Premessa
Una
volta, tanti anni fa, un collega omosessuale mi invitò a cena in
casa sua e mi corteggiò. Gli risposi che andavo matto per le donne.
Colui cominciò a deprecare la repellenza delle mestruazioni: come
potevano piacermi? Avrei dovuto ripensarci.
Perché
racconto questo? Perché certo cristianesimo, lontanissimo da Cristo
che salvò la vita all'adultera con parole davvero sante, ha
predicato e suggerito per secoli l' aborrimento nei confronti del
sesso e della donna.
Faccio
un solo esempio tratto dal Secretum di Petrarca dove
"Santo" Agostino dice a Francesco: "cogita quid est
quod tam ardenter expetis (...) Pauci enim sunt qui, ex quo semel
virus illud illecebrose voluptatis imbiberint, feminei corporis
feditatem de qua loquor, sat viriliter, ne dicam satis constanter,
examinent (III, 70). Qui a Bologna ho avuto fama di
donnaiolo e di comunista: per questi motivi sono stato non famoso
bensì malfamato. Senza del resto che me ne sia mai sentito offeso,
anzi.
Comunista
infatti per me significa non egoista, e amare le donne vuole dire
amare la vita vivente su questa terra.
Per
quanto riguarda i sedicenti cristiani, di fatto Anticristi, Papa
Francesco sta rimediando a secoli di orrori persecutori e ritrovando
il ruolo di Vicario di Cristo.
L’amore
con le mestruazioni
Mercoledì
6 giugno la terra era ancora fiorita e odorosa come la mia
bella compagna, sebbene la vegetale materia dei fiori
cominciasse a illanguidirsi nell’aria canicolare, bianchiccia, e
tutti i profumi, incendiati dal caldo violento del meriggio estivo,
tendessero a degenerare in un alito acre, denso, quasi eccitante, e,
nello stesso tempo, angoscioso.
Il
grano maturo, muovendosi con fatica nell’afa dolciastra, sembrava
aspettare la falce che gli avrebbe tagliato le spighe, e l’aratro
che avrebbe maciullato i gambi tra i solchi, come succede
sempre con il declinare dei mesi più belli e luminosi, perché la
successiva putredine diventi vitale e torni a generare la vita.
Cominciammo
a scendere per la solitudine di un pendio del tutto deserto di
essere umani ma brulicante di insetti, sonoro di versi trillanti di
uccelli, del gorgogliare di rane lontane, nascoste nelle poche
pozze rimaste a corto di acqua. Dagli alberi veniva il grande
frastuono di grigie cicale che, pazze di sole [1],
strepitavano strane preghiere al dio onnipotente.
L’erba
alta ci rendeva difficile camminare abbracciati giù per la ripida
china, sicché ci fermammo a metà del colle dove c’era una casa
colonica abbandonata che ci offrì la spianata dell’aia deserta.
Ci
fermammo a osservare il luogo dove volevamo restare, forse anche fare
l’amore. Nel calore potente di quel meriggio in cui sembrava
culminare anzitempo l’estate, il cielo era quasi canuto per l’afa,
il verde dell’erba stava trascolorando nel giallo, i papaveri erano
stinti e afflosciati, il grano era albino piuttosto che biondo. I
profumi, invece, erano tutti esaltati e salivano su dalla terra
bruciando, clamorosi e invadenti come le voci degli animali che
preannunciavano l’olocausto odoroso del mondo nell’ardore della
canicola.
“Ricordi?”
domandò Ifigenia, “Ricordi quando in autunno la bruma scoloriva il
sole, ammutoliva gli uccelli, uccideva o faceva fuggire gli insetti,
e tu esitavi a darmi la mano? Ora che ci fidiamo a vicenda, e siamo
quasi svestiti, possiamo congiungerci come vogliamo. Io ne sento la
voglia. L’attrazione e la fiducia mi uniscono a te con nodi
inestricabili”.
Pensai
a quello non risolvibile di Gordio che purtuttavia venne annientato
con un colpo di spada, poi guardai il sole che stava riducendo le
ombre a scogli bruni nel mare di luce.
“Dai
facciamo l’amore” dissi “Ne ho tanta voglia anche io. Ti prego,
ti prego, ti prego”, aggiunsi, parodiando le sue preghiere
mimetiche di una malizia giovanile e, nello stesso tempo, imperiosa.
“Sì,
ma facciamolo in piedi, come non l’abbiamo fatto mai ancora,
una vergogna per due come noi! ” propose tutta contenta Ifigenia.
La stuzzicava la novità della postura e la spaventava il pensiero di
stendere la schiena morbida, liscia, quasi a contatto con le
scabrosità del terreno riarso, dal quale i nostri indumenti leggeri,
minuti, potevano costituire un diaframma assai inefficace.
