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sabato 9 febbraio 2019

La recessione delle vite umane



Il calo demografico nell’Italia di oggi e nell’impero romano

Leggo nel quotidiano di ieri: “L’Italia che era nella top 10 dei paesi più popolati al mondo a metà del secolo scorso, ora non è più nemmeno nella top 20 ed è destinata a scendere sempre più in basso nei prossimi decenni. Il nostro peso relativo sul pianeta è sceso sotto lo 0, 8 per cento. Cina e India assieme superano il 35 per cento” (Alessandro Rosina, Recessione demografica, “la Repubblica”, p. 28)
Quali fattori hanno provocato tale recessione e per quali motivi l’Italia “è destinata a scendere sempre più in basso?
Dobbiamo guardare al passato per capire il presente, ricordare la storia del tempo passato che non è mai passato del tutto, anzi direi che è sempre presente.
Cicerone nell'Orator (del 46 a. C.) scrive: "Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi eă memoriā rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?" (120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la memoria storica?
Vediamo dunque di risvegliare la memoria storica
ll problema del calo della popolazione era stato posto già nel II secolo a. C., per il mondo ellenico, da Polibio il quale viceversa notava la virtù delle matrone romane. Nel libro XXXVI delle Storie  viene ricordata la crisi demografica della Grecia: “una carenza di bambini e un generale calo di popolazione ("ajpaidiva kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI 17, 5) che hanno rese deserte le città, senza guerre né epidemie. In questo caso non si tratta di interrogare o di supplicare gli dèi poiché la causa del male è evidente: gli uomini hanno cominciato ad abbandonarsi all'arroganza, all'avarizia, alla perdita di tempo, a non volersi sposare, o se si sposavano, a non allevare i figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel lusso. Basta poco dunque perché le case restino deserte, e, come succede per uno sciame di api, così anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente: cambiare l'oggetto dei nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere i figli generati. Non occorrono veggenti né operatori di magie!”
"Le cause della decadenza demografica sono... secondo Polibio, l'amore delle ricchezze e il fasto che inducono i Greci ad evitare i matrimoni o a limitare le nascite. Questi concetti, che a prima vista sembrano polibiani, sono in realtà un dominio comune della problematica pitagorica, assai diffusa...nell'ambiente degli Scipioni. L'opera di "Ocello lucano" che è un caratteristico prodotto del pitagorismo, databile forse ai primi decenni del II secolo a. C., dà un grande rilievo al problema demografico. L'autore si volge contro "coloro che non si uniscono allo scopo di procreare figli"... Polibio adattò questi concetti a quel disfacimento del mondo greco, ch'egli trattava come storico "pragmatico". Innanzi a lui si svolgeva la vita quotidiana di Roma con le sue matrone virtuose; Polibio  ne esaltava la sobrietà e l'amore per i figli"[1]

