Sileno |
Dalla conferenza Leopardi e gli Antichi, 15 aprile 2019, biblioteca Scandellara di Bologna
La sapienza Silenica e il suo rovesciamento. Omero, Euripide, Leopardi,
Nietzsche e altri
Il "sacrilego" Euripide nell'Alcesti
fa scattare incongruamente la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando
questo sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire
per lui: "zhlw' fqimevnou", keivnwn
e[ramai, - kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein"(vv.865 -
867), invidio i morti,
quelli amo, quelle dimore desidero abitare. Ma Kott che attribuisce ogni
malignità a Euripide, sostiene, malignamente, che la resipiscenza di Admeto è
fasulla: "Che cosa ha capito? che la casa è sporca, che i bambini
piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo"[1].
L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) espressa da Admeto è
silenicamente manifestata anche da Leopardi:"
In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un
gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di
loro. Oggi non invidio più né
stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e
solamente con loro mi cambierei...Se mi fosse proposta da un lato la
fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro
di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei
tempo a risolvermi"[2].
Leopardi, nella Storia del genere umano , non manca di
ricordare con simpatia gli autori, Erodoto in primis, che narrano storie
sileniche:, "Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità,
e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli
uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume
riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono,
che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e
morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano
congratulandosi coll'estinto".
Detti memorabili di Filippo Ottonieri: “Dimandato a che
nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente
il non esser nato”
Leopardi usa la massima monostica, e quasi silenica "o{n oiJ
qeoi; filou'sin, ajpoqnhvskei nevo"" (fr. 583 Jäkel) di Menandro, definito "principe"
della commedia nuova nello Zibaldone (3487). La gnwvmh fa da epigrafe al Canto Amore e Morte in questa traduzione: "Muor giovane colui ch'al cielo è caro".
Nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello del 1824, il
mago Malambruno - la cui arte “può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a
mezzo il cielo” - dice al diavolo Farfarello[3] E’ tra “li diece demoni” che scortano Dante e Virgilio nella bolgia
dei barattieri (Inferno, XXI, 123), in coppia con Rubicante pazzo, poi (Inferno,
XXII, 95 “che stralunava li occhi per fedire) : “Di modo che,
assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere”
E Farfarello conclude: “dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo,
io sono qui pronto per portarmela”
Lucrezio compiange
la creatura umana che, appena arriva alla luce, riempie il luogo con un lugubre
vagito: "puer (...) nudus humi iacet, infans, indigus omni - vitali
ausilio, cum primum in luminis oras - nixibus ex alvo matris natura profudit,/
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst/cui tantum in vita restet transire
malorum "[4].
Cfr. Leopardi: “Nasce l’uomo a fatica,/ed è rischio di morte il
nascimento./Prova pena e tormento /per prima cosa; e in sul principio stesso/la
madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato” (Canto notturno di
un pastore errante dell’Asia del 1829, vv. 39 - 44)
Cicerone ci
racconta la storiella sul Sileno (de Sileno fabella ) il quale
catturato da Mida, e poi liberato dal re, non un poveraccio dunque ma un uomo ricco
e potente come Creso, gli diede questo insegnamento:" non nasci
homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori "[5], non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi,
morire al più presto .
Seneca, per consolare
Marzia che ha perso un figlio ventenne enumera le difficoltà della vita umana,
insidiosa e fallace al punto che nessuno l'accetterebbe se non fosse data
all'insaputa, e conclude :"Itaque, si felicissimum est non nasci,
proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui "[6], pertanto, se la condizione più
fortunata è non nascere, la seconda è, credo, compiuta una breve età, tornare
al più presto all'integrità originaria.
Petronio nel Satyricon: dove, se si fanno bene i conti, il
naufragio è dappertutto "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est ",
(115, 17, detto dall’io narrante Encolpio), attribuisce il desiderio di
morire alla Sibilla:"Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis,
vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent - Sivbulla tiv
qevlei"; - respondebat illa - ajpoqanei'n
qevlw - "(48, 8), infatti la Sibilla di certo a Cuma vidi
io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli - Sibilla,
cosa vuoi? - , rispondeva lei - morire voglio - ". E’ Trimalchione che
parla - miti vultu.
