Leopardi |
Dalla conferenza Leopardi e gli Antichi, 15 aprile 2019, biblioteca Scandellara di Bologna
Leopardi
sottovaluta il dramma
Leopardi sostiene che il genere
drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre
generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione;
figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà
degli autori suoi, più ch per la essenza sua… Il dramma non è proprio delle
nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un
trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un
trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della
civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a
procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo.
Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e
pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera
nepote"(Zibaldone, 4235 - 4236).
Ancora: “Essa[1] è
cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura
poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli
altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess.
al drammat.) è cosa alienis. dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto
più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più
sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui,
d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà
lirico, tanto meno drammatico” (4357).
E più avanti: “Il romanzo, la
novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale
gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la
maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri
individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria
individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro”
(4367).
Mi sembra un grave difetto
d’incomprensione del pur grande e caro Recanatese.
Così si limita il valore anche
dell’epica e del romanzo e pure dell’elegia, e insomma tutte le opere
letterarie che hanno parti mimetiche (dialoghi) oltre le diegetiche
(narrative).
Platone nel III libro della Repubblica fa
dire a Socrate che c’è una poesia la quale si svolge διὰ μιμήσεως, per via mimetica. Questa è la
poesia drammatica, ossia la tragedia e la commedia; poi c’è la semplice
narrazione senza mimesi (ἄνευ μιήσεως ἁπλῆ διήγησις) (394a - b)
attraverso il racconto del poeta stesso, e si tratta dei ditirambi[2];
quindi l’epica che ha entrambi gli aspetti (δι᾽ ἀμφοτέρων) (394c).
La stessa
cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici
ateniesi.
Io dico perché la letteratura
ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica.
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con
ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno
abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi
ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto
i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più,
intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà
squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr. fiorì
principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che
la poesia al contrario. ec. (22. Sett. 1828)”[3].
Scrivere
per il popolo
Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la
prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche
letterarie, ed Erodoto scrisse la
sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che
quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove
l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici
si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie,
finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere
l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[4]. Si noti la contraddizione rispetto a
quando ha scritto sul genere drammatico
Ehrenberg
“Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui
giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una
festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso
pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari… Non scriveva per un
manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era
un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni,
le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli
loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto… questo
suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri… Se mai arte severa e
grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu
la tragedia attica”[5].
Un poco di
critica letteraria. Leopardi e altri
“L’Iliade oltre a essere
il più perfetto poema epico quanto al disegno, in contrario di quello che
generalmente si stima, lo è ancora quanto ai caratteri principali, perché
questi sono più interessanti che negli altri poemi. E perché sono più amabili.
E sono più amabili perché più conformi a natura, più umani, e meno perfetti che
negli altri poemi” (Zibaldone, 3613)
“Gli eroi dell’Iliade sono
grandi uomini secondo natura, gli eroi degli altri poemi epici sono grandi
secondo ragione; le qualità di quelli sono più materiali, esteriori,
appartenenti al corpo, sensibili; le qualità di questi sono tutte spirituali,
interiori, morali, proprie dell’animo”(3614)
“Queste considerazioni hanno tanto
maggiore forza in favore di Omero, e in favore della nostra opinione che vuol
che si segua il suo esempio, quanto che è natura della poesia il seguir la
natura, e vizio grandiss. e dannosiss. anzi distruttivo d’ogni buono effetto e
contraddittorio in lei, si è il preferire alla nat. la ragione. La mutata
qualità dell’idea dell’Eroe perfetto ne’ poemi posteriori all’Iliade proviene
da quello stesso principio che poi crescendo, ha reso la poesia allegorica, metafisica
ec. e corrottala del tutto, e resala non poesia, perché divenuta seguace
onninam. della ragione, il che non può stare con la sua vera essenza” (3614)
Insomma: "il realismo, in arte, è greco; l'allegorismo è
ebraico", ebbe a scrivere Pavese[6]. Questo vale per l’arte e la lettratura fino al V secolo a. C.
Sentiamo che cosa è il realismo dei Greci secondo Gilbert Murray:“Io
intendo per realismo un interesse permanente per la vita in se stessa, e
un’avversione per l’irrealtà e le false apparenze”[7].
