Massimo Cacciari |
Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019)
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)
Premessa
Nel corso
dei miei decenni di insegnamento ho constatato che il nesso tra filologia e e
filosofia, chiarito nel primo capitolo (Humanismus o
Umanesimo?) è non solo reale nei fatti
ma indispensabile per l’educazione dei giovani nella scuola, e pure
necessario se si vuole ottenere la loro attenzione, suscitare il loro
interesse, e rilanciare lo studio dei classici.
La
chiara visione di tale idea richiede “una lunga esperienza delle cose moderne
et una continua lezione delle antique”, ossia molto studio, molta conoscenza e
non poca sensibilità, compreso un certo amor proprio.
Faccio un
esempio tratto dalla mia esperienza di insegnante. Quando cominciai a insegnare
nel liceo classico di Imola nel 1975, dopo avere studiato nel liceo classico di
Pesaro e lettere antiche nell’Università di Bologna, trovai adottato dal
collega precedente l’ Edipo re di Sofocle. Lo traducevo e lo
commentavo quasi solo con note grammaticali e sintattiche, la methodos che
mi avevano insegnato via via i professori assegnatimi dal caso.
In
questa methodos invero non c’era né filosofia né filologia.
I ragazzi
non mi ascoltavano. Domandai perché. Risposero : “di traduzioni stampate ce ne
sono tante, i paradigmi sono nel vocabolario, la grammatica e la metrica le
abbiamo studiate al ginnasio. Siamo arrivati all’ultimo anno di questo anno,
dobbiamo affrontare un esame di maturità e abbiamo bisogno di altro. Lei, dopo
gli studi universitari, dovrebbe essere in grado di aiutarci”. In quel momento
non lo ero: all’Università mi avevano insegnato, poi richiesto agli
esami poco più che la traduzione dei testi. Indispensabile, per carità, ma
quasi solo quella.
Gli ottimi
studenti di allora mi suggerirono di commentare l’Edipo da portare alla
maturità con Paideia di Jaeger, poi con La
nascita della tragedia di Nietzsche, con la Poetica di
Aristotele e con l’Estetica di Hegel.
Avevano
un bravo insegnante di filosofia. Mi vergognai della mia ignoranza e della mia
pochezza. Volevo farmi ascoltare, fare piacere Sofocle e pure farmi piacere da
quei ragazzi, sicché mi diedi a studiare quei testi con tutto il tempo e le
forze che avevo. Dopo qualche tempo i miei studenti, non più distratti,
prendevano appunti.
I risultati
di quei mesi di studio mi hanno invogliato a procedere con tale impegno,
laborioso tanto “che m’ha fatto per più anni macro”.
Soprattutto La
nascita della tragedia li interessò, forse anche perché ne ero rimasto
affascinato io per primo. Non solo sulla tragedia ma su buona parte della
letteratura e della filosofia dei Greci avevo capito più da questa breve opera
giovanile di Nietzsche che da cinque anni di liceo e quattro di Università.
Sono
ancora grato a quegli adolescenti ora sessantenni. Non avevo fatto della
filosofia né mi ero addentrato nella filologia, ma avevo trovato il
modo di farmi ascoltare, di fare capire a quei giovani che quanto scrivono i
tragici e gli altri auctores riguarda anche loro. E avevano
pure capito che li avrei preparati bene a un esame di maturità ancora serio.
Passiamo ora
a esaminare e commentare alcuni punti del primo capitolo Humanismus o Umanesimo? (pp. 3-14) del
libro di MassimoCacciari
Fanno la
prima comparsa gli autori che verranno presentati nei prossimi capitoli. Sono i
protagonisti della filosofia del Quattrocento
“Pico, ad
esempio, giunge certo a definire “la vera e autentica humanitas non
con l’ausilio della filologia ma della filosofia”[1] ,
tuttavia la sua concezione della matematica rimane ‘magica’ e la
concatenazione tra le diverse componenti del pensiero irrisolta” (p. 4)
Il dubbio
sussiste anche per Ficino il cui platonismo può essere considerato “una pia
quaedam philosophia[2], che filosofia in fondo non è”
85).
