
già piuttosto vecchio (senior) l'aveva ratificata dopo le leggi Giulie[6] incitandis caelibum poenis et augendo
aerario (Annales , III, 25), per aggravare le pene contro
i celibi e per impinguare l'erario.
Non
per questo, continua lo storico, i matrimoni e le nascite dei figli divenivano
più frequenti, praevalida orbitate, tanto si era affermato il
costume di non avere famiglia.
Tutto questo di fatto non bastò a frenare la corsa già in atto verso
i magna adulteria denunciati da Tacito all'inizio
delle Historiae[7] (I, 2).
Tale
situazione dopo la morte di Augusto si aggravò per ragioni economiche con la
progressiva riduzione della classe media dei benestanti che al tempo di
Giuliano Augusto (361-363) era prossima a sparire, e per via dei costumi che
non vengono quasi mai cambiati dalle leggi.
Infatti:" corruptissima
republica plurimae leges (Tacito, Annales III,
27).
Le leggi di
Augusto funzionarono più o meno come le grida di Manzoni: “…perché vedete, a
saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente” dice il
dottore Azzeccagabugli a quel materialone di Renzo cui del resto aveva premesso
impunità “ purché non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci” (I
promessi sposi, III, 250-255).
Nel mondo
guasto raffigurato dal Satyricon c'è un ribaltamento che riguarda una città
intera: Crotone dove
si svolge l'ultima parte del romanzo (116-141). Questa era una urbs
antiquissima et aliquando Italiae prima, antichissima e che una volta era
stata la prima d'Italia; quando però ci arrivano Encolpio, Eumolpo e Gitone la
sua gente si divide in due categorie: ricchi senza eredi e
cacciatori di eredità.
"Nella
sezione conclusiva del Satyricon, la caratterizzazione degli
abitanti di Crotone si ricollega a quella che nella sezione della Graeca
urbs era stata fatta da Trimalchione: anch'egli, infatti, è stato
un heredipeta [8] come i Crotoniati: anch'egli non può
trasmettere i suoi beni a una propria discendenza e come i Crotoniati è come se
fosse già morto, tanto più che conosce il momento esatto della morte (77 2) e
si preoccupa di farselo costantemente ricordare da un trombettiere e dalla
macchina del tempo (26 9)"[9].
A Crotone
sono stati pervertiti i sancti mores e annullati i litterarum
studia [10], come spiega un contadino ai tre nuovi
arrivati che osservano da un colle non lontano l' oppidum "impositum
arce sublimi" (116, 1), posto sopra un' altura.
Se
siete capaci di mentire sistematicamente, dice il vilicus agli errantes,
vi arricchirete:"in hac enim urbe non litterarum studia celebrantur,
non eloquentia locum habet, non frugalitas sanctique mores laudibus ad fructum
perveniunt, sed quoscumque homines in hac urbe videritis, scitote in duas
partes esse divisos. nam aut captantur aut captant" (Satyricon,
116, 6-7), infatti in questa città non vengono onorati gli studi letterari,
l'eloquenza non ha posto, l'onestà e i pii costumi non fruttano elogi, ma tutti
gli uomini che vedrete in questa città, sappiate che sono divisi in due
categorie: o sono cacciati o danno la caccia.
A Crotone
nessuno riconosce i figli "in hac urbe nemo liberos tollit, quia
quisquis suos heredes habet, non ad cenas, non ad spectacula admittitur, sed
omnibus prohibetur commodis, inter ignominiosos latitat. qui vero nec uxores
umquam duxerunt nec proximas necessitudines habent, ad summos honores
perveniunt, id est soli militares, soli fortissimi atque etiam innocentes
habentur" (116, 7-8), poiché chiunque abbia i suoi eredi non viene
invitato a cene, non a spettacoli, ma viene escluso da tutti i vantaggi e vive
nascosto tra i malfamati. Quelli poi che non hanno mai preso moglie e non hanno
parenti prossimi, raggiungono le cariche più alte, cioè solo loro sono
considerati degli strateghi, solo loro fortissimi e irreprensibili. Qui si vede
il fallimento della legislazione augustea che cercava di penalizzare i celibi
Quel luogo
guasto è come un campo devastato da una pestilenza: "adibitis'inquit'
oppidum tamquam in pestilentia campos, in quibus nihil aliud est
nisi cadavera quae lacerantur aut corvi qui lacerant " (116, 9),
entrerete disse in una città che è come un campo nel tempo della peste, dove
non c'è altro se non cadaveri che vengono fatti a pezzi e corvi che li fanno a
pezzi.
Tale degrado
doveva essere diffuso a Roma e in Italia: Tacito infatti sottolinea
che presso i sani e antitetici Germani:"quanto plus propinquorum,
quanto maior adfinium numerus, tanto gratiosior senectus; nec ulla orbitatis
pretia " (Germania [11], 20), quanto più sono i consanguinei,
quanto più grande è il numero dei parenti acquisiti, tanto più è considerata la
vecchiaia; né la mancanza di figli dà vantaggio.
Tacito elogia
i costumi delle donne dei Germani in antitesi a quelli oramai corrotti di
Roma:"severa illic matrimonia, nec ullam morum partem magis laudaveris ",
i matrimoni là sono una cosa seria e non si potrebbe approvare di più alcuna
parte dei loro costumi, afferma all'inizio del XVIII capitolo della Germania .