Campione del realismo può essere considerato Tucidide che, proprio per
questo motivo, Nietzsche contrappone a Platone
Nel Crepuscolo degli idoli [8] lo storiografo greco è indicato addirittura come terapia contro “ogni
platonismo”: "Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia
contro ogni platonismo è sempre stato Tucidide. Tucidide e, forse,Il
Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta
volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà
- non nella "ragione", e tanto meno nella "morale"... In
lui la cultura dei sofisti , voglio dire la cultura
dei realisti giunge alla sua compiuta espressione : questo movimento
inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole socratiche
prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadence
dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di
quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più
antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come
Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà - conseguentemente
si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di sé - tiene quindi
sotto il suo dominio anche cose".
Per giunta in Aurora [9] leggiamo: "Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo
onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e
spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che
ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa
che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia
pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli
piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male...rivolge lo sguardo
soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli
consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di
uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura
della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il
suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in
Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere
battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti ".
Pasolini individua nella luce di Caravaggio, “quotidiana e drammatica”, una
contrapposizione al lume universale del Rinascimento platonico” E prosegue:
“Sia i nuovi tipi di persone e di cose che il nuovo tipo di luce, il Caravaggio
li ha inventati perché li ha visti nella realtà. Si è accorto che intorno a lui
- esclusi dall’ideologia culturale vigente da circa due secoli - c’erano uomini
che non erano mai apparsi nelle grandi pale o negli affreschi, e c’erano ore
del giorno, forme di illuminazione labili ma assolute che non erano mai state
riprodotte e respinte sempre più lontano dall’uso e dalla norma, avevano finito
col diventare scandalose, e quindi rimosse. Tanto che probabilmente i pittori,
e in genere gli uomini fino al Caravaggio probabilmente non le vedevano
nemmeno”[10]. Pasolini
riconosce il suo debito al maestro Roberto Longhi. Aveva fatto la supposizione
che
Vediamo
ora l’antipatia di Leopardi per Enea.
Leopardi nello Zibaldone manifesta
antipatia per Enea, sia pure a causa di una sua presunta perfezione:"Omero
ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo (...) e noi proviamo che ci piace più Achille
che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior
poema ec." (2)
“Troppa virtù morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine,
troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa
benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per
lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e
bello; e sebben questo in lui non ripugna alla (3609) natura e al verisimile
naturale, come in Ulisse, pur tanta
è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo eroe, che la
gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo (…) E così mentre
Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi
vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti… a riguardo d'Enea e della sua
passione (3610) parla così coperto, anzi dissimulato… anzi serba quasi un così
alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e p.
accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre p. necessità da
quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che
volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse
Enea per niun modo tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì
degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone
avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse
così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel
suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v'è cosa più amabile che la
debolezza nella forza, né
cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E
tanto egli giudicò che dovesse nuocere (3611) appo i lettori alla stima non
solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima), il
concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile,
di cuore".
Il comico
antico e quello moderno
Leopardi nello Zibaldone (pp.
41 - 42) indica, insieme con altri testi, un frammento di Filemone come esempio
del fatto che "il ridicolo degli antichi comici... consistea
principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole... quello degli antichi
era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir
così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un
soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e
sorridere, quello era solido, questo fugace... quel de' greci e latini è
solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come
quando Luciano nel Zeu;"
ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai
pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori
acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne
trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è
incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10 - 16 dello Stratiwvth", dove Filemone[11] stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli
altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo
nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene
incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare
era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno 8…) ai
francesi par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque
ai greci, popolo il più civile dell’antichità, e a’ latini" (41).
“Un’altra differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era
preso da cose popolari o domestiche o almeno non della più fine conversazione,
la quale poi non esisteva nemmeno così raffinata; ma il moderno, massime il
francese versa principalmente intorno al più squisito mondo alle cose dei
nobili più raffinati alle vicende domestiche delle famiglie più mondane e. ec.
(come anche proporzionalmente era il ridicolo d’Orazio) sicché quello era un
ridicolo che avea corpo, e come il filo d’un arma che non sia troppo aguzzo,
dura lungo tempo, dove quello[12] come ha una punta sottilissima (più o meno secondo i tempi e le
nazioni) così anche in un batter d’occhio si logora e si consuma, e dal volgo
poi non si sente”. (42)
[6] Il mestiere di
vivere, 29 settembre 1946.
[7] Le origini
dell’epica greca, p. 38.
[9] p.124
[10] Pasolini, La
luce di Caravaggio in Pasolini Tutte le opere, p. 2673.
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