Oltretutto
Ifigenia aveva le mestruazioni. Si levò i calzoncini, poi, come
sempre quando aveva il flusso, mi chiese di non guardarla mentre si
toglieva ogni altro impedimento a fare l’amore. Girai il viso in
alto, verso il primo fra tutti gli dèi[2] che
era arrivato a infuocare completamente anche l’aia semi-infossata
dove eravamo lontani da umane presenze, da altre case, da strade.
Doveva essere il tócco[3]:
l’ora dei raggi più dritti e potenti. Mentre li contemplavo,
aspettando che Ifigenia mi permettesse di rivolgerle ancora lo
sguardo, mi venne in mente il tramonto del 28 ottobre dell’anno
prima, quando la splendidissima ventiquattrenne, la ragazza supplente
conosciuta da poco, mi aveva chiesto di non guardarla finché si
cambiava la maglietta sudata e io avevo visto il suo petto fiorente
riflettersi nel pallido sole rosaceo, accrescendone luce e calore. Il
6 giugno invece, pensando a quel giorno lontano e alle sue
mestruazioni presenti, vidi la fiamma che nutre la vita striarsi di
gocce scarlatte che, percorsa la sfera infuocata, si adunavano
intorno al bordo inferiore e lo orlavano con uno strano ricamo di
luce liquida, ardente, pronta a stillare sul suolo terrestre per
rigenerarne la vita.
Ifigenia
mi distolse dalla visione estatica. “Vieni Gianni, facciamo
l’amore”. Fu assai faticoso. Così, senza sdraiarci, non
l’avevamo proprio mai fatto. Dopo, eravamo più esausti che
soddisfatti. Mi scostai un poco e sedetti sulla terra bruciata.
Ifigenia rimase in piedi con le belle gambe divaricate davanti ai
miei occhi: era seria, muta, e mi guardava con l’espressione del
desiderio non appagato. Quindi disse: “alzati. Facciamolo ancora”.
“Aspetta
un momento” risposi, “rimani così come stai ora. Voglio
guardarti”. Mi interessava osservare quello stranissimo aspetto
della vita trionfante, una sembianza che forse non avrei visto mai
più: l’immagine di una donna giovane assai, nuda, bella come
un’opera d’arte, una statua viva, illuminata dal sole di giugno
mentre il sangue mensile le scorreva giù per le cosce.
Guardavo
ora i suoi occhi fissi nei miei, ora le gambe un poco aperte davanti
al mio volto. Il sangue colava verso le ginocchia in rivoli
ostacolati dal sole rovente che, disseccando parte del liquido, ne
frenava la corsa in discesa lungo il pur ripido e liscio pendio. La
coscia sinistra era percorsa da due rigagnoli rossi, la destra da
uno. Quel sangue, fluente non senza fatica, mi fece pensare:
“Ifigenia nelle belle membra non si discosta troppo dalla madre
mia, da mia sorella e da me: se fosse mia figlia, e tra noi ci fosse
un legame di sangue, saremmo incestuosi ma sicuri per il vincolo
eterno”. Le volli comunicare il pensiero che, ne ero sicuro, le
sarebbe piaciuto.
“Tesoro,
ti piacerebbe se fossi davvero il padre tuo?” Di fatto era appena
possibile, poiché Ifigenia aveva una decina di anni meno di me, però
a volte ci presentavamo, per gioco, come parenti di vario grado. Io
potevo esserle quasi padre, o più plausibilmente zio, o cugino, o
fratello maggiore e così via.
“Sì,
Gianni”. Rispose. “Sì, mi piacerebbe tanto. Adesso però
facciamo l’amore”.
Continuava
a fissarmi senza dire altro, come se fosse davvero una
statua immobile e senza pensiero. Le abbracciai la coscia sinistra. I
due rivoli bagnarono la guancia mia destra senza contaminarla, anzi
purificandola: sentivo di amare quella creatura mirabile come amo la
giovinezza, la natura, la vita; come amo i ricordi della mia
adolescenza; come amo mia madre, come amo il mare di Pesaro dove
entro di giorno e di notte perché mi fido di lui; come amo Moena con
i monti antropomorfi cui parlavo quando ero bambino senza altri
amici, ed essi, per loro umanità mi rispondevano, un’umanità che
più avanti non ho trovato in tanti altri dall’aspetto umano; come
amo il Ghisallo e lo Stelvio, o il Taigeto, o il Parnaso e l’Olimpo
quando li scalo con la bicicletta; come amo il grande bosco di
Debrecen, quando nelle notti serene di luglio e di agosto, when
the living is easy, così cantava la dolce, forte, matura
Elena, lo attraversavo guardando il cielo stellato e la luna che
appariva e spariva tra gli alberi antichi, e io sorridevo di
gioia per la stupefacente bellezza di questo creato mirabile dove
avevo la buona ventura di vivere amando, riamato dalla donna bella
che era con me. Elena, Kaisa, Päivi.
Mi
scostai per guardare di nuovo Ifigenia, il dono più recente, il
regalo nuovissimo che la sorte benigna, generosa, mi aveva elargito.
