Prefazione alla conferenza del 29 aprile (biblioteca Scandellara, ore 18,30 - 20) sul tema dell’uomo inetto
L’ amore
trova esche e nutrimento nell’otium.
In Catullo e nella tradizione elegiaca latina
l’amore sottrae il poeta ai negotia del civis e
del miles, collocando l’amante nella nequitia, nell’
indolenza, nell’otium di chi si sottrae ai doveri politici e
militari. 51, 13 - 16
“Otium, Catulle, tibi molestum est;/otio exsultas nimiumque gestis./
Otium et reges prius et beatas/perdidit urbes”.
Tutt’altra
cosa è, naturalmente, l’otium cum dignitate, il tempo libero dedicato
allo studio e alla riflessione, all’indagare se stesso, che è altra cosa del
resto dall’accumulo dell’erudizione.
Nel De
oratore (del 55), Cicerone scrive che nell’ optima respublica sono
possibili, successivamente, il negotium sine periculo e
l’ otium cum dignitate (I, 2).nec otium>
negotium
Seneca disapprova
un approccio devitalizzante ai testi classici: nel De brevitate vitae[1] il
filosofo sconsiglia di accorciare la vita perdendo tempo in occupazioni che non
giovano allo spirito: "Graecorum
iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia,
praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive
contineas nihil tacitam conscientiam iuvant, sive proferas non doctior videaris
sed molestior" (13) questa fu una malattia dei Greci, cercare quale
numero di rematori avesse avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o
l'Odissea, inoltre se siano del medesimo autore, e successivamente altre
notizie di questo tipo, nozioni che se le tieni per te non giovano per niente
al puro fatto di saperle, se le tiri fuori, non sembri più dotto ma più
pedante.
Il
classicista Quintiliano vuole escludere l'ombra, la solitudine e la
muffa dall'educazione del ragazzo che deve diventare un buon
oratore:"Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est,
adsuescat iam a tenero non reformidare homines neque illa solitaria et velut
umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in
eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut
contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se
nemini comparat "[2] ,
prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della
politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non
impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e
sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce, e nella
tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti
convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non
si confronta con nessuno.
Il maestro
pallido, ossia tedioso, desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza
istintiva, anche fisica nel giovane discepolo.
Torno
all’ozio deleterio e aggiungo un mitico traendolo da Omero: quello di Egisto la
cui attività seduttiva nei confronti della donna sposata Clitennestra è
descritta e biasimata da Omero nel III
canto dell'Odissea : Nestore racconta che mentre gli eroi
della guerra troiana erano laggiù a compiere molte imprese, quello se ne stava
tranquillo nella parte più sicura (eu[khlo" mucw'/ , v. 263) di Argo che nutre cavalli
e molto cercava di sedurre con le parole (qevlgesken e[pessin, v. 264 ) la moglie di Agamennone
la quale dapprima rifiutava l'indegno misfatto poiché aveva un'anima nobile ed
era sorvegliata da un aedo di fiducia del suo sposo, ma alla fine cedeva (vv.
265 - 272).
L'interpretazione
di Ovidio non è troppo diversa da quella di Omero:"Quaeritis Aegisthus
quare sit factus adulter;/in promptu causa est; desidiosus erat "
(vv. 161 - 162), volete sapere perché Egisto divenne adultero? il motivo è a
portata di mano: non aveva nulla da fare. Gli altri Greci infatti facevano la
guerra e ad Argo non c'erano processi a impegnarlo. Dunque:"Quod
potuit, ne nil illic ageretur, amavit " (v. 167), fece quello che
poté per non stare là senza far niente: fece l'amore. Anche Madame
Bovary divenne adultera poiché si annoiava:"per lei, ecco,
l'esistenza era fredda come un solaio esposto a settentrione, il silenzioso
ragno della noia tesseva e ritesseva la tela nell'ombra, in ogni cantuccio del
suo animo" (p. 36).
Già Teofrasto (in Stobeo, IV,20,66) definiva l'amore:"pavqo" yuch'" scolazouvsh" ", la sofferenza di un'anima disoccupata.
L' amore di Catullo procede attraverso un avvicendarsi di esaltazioni e sconforti.
Ovidio
“otia si tollas, periere Cupidinis
arcus,/contemptaeque iacent et sine luce faces" (Remedia, 139 - 140), se togli di mezzo il tempo libero, si
rompono gli archi di Cupido, e le sue fiaccole rimangono a terra disprezzate e
senza luce. Invece dell'otium dunque viene consigliato un
qualsiasi negotium[3] che tolga a Eros il terreno fertile
della desidia lo stare seduto senza fare niente
Menandro
Nel Duvskoloς di Menandro Gorgia diffida
Sostrato dal cercare di sedurre la sorella approfittando della sua superiorità
economica:
"non è giusto
che il tuo tempo libero danneggi noi
che tempo libero non abbiamo. Sappi che il povero
il quale
subisce ingiustizia è l'essere più arrabbiato del
mondo" (vv.293 - 296). E' questo un invito a non
esasperare il malessere dei poveri attraverso la loro umiliazione che invece va
attenuata con il rispetto e la filantropia
L'amore ha bisogno di tempo libero: Sostrato,
l'innamorato ricco, domanda al fratello della ragazza, Gorgia è:"ma per
gli dèi, non sei mai stato innamorato di una, tu ragazzo?" ( oujpwvpot j
hjravsqh" tinov", meiravkion; v. 341). E il
futuro cognato, che ricco non è, risponde: "Non me lo posso permettere,
caro mio" ( oujd j e[xestiv moi, bevltiste, v.342) Sostrato non ne capisce la ragione e domanda:" come ma, chi
te lo impedisce?" (pw'" ; tiv" e[sq
j oJ kwluvwn; 344) pensando magari al vecchio misantropo, ma
Gorgia fa vedere un panorama negativo più ampio:"il calcolo dei miei guai
(oJ tw'n o[ntwn kakw'n logismov" - 344).