Kristeller
ha denunciato la emptiness teoretica dell’Umanesimo in Studies
in Renaissance Thought Letters Roma, 1984)
“Così
per Curtius, che pure ha fornito con Letteratura europea a medioevo
latino (1948) anche un’indispensabile genealogia dell’Umanesimo, la
tradizione da cui esso nasce è esclusivamente quella degli studi di grammatica,
retorica, storia, poesia; la filosofia non vi ha quasi parte. La tendenza fondamentale,
che proviene sostanzialmente da Burckhardt, rimane quella di concepire
l’Umanesimo sotto il segno esclusivo dell’arte (…) o dell’affermazione
dell’individuo come poihthv", potenza formatrice, creatrice, tettonica”[3] (p.
5)
“Ma forse
che questa grande arte avrebbe mai potuto nascere senza un’implicita filosofia
dell’arte?” (p. 5)
Il vir bonus
dicendi peritus di Quintiliano “non solo deve essere
inteso optima sentientem, optimeque dicentem, ma mostrarsi
capace di condurre con il suo eloquente sapere gli uomini
alla civilitas” (p. 6)
Da Salutati
a Palmieri , all’Alberti del De iciarchia[4],
l’Umanesimo traduce l’aristotelico politikov" con civilis (p.
6)
Nella
Prefazione della Institutio oratoria leggiamo che
l’oratore
perfetto esse nisi vir bonus non potest , ideoque non
dicendi modo eximiam in eo facultatem sed omnes animi virtutes exigimus (
9)
In primo
luogo troviamo vir bonus.
Il compito
dell'oratore è elevato da Quintiliano a missione civile e umana e la perfezione
morale è considerata presupposto indispensabile della perfezione oratoria, in
conformità con i precetti di Catone (per cui l'oratore doveva essere vir
bonus dicendi peritus[5])
e con la dottrina stoica.
L’imperatore
Giuliano (361-363) viene definito da Eutropio civilis in cunctos (X
16, 3). “il concetto di civilitas sostituisce ora (o, per lo
meno, definisce più precisamente) quello di humanitas; e come il
circolo degli Scipioni, a metà del II secolo a. C. aveva elaborato il concetto
di humanitas contrapposta alla ferocia (della humanitas,
insomma, per cui si è “uomini”, non si è feri), allo stesso
modo ora si contrapponeva l’essere civilis all’essere ferox” [6]
“Retorica essenzialmente politica, dunque civilis sapientia (…)
E come non avvertire in quella stessa espressione anche il problema del nesso
tra filo-logia e filo-sofia? ’” (p. 6)
Il significato della filo-logia umanistica è stato impoverito anche da alcuni
dei più importanti maestri della filologia classica tra Ottocento e Novecento.
Wilamowitz in Geschichte der Philologie ha scritto
che gli umanisti del Quattrocento forse con la sola eccezione di Valla” non
furono affatto fililogi, ma esclusivamente letterati, pubblicisti,
insegnanti” [7]
A propsito
di La nascita della tragedia di Niezsche, Wilamowitz ha
scritto che apollineo e dionisiaco sono astrazioni estetiche come poesia
ingenua e sentimentale in Schiller.
L’Umanesimo
è stato poco compreso
“Se Tanti
filosofi contemporanei non cercano nell’Umanesimo che una traccia della propria
filosofia, i Wilamowitz fanno loro eco riducendolo al servizio della
propria filologia, I primi swmbrano non intendere che la peculiare filosofia
dell’umanesimo consiste proprio, anzitutto, nel valore e nel significato che si
attribuisce al termine filologia (prospettiva ermeneutica pure avvertita da
Gentile) ; I secondi non comprendono l’intrinseca natura filosofica
dell’amore-studio per il logos, nel suo significato più complesso, che anima
tutti i protagonisti dell’epoca” (p. 7)
“L’Humanismus
della grande filologia tedesca a cavallo del secolo svolse un ruolo decisivo
nella battaglia culturale attorno alle idee di Zivilisation e Kultur (…)
L’impostazione rigorosamente storicistica si fondeva, in una personalità ‘di
grosso formaro’ come Wilamowitz, con
l’idea di un finalismo della volontà (che rovesciava proprio col ricordarlo quello
schopenhaueriano) teso alla realizzazione di una forma di
vita opposta al Nervenleben metropolitano (la
vita nervosa causata dalla grande città p. 8), all’individualismo e al
relativismo della Zivilisation, e capace di analizzare
plasticamente, nel contemporaneo, il senso della paideia classica”.