Questo stesso problema si presenta nell’Urbe alla fine della Repubblica. Cassio Dione[2] racconta che  Augusto nel 9 d. C. parlò agli sposati e ai celibi della classe alte. Elogiò i primi, meno numerosi, dicendo che erano cittadini benemeriti e fortunati: infatti ottima cosa è una donna temperante, casalinga, buona amministratrice e nutrice dei figli "a[riston gunh; swvfrwn oijkouro;" oijkovnomo" paidotrovfo" "(LVI, 3, 3) ed è una grande felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri nati; inoltre anche la comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva, LVI, 3, 7) di lavoratori e di soldati.
Quindi l’imperatore parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più numerosi. Voi, disse in sostanza, siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta: "a[nqrwpoi gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd j  ajgorai; ajndrw'n kenaiv" (LVI, 4, 1), gli uomini infatti in qualche misura costituiscono la città, non le case né i portici né le piazze vuote di uomini[3].
Quindi Augusto continuò ad accusare i celibi paragonandoli ai briganti e alle fiere selvatiche: voi, disse, non è che volete vivere senza donne, visto che nessuno  mangia o dorme solo:"ajllejxousivan kai; uJbrivzein kai; ajselgaivnein e[cein ejqevlete" (LVI, 4, 6-7), ma volete avere la facoltà della dismisura e dell'impudenza.
 Infine il Princeps senatus ammise che nel matrimonio e nella procreazione ci sono aspetti sgradevoli (ajniarav tina), ma, aggiunse, non  mancano i vantaggi. Ci sono per giunta i premi promessi dalle leggi:"kai; ta; para; tw'n novmwn a\qla" ( LVI, 8, 4).
Una  legge volta a frenare, o per lo meno a regolarizzare e ordinare l'amore, fu la lex Iulia de maritandis ordinibus,  del 18 a. C.  Questa multava i celibi e premiava gli ammogliati fecondi.
Di questa lex Iulia "che mirava a combattere la licenza sessuale e la diminuzione della natalità"[4]  si trova  un'anticipazione in una delle 19 strofe saffiche del Carmen Saeculare di Orazio, del 17 a. C.  :" Diva, producas subolem patrumque/prosperes decreta super iugandis/feminis prolisque novae feraci/lege marita " (vv. 17-20), Dea[5] fa crescere la prole e da' successo ai decreti del senato sulle donne da unire in matrimonio e sulla legge nuziale feconda di nuova prole.
La  lex Iulia de maritandis ordinibus (18 a. C.)  venne ribadita e inasprita dalla lex Papia Poppaea (del 9 d. C. ) che, tra l'altro, concedeva agevolazioni fiscali e legali a chi avesse almeno tre figli (ius trium liberorum ). Tacito ci fa sapere che Augusto già piuttosto vecchio (senior) l'aveva ratificata dopo le leggi Giulie[6] incitandis caelibum poenis et augendo aerario (Annales , III, 25), per aggravare le pene contro i celibi e per impinguare l'erario. 
 Non per questo, continua lo storico, i matrimoni e le nascite dei figli divenivano più frequenti, praevalida orbitate, tanto si era affermato il costume di non avere famiglia.
Tutto questo di fatto non bastò a frenare la corsa già in atto verso i magna adulteria denunciati da Tacito  all'inizio delle Historiae[7] (I, 2).

Tale situazione dopo la morte di Augusto si aggravò per ragioni economiche con la progressiva riduzione della classe media dei benestanti che al tempo di Giuliano Augusto (361-363) era prossima a sparire, e per via dei costumi che non vengono quasi mai cambiati dalle leggi.
Infatti:" corruptissima republica plurimae leges (Tacito, Annales  III, 27).

Le leggi di Augusto funzionarono più o meno come le grida di Manzoni: “…perché vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente” dice il dottore Azzeccagabugli a quel materialone di Renzo cui del resto aveva premesso impunità “ purché non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci” (I promessi sposi, III, 250-255).

Nel mondo guasto raffigurato dal Satyricon  c'è un ribaltamento che riguarda una città intera:  Crotone dove si svolge l'ultima parte del romanzo (116-141). Questa era una urbs antiquissima et aliquando Italiae prima, antichissima e che una volta era stata la prima d'Italia; quando però ci arrivano Encolpio, Eumolpo e Gitone la sua gente si divide in  due categorie: ricchi senza eredi e cacciatori di eredità.

"Nella sezione conclusiva del Satyricon, la caratterizzazione degli abitanti di Crotone si ricollega a quella che nella sezione della Graeca urbs era stata fatta da Trimalchione: anch'egli, infatti, è stato un heredipeta [8] come i Crotoniati: anch'egli non può trasmettere i suoi beni a una propria discendenza e come i Crotoniati è come se fosse già morto, tanto più che conosce il momento esatto della morte (77 2) e si preoccupa di farselo costantemente ricordare da un trombettiere e dalla macchina del tempo (26 9)"[9].
A Crotone sono stati pervertiti i sancti mores e annullati i litterarum studia [10], come spiega un contadino ai tre nuovi arrivati che osservano da un colle non lontano l' oppidum "impositum arce sublimi" (116, 1), posto sopra un' altura.

 Se siete capaci di mentire sistematicamente, dice il vilicus agli errantes, vi arricchirete:"in hac enim urbe non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet, non frugalitas sanctique mores laudibus ad fructum perveniunt, sed quoscumque homines in hac urbe videritis, scitote in duas partes esse divisos. nam aut captantur aut captant" (Satyricon, 116, 6-7), infatti in questa città non vengono onorati gli studi letterari, l'eloquenza non ha posto, l'onestà e i pii costumi non fruttano elogi, ma tutti gli uomini che vedrete in questa città, sappiate che sono divisi in due categorie: o sono cacciati o danno la caccia.

