John Singer Sargent, Ellen Terry as Lady MacBeth |
Studio comparativo:
Euripide, Seneca e altri
autori su Ippolito il giovane ostile alle donne e all’amore
Prima parte parte dell conferenza che terrò il 20 febbraio nel liceo Filateco di Ferentino
Ippolito di Seneca e Orazio. Lady Macbeth. La
contaminazione indelebile
Nella Fedra di Seneca Ippolito,
sentendosi contaminato dalla matrigna, dice:" quis eluet me Tanais aut quae barbaris/Maeotis
undis pontico incumbens mari?/Non ipse toto magnus Oceano pater tantum expiarit
sceleris, o silvae, o ferae! " (vv.715-718), quale Tanai mi
laverà o quale Meotide che con le barbare onde preme sul mare pontico? Nemmeno
il grande padre con tutto l'Oceano potrebbe purificare un delitto così enorme.
O foreste, o fiere!
Lady Macbeth in un primo momento afferma che poca acqua basterà a pulire le
mani lordate dal misfatto:"A little water clears us of this deed "
(Macbeth, II, 2) leggiamo nella tragedia di Shakespeare[1].
Più avanti la stessa donna che, aizzando il marito al tradimento e al
delitto, era sembrata tanto salda, resa malata dal crimine sospira: “All the
perfumes of Arabia will not sweeten this little hand", tutti i balsami
d'Arabia non basteranno a profumare questa piccola mano (V,1).
Orazio, pur augusteo , pur amico di Virgilio, sa bene che la
castità e l'amicizia della dea casta non bastarono a salvare Ippolito dalla
morte: "Infernis neque enim tenebris Diana pudīcum/liberat Hippolytum "
(Carm[2].
IV, 7, 25-26), infatti dalle tenebre sotterranee Diana non libera Ippolito
casto.
La potenza
di Afrodite nell’Ippolito di Euripide, in Sofocle, Orazio e
Properzio
Afrodite è la divinità del pantheon greco
più diffusa. “La sua universalità in Grecia è adeguatamente
descritta da lei stessa nei versi iniziali del prologo dell’Ippolito di
Euripide (vv. 1-8).
Zeus può avere santuari più pretenziosi-vengono
in mente Olimpia o Dodona, al pari dei templi e dei santuari di Apollo-ma per
la totale partecipazione popolare, attraverso rappresentazioni scultoree e
pittoriche in templi che offrivano la performance rituale dell’atto sessuale… nessuna
divinità era sua pari in Ellade”[3].
Ecco come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio dell’Ippolito:
“Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk
ajnwvnumo" - qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1-2), grande e non oscura
dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.
Nel primo episodio la nutrice di Fedra le attribuisce una forza d'urto
ineluttabile:" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n h]n pollh; rJuh'/" (v.
443 rJevw, aor III passivo intransitivo ejrruvhn ), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa (scorre) con
tutta la forza.
Ella si accosta- metevrcetai - con mitezza -
hjsuch'/ - a chi cede to;n ei[konq j-, ma fa strazio di chi trovi altero e arrogante (444-445).
Va su e giù per l’etere ed è nel flutto marino Cipride, tutto nasce da lei:
è lei che semina e dona l’amore, dal quale tutti siamo nati.
-foita'/ d j ajn j aijqevr, e[sti d j ejn qalassivw/-kluvdwni Kuvpri",
pavnta d j ejk tauvth" e[fu: - h{d j ejsti;n hJ speivrousa kai; didou's j
e[ron,- ou| pavnte" ejsme;n oiJ kata; cqon j e[ggonoi (447-450)
Cipride dell’Ippolito (Dodds)
“The Kypris of the Hippolytus is none other than the Venus Genetrix of
Lucretius, the Life Force of Schopenhauer, the élan vital of Begson: a force
unthinking, unpityng, but divīne. Opposed to her, as the negative to the
positive pole of the magnet, stands Artemis, the principle of aloofness, -distacco-of refusal, ultimately of death. Between these two poles
swings-oscilla- the dark and changeful life of Man, the plaything
which they exalt for a moment by their companinship, and drop so easily when it
is broken: makra;n de; leivpei~ rJa/divw~
oJmilivan[4] says Hippolytus bitterly”[5], La Cipride dell’Ippolito non è altro che la Venere Genitrice di
Lucrezio, la Forza della Vita di Schopenhauer, lo slancio vitale di Bergson:
una forza che non pensa, non sente pietà, ma divina. Opposta ad essa, come il polo
negativo a quello positivo del magnete, sta Artemide, il principio della
freddezza, del rifiuto, e in definitiva della morte. Tra questi due poli
oscilla la scura e cangiante vita dell’Uomo, il giocattolo che essi innalzano
per un momento con la loro amicizia, e poi cade così facilmente quando è rotto:
Tu lasci facilmente la nostra lunga compagnia, dice Ippolito amaramente.