Lukács sulla
“distruzione della ragione” in Nietzsche e in Schopenhauer.
Lukács vede in Dioniso, nel Dioniso interpretato da Nietzsche il paradigma mitico della classe dominante che si è trasformata da
decadente in attivista. “Dioniso è il simbolo mitico di questa
conversione della classe dominante…il
predominio dell’istinto sull’intelletto e sulla ragione (perciò
nell’opera giovanile la figura di Socrate è contrapposta a Dioniso)…Dioniso appare come il simbolo della
decadenza gravida dell’avvenire e degna di approvazione, della decadenza dei forti, in
opposizione al fiacco e deprimente pessimismo (Schopenhauer) e alla liberazione
degli istinti con accenti plebei (Wagner)…Il dio di questa decadenza “riscattata”
e convertita in attività è Dioniso; sue caratteristiche sono crudeltà e
sensualità”[8].
“Nietzsche
combatte il romanticismo, ma in maniera tale, che al romanticismo “deteriore”,
decadente, oppone un romanticismo “buono”: il dionisiaco”[9].
Questo
programma dell’Humanismus traeva ispirazione da foni diverse e anche
contraddittorie tra loro, dal Goethe del viaggio in Italia, dalla Romantik e
dal mitico fondatore dell’Università di Berlino (1809), Karl Wilhelm von
Humboldt, un programma che teneva comunque ferma come propria arché l’Ellade
(“la patria migliore” la chiamava Humboldt). Il logos greco diventava così
norma, idea regolativa della nuova Bildung (p. 8)
Ai dotti
“spettava il dovere di far comprendere , nella crisi del
presente, che riaccostarsi alla Grecia è il solo mezzo di cui si dispone
per conservare la nostra civiltà” (p. 9). Immagino che
conservare in corsivo sia dialetticamente opposto alla renovatio e
al risvegliare il presente del capitolo secondo (p. 15).
“Platone in
grco, Goethe in tedesco, Paolo in religionetempreranno lo spirito dei nostri
giovani rendendoli immuni dalle malattie del presente” proclamava Wilamowitz.
Una “necessità dello spirito”, dunque, concepire la cultura classica come
fondamentale Sinnstiftung, fondazione di senso per la crisi della
civiltà europea”
Cacciari poi
cita le parole comclusive della prima edizione (1933) “del memorabile Paideia
di Werner Jaeger: “La mia esposizione si rivolge non solo ai dotti, ma a tutti
coloro che nello sforzo dell’età presente per conservare la nostra civiltà più
volte millenaria, cercano oggi di riaccostarsi alla grecità”.
Queste
parole riassumono, alla luce spettrale della tragedia ormai irreversibile della
Germania e dell’Europa, il senso delle origini e dell’umano sviluppo
dell’Humanismus” (p. 9). Mi sento di accostare le parole di Jaeger
e la riflessione di Cacciari a queste parole che Thomas Mann fa
dire a Serenus Zeitblom nel Doctor Faustus (1947): "non
posso far a meno di contemplare il nesso intimo e quasi misterioso fra lo
studio della filologia antica e un senso vivamente amoroso della bellezza e
della dignità razionale dell'uomo (...) dalla cattedra ho spiegato molte volte
agli scolari del mio liceo come la civiltà consista veramente nell'inserire con
devozione, con spirito ordinatore e,
vorrei dire,
con intento propiziatore, i mostri della notte nel culto degli dei"[10].
E’ il caos che si fa cosmo. E’ quello che aveva fatto Eschilo nell’Orestea.