A Crotone nessuno riconosce i figli "in hac urbe nemo liberos tollitquia quisquis suos heredes habet, non ad cenas, non ad spectacula admittitur, sed omnibus prohibetur commodis, inter ignominiosos latitat. qui vero nec uxores umquam duxerunt nec proximas necessitudines habent, ad summos honores perveniunt, id est soli militares, soli fortissimi atque etiam innocentes habentur" (116, 7-8), poiché chiunque abbia i suoi eredi non viene invitato a cene, non a spettacoli, ma viene escluso da tutti i vantaggi e vive nascosto tra i malfamati. Quelli poi che non hanno mai preso moglie e non hanno parenti prossimi, raggiungono le cariche più alte, cioè solo loro sono considerati degli strateghi, solo loro fortissimi e irreprensibili. Qui si vede il fallimento della legislazione augustea che cercava di penalizzare i celibi
Quel luogo guasto è come un campo devastato da una pestilenza: "adibitis'inquit' oppidum tamquam in pestilentia campos, in quibus nihil aliud est nisi cadavera quae lacerantur aut corvi qui lacerant " (116, 9), entrerete disse in una città che è come un campo nel tempo della peste, dove non c'è altro se non cadaveri che vengono fatti a pezzi e corvi che li fanno a pezzi.

Tale degrado doveva essere diffuso a Roma e in Italia:  Tacito infatti sottolinea che presso i sani e antitetici Germani:"quanto plus propinquorum, quanto maior adfinium numerus, tanto gratiosior senectus; nec ulla orbitatis pretia " (Germania [11], 20), quanto più sono i consanguinei, quanto più grande è il numero dei parenti acquisiti, tanto più è considerata la vecchiaia; né la mancanza di figli dà vantaggio.  
 Tacito  elogia i costumi delle donne dei Germani in antitesi a quelli oramai corrotti di Roma:"severa illic matrimonia, nec ullam morum partem magis laudaveris ", i matrimoni là sono una cosa seria e non si potrebbe approvare di più alcuna parte dei loro costumi, afferma all'inizio del XVIII capitolo della Germania . E nel XIX:"Paucissima in tam numerosa gente adulteria, quorum poena praesens et maritis permissa ", pochissimi, pur tra gente tanto numerosa, sono gli adultèri, la cui punizione è immediata e affidata ai mariti. Questi a loro volta "singulis uxoribus contenti sunt "[12], si accontentano di una sola moglie e la limitazione delle nascite o l'aborto non sono ammessi:"numerum liberorum finire aut quemquam ex agnatis necare flagitium habetur "[13], limitare il numero dei figli o sopprimerne uno dei successivi al primogenito è considerata un'infamia. Là infatti nessuno si prende gioco dei vizi né corrompere ed essere corrotti è chiamato moda:"nemo enim illic vitia ridet nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur ".

Possiamo notare che come "Ocello lucano intendeva protestare contro la società ellenistica del suo tempo"[14], così Tacito polemizzava con le “sfacciate”[15] donne romane del suo, suddite e, probabilmente[16], allieve dell'imperatrice Messalina  la quale "facilitate adulteriorum in fastidium versa ad incognitas libidines profluebat "[17], volta alla noia per la facilità degli adultèri, si lasciava andare a dissolutezze inaudite. 
Secondo Giovenale l'aborto fa parte dell'egoismo e della degenerata sessualità femminile. Viene biasimato con particolare indignatio da questo corrucciato[18] moralista  che attribuisce alle donne ricche il ricorso sistematico a tale pratica. Le poveracce invece si sottopongono ancora ai pericoli del parto:"sed iacet aurato vix ulla puerpera lecto./Tantum artes huius, tantum medicamina possunt,/quae steriles facit atque homines in ventre necandos/ conducit." (VI, 594-597), ma sui letti d'oro è difficile che giaccia una puerpera. Tanto possono le arti, tanto i filtri di colei che le rende sterili e si prende in appalto uomini da ammazzare nel ventre.
 Il marito di queste matrone che abortiscono del resto non ha motivo di lagnarsi, poiché la gravidanza portata avanti lo avrebbe reso "padre" di un Etiope.
  