E' la Venere tota ruens – che si precipita - dell'Ode I
19 per Glycĕra di Orazio.
Anche in Orazio c'è il mal d'amore:
vediamo l'Ode I, 19
per Glycĕra.
Nella terza strofe successiva
l'innamoramento è visto come un assalto subìto: "in me tota ruens
Venus/Cyprum deseruit nec patitur Scythas/et versis animosum equis/Parthum
dicere nec quae nihil attinent " (vv. 9-12), Venere lanciandosi
tutta contro di me ha lasciato Cipro, e non permette che io canti gli Sciti e
il Parto audace sui cavalli girati né ciò che non la riguarda.
Venere tota ruens è come
Cipride nell'Ippolito citato sopra (v. 443) e come Eros dell'Antigone che è invincibile in battaglia -[ Erw"
ajnivkate mavcan - e si
abbatte su quello che trova (terzo stasimo vv. 781-801).
La potenza di Cipride viene
celebrata anche all'inizio della Parodo delle Trachinie di
Sofocle: "mevga ti sqevno" aJ Kuvpri" ejkfevretai - nivka" ajeiv" (vv. 497-498), Cipride porta
con sé una grande potenza, sempre vittorie.
Seguirà Properzio: "Illa
potest magnas hērōum infringere vires,/illa etiam duris mentibus esse
dolor " (I, 14, 17-18), quella dea può spezzare grandi
forze di eroi, ella può costituire un dolore anche per i cuori duri.
Antifemminismo di alcuni personaggi tragici.
Eteocle, ippolito, Giasone
Replica della Medea di Euripide.
Antifonte sofista e la gara dura del matrimonio. La mentalità agonistica
dei Greci
La fantasia contro natura di fare figli senza le donne
Antifemminismo di Eteocle superato da quello di
Ippolito
Nei Sette a Tebe di
Eschilo, Eteocle inveisce contro il Coro di ragazze: "vai in malora, non sopporterai queste
difficoltà tacendo?" (v.252), e, poco più avanti, (v.256): "o Zeus, quale dono ci hai concesso, con la
razza delle donne!".
Del resto, in confronto all’Ippolito di Euripide, l'Eteocle di Eschilo è un
moderato. Infatti, quando, dopo l'ennesima richiesta di silenzio: "taci,
disgraziata, non spaventare gli amici" (Sette a Tebe, v.262),
la corifea glielo promette ("taccio: con gli altri sopporterò il
destino", v. 263), il re e difensore di Tebe risponde placato:
"io preferisco da te questa parola piuttosto che quelle di prima./Inoltre,
stando lontana dalle statue,/rivolgi agli dèi la preghiera migliore: che ci
siano alleati"(264-266).
Sul tema della dote donata dal padre della sposa scrive dei versi Euripide nell'Ippolito (del 428)
durante l'invettiva del figlio di Teseo contro le femmine umane. Il ragazzo
sdegnato con la matrigna e con tutto il "popolo nemico"[6] delle donne, individua un
segno del fatto che la donna è un gran male (kakovn mevga, v. 627) nell'uso della dote: il padre che l'ha generata e allevata, aggiungendo beni dotali (fernav") la sistema in un'altra
casa al fine di liberarsi da un male (wJ"
ajpallacqh'/ kakou, v. 629). Del resto poi quel virgulto pernicioso, quell'idolo maligno
si farà adornare di gioielli dal marito infatuato.
La replica di Medea
Ma ben diverso è il punto di vista della barbara donna abbandonata da
Giasone
Fra tutti gli esseri, quanti sono vivi e hanno raziocinio 230,
noi donne siamo la creatura più tribolata – ajqliwvtaton - :
noi che innanzitutto dobbiamo comprare un marito
con gran dispendio di ricchezze, e prenderlo come
padrone
del corpo, e questo è un
male ancora più doloroso del male.