I
rivoletti sanguigni, ostruiti e schiacciati dalla mia faccia,
avevano formato una macchia: un piccolo lago vermiglio, appiccicoso,
incollato a una parete di carne. Una composizione nuova della daedala
tellus[4],
artistica madre natura.
Si
sentivano sempre stridere le cicale pazze, gorgogliare le rane da
stagni remoti, trillare gli uccelli con voci e voli che sembravano di
ottimo auspicio.
Non
è che i volatili conoscano il futuro, ma i loro canti e voli
sono guidati da dio e c’è un disegno della provvidenza persino nel
cinguettare di un passero[5].
Mentre
la contemplavo, la ragazza, la figlia adottata, diventava la
grande madre natura. I suoi capelli violacei erano foreste fitte,
dense di ombre; gli occhi neri, due laghi montani cupi
di misteri indecifrabili nel centro profondo,
circondati da rive bianche, orlati da alberi scuri; i seni erano
colline dalle cime appuntite; il crine pubico stillante quel
liquido rosso era un cespuglio di lamponi maturi spremuti lì sulla
pianta da mani pie di sacerdoti santi, intenti a libarli agli dèi.
Lo stomaco teso della divina creatura era una distesa marina quando
il calore meridiano senza vento spiana e addormenta la superficie
lucente; la schiena abbronzata dove cadevano i folti capelli era una
valle ombreggiata da grandi foreste; le braccia, promontori di terra
protesa verso di me per salvarmi dai ricorrenti naufragi.
Sentivo
che se fossi riuscito ad amarla , con gioia, senza riserve, avrei
amato nello stesso modo la vita del mondo e la stessa mia vita.
“Ti
amo” dissi dopo averla ammirata a lungo. “Vorrei esserti padre e
che questo sangue di cui mi hai asperso benedicendomi, scorresse
dentro di me”.
Non
rispose. Facemmo ancora l’amore, scomodamente, poi ci rivestimmo
con gli indumenti leggeri della stagione nuda e felice.
Mentre
risalivamo la china per tornare alla nera Volkswagen, disse che
voleva fuggire dalla casa del marito, un tanghero non più
sopportabile, e che se non l’avessi aiutata io, avrebbe accettato
l’offerta di un suo amico strambo, un ferroviere cuccettista che
l’aveva invitata in Provenza.
La
stolta minaccia mi diede l’angoscia. Io non sono incline a
prendermi alcuno in casa, poiché temo di perdere l’autonomia
conquistata a fatica, e quanto al matrimonio sono contrario perfino a
quello degli eterosessuali. Anzi, credo addirittura che, essendo le
nozze un atto contro natura, si confacciano più agli omosessuali che
a quelli come me.
Ma
non dissi questo, forse all’epoca nemmeno lo credevo. Ora è
politicamente scorretto, ma lo scrivo lo stesso.
Le
risposi, con giusta durezza: “Io mi sono impegnato ad aiutare i
miei allievi di terza liceo che Mortimer non è in grado di preparare
per l’esame di maturità. Tu fai come vuoi”.
E
pensai: “Elena tradiva il marito dal quale aspettava un bambino, ma
con me non è mai stata tanto importuna e sciocca”. Allora non
avevo la capacità di comprendere acquisita attraverso le sofferenze
e le gioie dei successivi decenni di vita
Intanto
era già pomeriggio e, sia pure di poco, cominciavano ad allungarsi
tutte le ombre.
gianni
[1] Cfr.
Aristofane, Uccelli,
1096.
[2] Nell'Edipo
re di
Sofocle il sole è" pavntwn
qew'n provmo" "(660),
il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta
bovskousan flovga "(v.
1425), la fiamma che nutre la vita. Solo uno empio e pazzo può
pensare che il Sole non sia un dio, o, per lo meno, l’immagine
visibile dell’Idea del Bene, ovvero di Dio, come insegna Platone.
Forse nei Greci c’è il ricordo e la ripresa dell’idea religiosa
del faraone “eretico” Amenophi IV.
[3] E’
un toscanismo per “l’una”. Lo uso per affetto verso mia madre
Luisa, le mie zie, Rina, Giulia, Giorga e mio nonno Carlo Martelli di
Borgo San Sapolcro. Il loro borgo natìo. E anche per nostalgia della
mia infanzia e adolescenza quando vivevo con loro, ancora tutti vivi.
C’era anche la cara nonna Margherita ma lei era nata a Pesaro dove
si viveva negli anni Cinquanta. Se amo tanto le donne, lo devo alle
donne di casa mia, e al caro nonno Carlo che mi ha lasciato anche
l’amore per il sole e per la bicicletta.
[4] Lucrezio, De
rerum natura,
I, 7
[5] Cfr.
Shakespeare, Hamlet V,
2 there’s
a special providence in the fall of a sparrow.
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