Faustus
muore nell’estate del 1940: “La Germania, coi pomelli accesi, traballava allora
al colmo dei suoi orrendi trionfi”[11].
Il 25 aprile
“le nostre città, estenuate e schiantate, cadono come pere mature (…) tra i
grandi del regime, che avevano sguazzato nel potere, nella ricchezza e
nell’ingiustizia, infuria, giudice supremo, il suicidio” (p. 655)
L’Humanismus dunque
“pur contrastando ogni tendenza vitalistico-irrazionalistica, e perciò in
polemica con la filologia di George-Kreis (…) aveva rivendicato alla
serietà scientifica della propria ricerca la capacità di
pervenire a una Vollbild, a una rappresentazione completa
dell’uomo’classico’ , in grado di valere come paradigma, modello o idea-guida
per la Bildung o Formung non solo
dell’individuo ma dell’intera comunità (…) Tra la guerra e la fine della
repubblica questo ideale muore; la disgregazione dell’ethos
sociale che ne era il presupposto, l’abisso tra il suo ellenocentrismo e il
prepotente affermarsi di mitologie “gotiche” (l’espressione è di Pasquali),
travolgono il significato complessivo dell’Humanismus e ne mettono,
a un tempo, in evidenza le contraddizioni e i limiti filosofici (p.
10)
E questi
verranno attribuiti allo stesso Umanesimo storico
Nietzsche
poté presentire il crollo dell’idea di civiltà che l’Humanismus aveva cercato
di ri-formare.
Cacciari
nota che laa famosa polemica all’uscita della Nascita della tragedia (1872)
è stata enfatizzata al punto da far dimenticare “laformazione comune delle due
personalità e alcuni tratti profondamente affini della loro filologia
Wilamowitz
demolì La nascita della tragedia del 1872 con un violento pamphlet dello
stesso anno: Filologia dell’avvenire! Replica a La nascita della
tragedia di Friedrich Nietzsche. Wilamowitz, fondamentalmente,
non condivideva l'idea che Euripide e Socrate fossero stati gli affossatori della tragedia
classica, e deprecava l'attacco di Nietzsche al razionalismo, che vedeva come
un oltraggio al pensiero scientifico. Nel confutare
quella presunta complicità tra Euripide e Socrate Wilamowitz aveva
tagione
Erwin Rohde (1845-1898)
controreplicò in ottobre con Afterphilologie, Filologia
deretana. In favore di Nietzsche.
Wilamowitz
non è solo un ‘erudito’ classicista “né la sua interpretazione della cultura
classica riflette una metodologia puramente storicistica. La sua Ellade
proviene dalla lotta di Goethe per ‘domare’ il pathos werheriano, dalla
nostalgia per la ‘patria’ ellenica dell’Iperione hölderliniano e del primo
idealismo, altrettanto che dalla scienza filologica del Böckh.
Rifiutando
la vecchia idea della filologia come conoscenza esatta delle parole, e in
polemica con Gottfried Hermann, egli concepì la filologia come conoscenza storica e filologica dell'antichità nel suo complesso (totius antiquitatis
cognitio). In questa prospettiva studiò la musica degli antichi greci,
inaugurando così un vero e proprio filone di studi.
ugust Boeckh,
correttamente August Böckh (Karlsruhe, 24 novembre 1785 – Berlino, 3 agosto 1867), è stato
un grecista, filologo classico e accademico tedesco.
Vediamo
alcune espresssioni della nostalgia di Hölderlin nell’Iperione[12]:
Iperione a Bellarmino: “Vivo ora nella cara Salamina, l’isola di Aiace. Amo
questa Grecia sopra ogni altra cosa. Essa porta i colori del mio cuore. Ovunque
si guardi giace sepolta una gioia (…) le cime degli alberi, serene e luminose,
si levano piene di speranza, a migliaia, dal profondo del boso (…) le montagne
si innalzano una dietro l’altra all’infinito, simili a gradimi, fino al sole.