Bologna 8 febbraio 2019
giovanni ghiselli




[1]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , II volume, I tomo, pp. 127-129.
[2] Vissuto tra il II e il III sec. d. C. , scrisse una Storia Romana in greco. Constava di ottanta libri che andavano dalle origini al 229 d. C. Ne restano 25 (dal 36 al 60) oltre alle epitomi di età bizantina.
[3] ll problema del calo demografico, adesso di nuovo attuale, era stato posto già nel II secolo a. C., per il mondo ellenico da Polibio il quale viceversa notava la virtù delle matrone romane. Nel libro XXXVI delle Storie  viene ricordata la crisi demografica della Grecia, una carenza di bambini e un generale calo di popolazione ("ajpaidiva kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI 17, 5) che hanno rese deserte le città, senza guerre né epidemie. In questo caso non si tratta di interrogare o di supplicare gli dèi poiché la causa del male è evidente: gli uomini hanno cominciato ad abbandonarsi all'arroganza, all'avarizia, alla perdita di tempo, a non volersi sposare, o se si sposavano, a non allevare i figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel lusso. Basta poco dunque perché le case restino deserte, e, come succede per uno sciame di api, così anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente: cambiare l'oggetto dei nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere i figli generati. Non occorrono veggenti né operatori di magie!
[4] A. La Penna.Orazio. Le opere. Antologia, p. 477.
[5] Ilitìa, identificata con Lucina, la dea romana dei parti. 
[6] De maritandis ordinibus e De adulteriis coërcendis del 18 a. C.
[7] Composte entro il 110 d. C, raccontano i fatti che vanno dal 1° gennaio 69 d. C. alla rivolta giudaica del 70.
[8] Heredipĕta, formato da heredium e peto, significa "cacciatore di eredità".
[9] P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, p. 351.
[10] Ammiano Marcellino (330 -400 ca.)
Ha scritto Rerum gestarum libri XXXI
Partivano dal regno di Nerva (96) e arrivano al 378 con la morte dell’imperatore Valente nella battaglia di Adrianopoli. Non ci sono arrivati i primi 13 libri. Quelli supersiti partono dal 352.
 Lo storiografo siriano (uno dei pochissimi autori di madre lingua greca che scrivono in latino)  denuncia il fatto che a Roma le  mense erano voragines, baratri di scialacquio, nentre le biblioteche venivano chiuse come se fossero sepolcri : pro philosopho cantor accītur et bybliothecis sepulcrorum ritu in perpetuum clausis (14, 6, 18) Invece del filosofo si invita il cantore.
[11] Del 98 d. C.
[12]Tacito, Germania , 18.
[13]Tacito, Germania , 19. Espressione simile si trova in Historiae  V, 5 a proposito degli Ebrei:"necare quemquam ex agnatis nefas  ", non in un contesto elogiativo questa volta, bensì dicendo che in questo popolo non si prova amore per i familiari ma si tende all'incremento demografico:"Augendae tamen multitudini consulitur ".
[14]S. Mazzarino, op. cit, p. 129.
[15] Cfr. Dante Purgatorio XXIII, 101 “le sfacciate donne fiorentine”
[16]Se è vero che, come sostiene Dante, che "la mala condotta/ è la cagion che il mondo ha fatto reo" (Purgatorio , XVI, vv. 103-104). In effetti Giovenale afferma che una donna romana del suo tempo si sarebbe accontentata più facilmente di un occhio che di un maschio solo:"unus Hiberinae vir sufficit? ocius illud/extorquebis, ut haec oculo contenta sit uno", VI, vv. 53-54 a Iberina   basta un maschio solo? Più in fretta otterrai con la forza che si accontenti di un occhio solo.
[17]Tacito, Annales , XI, 26.
[18] Interessante è il giudizio, pieno di antipatia nei confronti di questo poeta, con il quale l'imperatore Adriano lo esiliò secondo la Yourcenar:"ne avevo abbastanza di quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo per l'Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta austerità dei nostri padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne rassicura l'ipocrisia" Memorie di Adriano, p. 217.  

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