E nel XIX:"Paucissima in tam numerosa gente adulteria, quorum poena
praesens et maritis permissa ", pochissimi, pur tra gente tanto
numerosa, sono gli adultèri, la cui punizione è immediata e affidata ai mariti.
Questi a loro volta "singulis uxoribus contenti sunt "[12], si accontentano di una sola moglie
e la limitazione delle nascite o l'aborto non sono ammessi:"numerum
liberorum finire aut quemquam ex agnatis necare flagitium habetur "[13], limitare il numero dei figli o
sopprimerne uno dei successivi al primogenito è considerata un'infamia. Là
infatti nessuno si prende gioco dei vizi né corrompere ed essere corrotti è
chiamato moda:"nemo enim illic vitia ridet nec corrumpere et corrumpi
saeculum vocatur ".
Possiamo
notare che come "Ocello lucano intendeva protestare contro la società ellenistica
del suo tempo"[14], così Tacito polemizzava con le
“sfacciate”[15] donne romane del suo, suddite e,
probabilmente[16], allieve dell'imperatrice
Messalina la quale "facilitate adulteriorum in fastidium
versa ad incognitas libidines profluebat "[17], volta alla noia per la facilità degli
adultèri, si lasciava andare a dissolutezze inaudite.
Secondo
Giovenale l'aborto fa parte dell'egoismo e della degenerata
sessualità femminile. Viene biasimato con particolare indignatio da
questo corrucciato[18] moralista che
attribuisce alle donne ricche il ricorso sistematico a tale pratica. Le
poveracce invece si sottopongono ancora ai pericoli del parto:"sed
iacet aurato vix ulla puerpera lecto./Tantum artes huius, tantum medicamina
possunt,/quae steriles facit atque homines in ventre necandos/ conducit."
(VI, 594-597), ma sui letti d'oro è difficile che giaccia una puerpera. Tanto
possono le arti, tanto i filtri di colei che le rende sterili e si prende in
appalto uomini da ammazzare nel ventre.
Il
marito di queste matrone che abortiscono del resto non ha motivo di lagnarsi,
poiché la gravidanza portata avanti lo avrebbe reso "padre" di un
Etiope.
Bologna 8
febbraio 2019
giovanni
ghiselli
[2] Vissuto tra il II e il III sec. d. C. , scrisse una Storia
Romana in greco. Constava di ottanta libri che andavano dalle origini
al 229 d. C. Ne restano 25 (dal 36 al 60) oltre alle epitomi di età bizantina.
[3] ll problema del calo
demografico, adesso di nuovo attuale, era stato posto già nel II secolo
a. C., per il mondo ellenico da Polibio il quale viceversa notava la virtù
delle matrone romane. Nel libro XXXVI delle Storie viene
ricordata la crisi demografica della Grecia, una carenza di bambini e un generale calo di popolazione
("ajpaidiva kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI
17, 5) che hanno rese deserte le città, senza guerre né epidemie. In questo
caso non si tratta di interrogare o di supplicare gli dèi poiché la causa del
male è evidente: gli uomini hanno cominciato ad abbandonarsi all'arroganza, all'avarizia, alla perdita di
tempo, a non volersi sposare, o se si sposavano, a non allevare i
figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel lusso. Basta poco dunque
perché le case restino deserte, e, come succede per uno sciame di api, così
anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente: cambiare l'oggetto dei
nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere i figli generati. Non
occorrono veggenti né operatori di magie!
[7] Composte entro il 110 d. C, raccontano i fatti che vanno dal 1°
gennaio 69 d. C. alla rivolta giudaica del 70.
Ha scritto Rerum
gestarum libri XXXI
Partivano
dal regno di Nerva (96) e arrivano al 378 con la morte dell’imperatore Valente
nella battaglia di Adrianopoli. Non ci sono arrivati i primi 13 libri. Quelli
supersiti partono dal 352.
Lo
storiografo siriano (uno dei pochissimi autori di madre lingua greca che
scrivono in latino) denuncia il fatto che a Roma le mense
erano voragines, baratri di scialacquio, nentre le biblioteche venivano chiuse come se
fossero sepolcri : pro
philosopho cantor accītur et bybliothecis sepulcrorum ritu in perpetuum
clausis (14, 6, 18) Invece del filosofo si invita il cantore.
[13]Tacito, Germania , 19. Espressione simile si trova
in Historiae V, 5 a proposito degli Ebrei:"necare
quemquam ex agnatis nefas ", non in un contesto elogiativo
questa volta, bensì dicendo che in questo popolo non si prova amore per i familiari
ma si tende all'incremento demografico:"Augendae tamen multitudini
consulitur ".
[16]Se è vero che, come sostiene Dante, che "la mala condotta/ è la cagion
che il mondo ha fatto reo" (Purgatorio , XVI, vv. 103-104). In
effetti Giovenale afferma che una donna romana del suo tempo si sarebbe
accontentata più facilmente di un occhio che di un maschio solo:"unus
Hiberinae vir sufficit? ocius illud/extorquebis, ut haec oculo contenta sit uno",
VI, vv. 53-54 a Iberina basta un maschio solo? Più in fretta
otterrai con la forza che si accontenti di un occhio solo.
[18] Interessante è il giudizio, pieno di antipatia nei confronti di
questo poeta, con il quale l'imperatore Adriano lo esiliò secondo la Yourcenar:"ne avevo abbastanza di
quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo
per l'Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta
austerità dei nostri padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate
del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del
lettore e ne rassicura l'ipocrisia" Memorie di Adriano, p. 217.
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