Tutto il cielo è puro. (pp. 70-71)
“Nessun
popolo della terra fu, sotto ogni aspetto, meno ostacolato nella sua crescita e
più libero da influssi violenti del popolo ateniese. Nessun conquistatore lo
indebolì, nessuna vittoria lo inebriò, nessun culto straniero ne offuscò la
coscienza, nessuna frettolosa saggezza lo spinse a una maturità precoce. La sua
infanzia fu lasciata a se stessa, come un diamante in formazione (…) A questo
s’aggiunse il gesto grande e ammirevole di Teseo: la spontanea limitazione del
potere regale”
Aggiungo che
Teseo nelle tragedie di Euripide è il paradigma mitico di Pericle
“La prima
figlia della bellezza divina è l’arte. La seconda figlia della bellezza è la
religione” L’arte e la religione degli ateniesi sono “autentiche figlie della
bellezza eterna, della perfetta natura umana (…) e’ però certo che nelle opere
della loro arte si trova quasi sempre l’uomo nella sua maturità. Non si
manifestano qui la infantilità e la mostruosità degli Egizi e dei Goti, ma lo
spirito e la forma dell’uomo. Gli Ateniesi si persero meno degli altri negli
eccessi del sensibile e del sovrasensibile. I loro dèi rimangono più degli
altri nel centro ammirevole dell’umanità (…) Dalla bellezza spirituale degli
Ateniesi derivò necessariamente il loro senso della libertà. L’egizio sopporta
senza dolore il dispotismo dell’arbitrio, il figlio del Nord sopporta senza
avversione il dispotismo della legge, l’ngiustizia sotto la forma del diritto
(…) l’ateniese non può tollerare l’arbitrio perché la sua natura divina non
vuole essere turbata, non può tollerare la legalità in ogni caso, perché non in
ogni caso ne ha bisogno. Egli vuole essere trattato con dolcezza e in questo ha
ragione” (p. 99 trad, it. guanda, Milano, 1981)
Torniamo a
Wilamowitz secondo Cacciari: “La conoscenza della glossa è per
lui integralmente al servizio della comprensione del logos, e
questo linguaggio si incarna, prende voce nelle grandi opere
dell’arte e dells filosofia. La filologia è chiamata a interpretarne il
significato in tutta la varietàdelle forme che lo esprimono. Basti pensare al
primo, fondamentale lavoro di Wlamowitz, il commento all’Eracle di
Euripide (1889), dove critica testuale, mitologia, storia politica, storia
della religione, storia letteraria si integrano nella volontà di rappresentare,
anche a proposito di un singolo testo, l’universalità, il Vollbild di
una civiltà (…) Conoscere è rinascere nel conosciuto, e dunque riformarlo nel
presente, presentarlo al presente come la forma possibile del su stesso
avvenire!” (p. 11)
Il “Noi,
filologi” di Nietzsche afferma idee che non sono
tanto lontane e dissonanti da queste. “Anche per Nietzsche la filologia ha
senso solo se mossa dall’istanza “di far rivivere le opere antiche secondo la
loro anima”; e aggiunge: “solo per il fatto che noi diamo lpro la nostra anima,
esse continuano a poter vivere: solo il nostro sangue fa che
esse ci parlino” (Umano troppo umano, II, 126)”
Nietzsche
non ha lesinato il proprio sangue “Anch’io sono stato agli inferi,
come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte, e non solo montoni ho sacrificato
per poter parlare con i morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue”.
Nietzsche menziona 4 coppie: Epicuro e Montaigne, Goethe e Spinoza, Platone e
Rousseau, Pascal e Schopenhauer. “ Qualunque cosa io dica, decida,
escogiti per me e per gli altri, su questi otto fisso gli occhi e vedo i loro
fissi su di me. Vogliano i vivi perdonarmi se essi talvolta mi
sembrano delle ombre, così sbiaditi e aduggiati, mentre quelli allora mi
sembrano così vivi, come se ora, dopo la morte, non potessro più stancarsi
della vita. Ma è l’eterna vitalità che conta!”[13].