E in questo sta la gara massima
- ajgw;n mevgisto" - , prenderlo cattivo 235
o buono. Infatti non danno
buona fama le separazioni
alle donne, e non è possibile ripudiare lo sposo.
Quella poi giunta tra nuovi costumi e leggi,
bisogna che sia un'indovina, se non ha appreso da casa
con quale atteggiamento tratterà nel
modo più appropriato il marito. 240
E se con noi che ci affatichiamo in questo con successo,
il coniuge convive, sopportando il giogo non per forza,
la vita è invidiabile; se no, bisogna morire.
Un uomo poi , quando gli pesa stare insieme a
quelli di casa,
uscito fuori, depone la noia dal cuore 245
(volgendosi a un amico o a un coetaneo);
per noi al contrario è necessario mirare su una
sola persona.
Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli
in casa, mentre loro combattono con la
lancia,
pensando male: poiché io tre volte accanto
a uno scudo
preferirei stare che partorire una volta
sola “. (Medea, vv. 230-251) 251
Nella Lisistrata di
Aristofane, l’ateniese Cleonice ribatte calephv toi
gunaikw'n e[xodo" (16) è
difficile per noi donne uscire. Infatti, spiega, una di noi deve stare china
sul marito, l'altra deve svegliare lo schiavo, l'altra mettere a letto il
bambino, l’altra lavarlo, l'altra imboccarlo (vv. 17-20).
La gara dura del matrimonio e la mentalità
agonistica dei Greci
Interessante al 235 della tragedia Medea è l'espressione-ajgw;n mevgisto": (gara massima) che ribadisce il
significato etimologico di ajqliwvtaton (v. 231).
Nell'Antigone di Sofocle il matrimonio è un grande travaglio
che ostacola le altre relazioni e addirittura gli affetti tra i consanguinei;
comunque è sempre una gara dura per gli esseri umani.
Antifonte sofista (V sec.)
afferma che le nozze sono un grande agone in effetti: "mevga" ga;r ajgw;n gavmo" ajnqrwvpwn" [7].
"Il problema del matrimonio è che finisce tutte le notti dopo che si è
fatto l'amore, e bisogna tornare a ricostruirlo tutte le mattine prima della
colazione" sostiene il dottor Urbino, "il marito" di un romanzo
di Màrquez[8].
Nell’Elettra di Euripide il coro sentenzia: “tuvch gunaikw'n ej~ gavmou~” (v. 1100), (vario è) il caso delle donne nelle nozze: vedo che alcuni
eventi dei mortali vanno bene, altri cadono non bene
Più avanti, mentre prepara la rovina dei suoi nemici, Medea definisce ajgw'ne" i cimenti, e i tormenti, che attendono "gli sposi novelli" (Medea,
v. 366.)
I Greci avevano un atteggiamento agonistico in ogni situazione della vita,
come si sa, ma questa fantastica donna oltraggiata afferma che la gara più dura
è il matrimonio.
CONTINUA
[1] Una battuta che
nel libretto di Piave del
melodramma musicato da Verdi diventa:" Ve' le mani ho lorde anch'io; poco
spruzzo e monde son" (Macbeth, I atto).
[2] I primi tre libri delle Odi di
Orazio furono composti fra il 30 e il 23 a. C.; il quarto uscì dopo il 13 a. C.
Orazio muore nell'8 a. C.
[6]Cfr. C. Pavese:"Sono un popolo
nemico, le donne, come il popolo tedesco. Il mestiere di vivere ,
9 settembre, 1946.
Filosofo e matematico (metà del 5°
sec. a.C.), contemporaneo dell’oratore omonimo con cui fu spesso confuso.
Scrisse opere di carattere morale (Sulla verità, in polemica con Protagora; Sulla concordia; Sull’interpretazione dei sogni; Il politico): ne restano frammenti, di cui due
notevolissimi, scoperti recentemente su papiro. A. difendeva la tesi dell’uguaglianza degli uomini per natura, della
prevalenza del diritto naturale, affermando che le leggi dello Stato sono non
solo frutto di convenzione, ma intimamente contraddittorie, limitandosi
ad arrecare un eventuale danno a chi le trasgredisce, ma nessun vantaggio a chi
scrupolosamente le osserva. Nei Memorabili di Senofonte, A. è introdotto
a disputare con Socrate.
Nessun commento:
Posta un commento