La profetessa vuole morire poiché la terra è sconciata dall'empietà,
dall'impotenza e dalla sterilità:" Itaque dii pedes lanatos habent, quia
nos religiosi non sumus. Agri iacent "(44, 18, parole di
Ganimede), così gli dèi hanno i piedi inceppati, poiché non siamo religiosi. I
campi giacciono nell'abbandono.
E più avanti (129, 6):"adulescens, paralysin cave ",
giovane, guardati dalla paralisi. Parole scritte da Circe a Encolpio chiamato
Polieno[7] e colpito dall’ira di Priapo.
La misura apollinea e omerica costituisce un antidoto a tale pessimismo:
Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con l'eroismo e la
bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene supremo, e Achille
nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della morte ("mh; dh; moi
qavnaton ge parauvda, Odissea , XI, 488) poiché sarebbe
disposto a servire un padrone povero sulla terra, piuttosto che dominare su
tutte le ombre svigorite del regno dei morti.
Vediamo quindi il rovesciamento della sapienza silenica
Odissea. Achille
nella Nevkuia dice al
figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io
preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un
uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su
tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con
impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a
Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[8], Od. XI, 489)"[9].
Già nel IX canto dell’Iliade , quello dell’ambasceria, Achille
aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi;
yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra,
non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e
pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato
la chiostra dei denti (405 - 408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli
Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo
destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio,
dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro
introdotto da un grande poeta”[10].
Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore
de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti
non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno
dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un
esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec… (14
Ottobre 1828)”[11]. Le anime dei morti evocate da Odisseo
nella Nevkuia sono
“teste svigorite”, ajmenhna; kavrhna (Odissea,
XI, 29)
Con Platone però tutto cambia e torna la sapienza silenica.
Sentiamo
Nietzsche
Secondo Nietzsche i Greci hanno vinto l'orrore del caos e
rovesciato la triste sapienza silenica, la quale rifiuta la vita, attraverso la giustificazione estetica ed
eroica dell'esistenza umana: "Il Greco conobbe e sentì i terrori e
le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a
tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza
verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su
tutte le conoscenze, l'avvoltoio
del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe
degli Atridi, che costringe Oreste
al matricidio, insomma tutta
la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque
nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli
dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi
dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico
del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di
bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento
divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi
cespugli… Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi
- la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi
simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli
uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene
presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, “la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in
secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta
risuona il lamento, ciò avviene
per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana
come le foglie[12],
per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse
pure come un lavoratore a giornata[13]. Nello stadio apollineo la "volontà"
desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente
con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua
lode"[14].
Concludo con una formulazione dostoevskijana di questa sapienza
antisilenica: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “
dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima
dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su
una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con
intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e
rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita,
per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che
morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma
vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è
un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “aggiunse subito dopo”[15].
CONTINUA
[3] E’ tra “li
diece demoni” che scortano Dante e Virgilio nella bolgia dei barattieri (Inferno,
XXI, 123), in coppia con Rubicante pazzo, poi (Inferno, XXII, 95) si
vede “che stralunava li occhi per fedire
[7] Poluvain j (Odissea, XII, 184).
Nel Satyricon Circe offre amore a Encolpio dicendo:"nec
sine causa Polyaenon Circe amat: semper inter haec nomina magna fax surgit.
sume ergo amplexum, si placet " (127, 7), non senza motivo Circe
ama Polieno: sempre tra questi nomi guizza una grande fiamma. Prendimi dunque
tra le braccia, se ti va. - Odisseo viene chiamato poluvain j dalle Sirene, molto
lodato ai\no", lodo , racconto; aijnevw, lodo
La donna vuole facilitare l'unione
con l'espediente scaramantico del nomen omen. "Quando,
infatti, Encolpio a Crotone prenderà il nome di Polieno e s'imbatterà in una
matrona di nome Circe, diverrà inevitabile l'incontro fra lui e Circe sul
terreno amoroso proprio perché così è accaduto al polyvainos Odisseo"(P. Fedeli,
, Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 356.).
[8] infinito
atematico con desinenza - men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che significa "lavoro
come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes ,
non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare.
Il terribile per un thes era il fatto di non avere legami, di non
appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo , p. 39).
[12] Cfr. Iliade, VI, 146:"oi[h per
fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio
quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
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