“Col
nostro Herzblut, col sangue dei nostri cuori, ripeterà
Wilamowitz nelle tarde Memorie-senza sapere di citare sia Nietzsche sia Aby
Warburg! (…) Il metodo di tale studio può anche differire radicalmente , non il
suo fine. Per Wilamowitz quella di Nietzsche non è filologia, e tuttavia egli
ne esprime l’ideale esattamente come avrebbe fatto Nietzsche”
Si può
replicare che per Nietzsche quella dei Wilamowitz non è filosofia:
“La storia
della filologia è la storia di un genere di persone diligenti, ma senza
talento. Di qui l’assurda ostilità e la posteriore sopravvalutazione verso alcune
nature più acute e più ricche che sono andate a finire tra i filologi”[14]
“L’antichità
è stata scoperta in tutte le cose principali da artisti, uomini politici e
filosofi, non da filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[15].
“I filologi
non sono se non liceali invecchiati”[16].
Del resto è
un’approvazione di almeno un aspetto del metodo filologico dei filologi che
apre questa sezione: “La filologia è l’arte di imparare e di insegnare a
leggere in un’epoca nella quale si legge troppo. Solo il filologo legge
lentamente e riflette mezz’ora su sei righe. Non il suo risultato, ma questa
sua abitudine è il suo metodo”[17]
“Il nostro assurdo
mondo di educatori (dominato dallo schema regolativo di “un utile servitore
dello Stato”) crede di cavarsela con l’ “istruzione”, con l’ammaestramento del
cervello; non gli viene neanche in mente l’idea che occorra dapprima qualcos’altro- educazione
della forza di volontà; si fanno esami su tutto, ma non sull’essenziale: se
si sappia volere, se si possa promettere; il giovane finisce
gli studi senza neanche nutrire un dubbio, una curiosità per questo massimo
problema di valore della sua natura”[18].
Comunque “
soprattutto affine è la volontà di far rivivere l’opera classica, la sua eterna
vitalità (Umano troppo umano, II, 408), in lotta contro
l’assenza di forma, di misura, il Mablose semibarbaro contemporaneo (…)
è essenziale comprendere come l’incolmabile differenza filosofica tra le due
prospettive abbia pure un fondamento filologico. Esse intendono in
una chiave opposta la tragedia (…) Per l’Humanismus la
tragedia entra ‘armoniosamente’ nell’idea classica di paidea; il suo è il
Dioniso della polis, pacificato nell’ambito della comunità, la quale sembra
averne dimenticato la tremenda minaccia o illudersi di averla per sempre
superata. Un Dioniso che Platone (…) ha guarito da ogni spaesante dismisura”
(p. 12). Non così Agave e Cadmo nelle Baccanti di Euripide.
“La
centralità dell’idea di katastrophé, il dissidio tra eleos e phobos,
l’equivocità stessa di tali termini, o la loro intraducibiliìtà, su cui già
Lessing aveva insistito, e quella tra essi e l’idea, altrettanto ardua da
decifrare, di catarsi, sono elementi che l’orthós lógos della
scienza wilamowitziana tende costitutivamente a rimuovere” In nota
Cacciari riferisce la “definizione wilamowitziana della tragedia: “Un episodio
della leggenda degli eroi, in sé concluso, poeticamente elaborato in uno stile
elevato, in vista della rappresentazione a opera di un coro di cittadini attici
e di due o tre attori al massimo, destinato a essere messo in scena nel
santuario di Dioniso come parte di una cerimonia religiosa pubblica”
A me pare
riduttiva assai se non addirittura fuorviante questa definizione.
Il filologo
‘classicista’ pretende di possedere l’esatta traduzione delle parole e degli
elementi della tragedia menzionati sopra.
“ Al
ontrario, una vera ‘filologia’ nietzschiana impone di considerarne proprio la
complessità come l’essenza della tragedia-essenza che, a sua volta, potrà
essere compresa soltanto da una filosofia del Tragico. Il grande Humanismus a
cavallo del secolo non concepisce, invece, questo nesso, come il presupposto di
ogni vivente filoilogia. L’immagine dell’uomo che la sua
scienza configura non è tragica, e perciò essa neppure può riuscire
a esprimere la tragicità dell’attuale crisi. Si troverà allora costretta a
combatterla solo in termini conservatori o reazionari, e cioè impotentemente”
(p. 13)
Allora
accade che sull’Umanesimo “si proiettano lo spirito conservatore, la visione
essenzialmente antitragica, l’ideale di una paideia totalizzante-armonica,
che costituiscono anima e anelito dell’Humanismus”
Cacciari
sostiene che “il Mann delle Considerazioni di un impolitico dove
si condanna ‘l’estetismo’ rinascimentale e si considera ‘umanista’ il
“letterato della Zivilisation” non viene nemmeno sfiorato dal fatto che il
rapporto tra filosofia e filologia possa delinearsi almeno in alcuni autori in
modo profondamente diverso nell’Humanismus rispetto all’Umanesimo.
Su questo sono d’accordo. Lo sono meno su quanto l’autore aggiunge
in una nota
(23 a p. 13): “Anche negli scritti che intenderanno costtiuire un
“autosuperamento” delle Considerazioni, Mann continuerà a concepire
l’ ‘umanista’ come incapace di comprendere tragedie e contraddizioni del
presente”.
Questoa
parer mio si può dire fino a un certo punto del Settembrini di La
Montagna incantata, ma non lo direi a proposito dell’io narrante
del Doctor Faustus Serenus Zeitblom il cui umanesimo mi sembra
contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata.
Ma posso
sbagliarmi e mi piacerebbe discuterne con l’autore.
Per
l’Heidegger della famosa Lettera sull’Umanismo “ il problema dell’Umanesimo è
esattamente quello che tormenta i grandi filologi suoi contemporanei, tutti
nati contrsa Nietzsche: come ‘salvare’ l’uomo al centro, Soggetto capace di
porre in-forma la propria volontà e di ordinare al proprio
servizio ogni essente. Più precisamente Heidegger (…) accomuna Humanismus e
Umanesimo in quanto concezioni del linguaggio come strumento della volontà di
ptenza , a partire dall’-ismo che caratterizzerebbe entrambi , e
che di nuovo, fisserebbe la dignitas dell’uomo come ‘titolo’ della sua
padronanza sull’essente, cancellando finitezza e temporalità dell’esserci” (p.
14)
Di Heidegger
ho letto solo il commento al primo stasimo dell’Antigone di Sofocle
che si trova nella Introduzione alla Metafisica .
Riferisco i
primi due versi di questo celebre canto corale con il commento.
L’uomo è
visto come problema.
vv. 332-333:"Molte sono
le cose inquietanti e nessuna/è più inquietante dell'uomo".-ta; deina;: ho
tradotto come suggerisce Heidegger in Introduzione
alla metafisica nella traduzione della Mursia:"Noi
concepiamo l'in-quietante (das Un-heimliche ) come
quello che estromette dalla "tranquillità", ovverosia dal nostro
elemento, dall'abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa".
Ora,
l'uomo è in un primo senso deinovn in quanto, appartenendo per
essenza all'essere, risulta esposto a questo predominante. Ma l'uomo è in pari
tempo deinovn perché è colui che esercita la violenza…egli
è deinovn nel duplice
senso, originariamente unico di questa parola; egli è to; deinovtaton, il più violento, in quanto
esercita la violenza in seno al predominante. Abbiamo già detto come questo
termine sia frequente all'inizio dell'Apologia di Socrate scritta
da Platone per designare il vecchio maestro seduttore, provocatore ed eversivo
nei confronti dei luoghi comuni.
Più prosaico
è Aristofane: il coro degli Uccelli definisce qualifica l’uomo
come ingannevole: “dolero;n me;n ajei; kata; pavnta dh; trovpon-pevfuken
a[nqrwpo~”(vv.451-452),
ingannevole creatura sempre e in ogni modo è per natura l’uomo.
-koujde;n: crasi
di kai; oujde;n.-deinovteron pevlei=ejstiv. Citiamo ancora Heidegger:"L'uomo è, in una
parola, to; deinovtaton: ciò che vi è di più inquietante (das
Unheim-lichste). Un modo siffatto di parlare dell'uomo lo coglie nei suoi
estremi limiti e nelle scoscese profondità del suo essere"[19].
Sentiamo
anche V. Ehrenberg:"l'inno
inizia con lo squillo: polla; ta; deinav, e in tal modo si rifà chiaramente al polla; me;n ga'
trevfei deinav, di
Eschilo, che pure è il verso iniziale di un canto del coro (Coefore ,
v. 585)[20].
Tuttavia Eschilo paragona soltanto gli orrori della terra con l'orrore degli
umani delitti, laddove in Sofocle ta; deinav diventano l'oggetto e
l'essenza dell'umano potere e dell'umana signoria. Il termine deinov" ha più significati (possente,
terribile, orroroso, orribile), ma l'inno esprime l'immensa ammirazione per la
vittoria dell'uomo sulla natura: sulla terra e sul mare e sugli animali. Questo
potere non fu conferito all'uomo dagli dei o da un Prometeo benevolo; l'uomo lo
ha conquistato da sé, basandosi unicamente sulle proprie forze"[21].
Infine J.
P. Vernant:"Alla luce
di questa drammaturgia, l'uomo non appare delineato come una natura stabile, un
essere che si potrebbe delineare e definire, ma come un problema; assume la
forma di un'interrogazione, di una serie di domande. Creatura ambigua,
enigmatica, sconcertante, al tempo stesso agente e agito, colpevole e
innocente, libero e schiavo, destinato per la sua intelligenza a dominare
l'universo e incapace di dominare se stesso, l'essere umano, unendo in sé il
meglio e il peggio, può essere qualificato come un deinos ,
nei due sensi del termine: meraviglioso e mostruoso"[22].
Insomma
l'uomo, deinov" , è meraviglioso e terribile, esaltante e pure
capace delle peggiori atrocità.
Mi scuso per
l’autocitazione e torno a Cacciari.
La filologia
che non giunge a porsi il problema dell’essenza del linguaggio come custode
dell’essere, riducendolo a mezzo, strumento, fattore del Gestell,
del sistema tecnico-scientifico non è per niente filosofica. “Alle riserve
e critiche di chi non riconosce rilevanza filosofica all’Umanesimo (e un valore
filologico solo parziale) si accompagnano perciò quelle propriamente
teoretiche, di coloro che, accomunandolo nella sostanza all’idea di Kultur,
bandiera dell’Humanismus contemporaneo, ne contestano proprio la
filosofia del linguaggio (asse portante., invece, come cercheremo di
dimostrare, dei momenti più alti del suo pensiero)”.
Tali critiche
non sono state ancora messe alla prova
“A questa
prova non si intende qui contribuire che attraverso alcuni ‘sondaggi’,
concentrando l’attenzione sugli autori e i problemi- chiave”.
Fine del
capitolo primo
gianni
[4] Iciarco: vuol dire supremo
omo e primario principe della famiglia sua", libro III), e sono
formate da oîkos o oikía "casa,
famiglia" e arkhós "capo supremo, principe,
principio".
p. 23).
[20] Molte creature tremende
nutre/ la terra, flagelli di terrori,/e gli abbracci marini sono pieni/di
mostri infesti ai mortali"(vv. 585-588). Sono versi del I stasimo. Poi
germogliano fiamme sospese nel mezzo e alte nel cielo, uccelli e animali
terrestri che potrebbero parlare della collera rapida delle tempeste.. Ma chi
può dire della mente dell’uomo troppo audace (uJpevrtolmon
ajndro;" frovnhma) e delle
donne sfrontate nel cuore gli amori pronti a ogni audacia, associati agli
accecamenti dei mortali?
Vince gli
aggiogati dell’unuione di belve e di uomini l’amore non amore che domina la
donna (qhlukrath;" ajpevrwto" e[rw" paranila'/, 600)
Nessun commento:
Posta un commento