/che non mi dà un momento di respiro".
Anche l’apprendimento ha bisogno di tempo libero
L'araldo
tebano delle Supplici di Euripide ribatte che il
governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i
quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là a proprio
profitto. Del resto chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per
dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno"
mavqhsin ajnti; tou' tavcou" - kreivssw divdwsi (vv. 419 - 420), è infatti il
tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta. (cfr. Kierkegaard e
Kafka che non si sposano).
Isocrate nell’Areopagitico (del 356) scrive che nel buon tempo antico
I più poveri venivano indirizzati all'agricoltura
e al commercio:" ejpi; ta;"
gewrgiva" kai; ta;" ejmporiva"" (44). Gli
abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, ippica, caccia, e alla filosofia.
La cultura dello spirito equiparata alla ginnastica fa parte di quella
concezione della paideia come gioco elevato espressa da Callicle nel Gorgia.
Anche Senofonte vuole combinare equitazione ginnastica e caccia con l'amore
per la cultura intellettuale. Pure il Protagora (326c) di
Platone fa dipendere la durata dell'istruzione dai mezzi dei genitori.
Pòzdnyshev l'uxoricida della Sonata a Kreutzer di Tolstoj[4] mette l'ozio tra le esche
ingannevoli della sua infausta passione amorosa:"Ma in realtà quel mio
amore era prodotto, da una parte, dall'affaccendata madre e dalla sarta,
dall'altra - dalla grande abbondanza di cibi che ingoiavo, e in più dalla vita
oziosa che menavo" (p. 327).
Depravazione, si dice, è quando ci si libera dai
rapporti morali verso una donna cui si è stati carnalmente congiunti. Il fatto
è che l’amore dipende solo dall’attrazione fisica. Agli uomini interessa solo
il corpo e le donne lo mettono in risalto, anche con mezzi artificiosi.. I
giovani innamorati fanno presto a diventare teneri, come i cetrioli sul vapore.
I nostri sensi si infiammano per l’alimentazione sovrabbondante e l’inattività
Il cibo pruriginoso: selvaggina, pesce, vini scelti va
tutto a finire in eccessi dei sensi. Poi la trappola del matrimonio. Finita la
passione, abbiamo iniziato a litigare. La donna è felice e soddisfatta solo
quando è riuscita a intrappolare un uomo e quando ci è riuscita il suo scopo è
tenerlo sotto i piedi. I figli possono placarla. Arrivammo al punto che non era
la discordia a provocare l’inimicizia ma l’inimicizia a provocare la discordia.
A trent’anni aveva una bellezza che rendeva inquieti gli uomini: era nel fiore
dei suoi trent’anni: la donna che non genera, pienotta, allettante. Gli uomini
la guardavano. Era simile a un cavallo ben pasciuto, già troppo tenuto a freno,
cui siano state tolte le briglie.
Arriva l’adulterio con un uomo che ricevuto in casa la
guardava come tutti i lussuriosi guardano le donne belle. Lei faceva
l’indifferente, ma era agitata. Il marito era geloso. Fra i due si stabilì una
corrente elettrica tale da produrre identici sorrisi, identici sguardi. La
bestia si era acquattata in entrambi
Il marito la insulta, furibondo per la gelosia. Di lei
conosceva solo la parte animale. Ma la sofferenza maggiore consisteva nel
dubbio.
Coglie in flagrante i due amanti Dissero che facevano
della musica, Lui scappa e il marito la colpisce prima con una gomitata poi con
un pugnale
Mentre la moglie muore, per la prima volta il marito
vede in lei un essere umano Allora tutta la sua gelosia gli parve una cosa
meschina.
Per quanto riguarda il cibo pruriginoso sentiamo Ovidio
che nei Remedia lo sconsiglia: "Daunius an Libycis
bulbus tibi missus ab oris/an veniat Megaris, noxius omnis erit " (Remedia amoris, vv.797 -
798), la cipolla della Daunia o mandata dalle coste libiche o importata da
Megara sarà sempre nociva.
In questa prospettiva, ribaltata rispetto a
quella del viagra o alle pratiche cui si sottopone Encolpio contro
l'impotenza, nocivo significa
eccitante.
Tale è anche la rucola:"Nec minus erucas
aptum vitare salaces,/et quicquid Veneri corpora nostra parat " (Remedia,
799 - 800), e non è meno opportuno evitare la rucola afrodisiaca e tutto quanto
dispone il nostro corpo a Venere. - salaces,
da salax, connesso a salio, salto, significa
propriamente "che fa saltare". "La radice deriva
dall'indoeuropeo *sal - che ha dato come esito in greco aJl - in latino sal - "[5]. Cfr. a{llomai.
Nell'Ars amatoria che condivide l'impianto
didascalico dei Remedia amoris, ma vuole insegnare il
contrario, Ovidio consiglia gli stessi e altri cibi afrodisiaci a chi non deve
risparmiare i lombi:"bulbus et, ex horto quae venit herba salax/ovaque
sumantur, sumantur Hymettia mella/quasque tulit folio pinus acuta nuces"
( II, 422 - 424), si prenda la cipolla, e la rucola eccitante che viene
dall'orto, le uova e si prenda il miele dell'Imetto e i pinoli che produce il
pino dalle foglie aghiformi.
La cipolla (bolbov" ) è con le conchiglie e le lumache, tra gli ingredienti principali
anche del povto" aJduv" (v. 17),
il magnifico banchetto che svela l'amore di Cinisca nel XIV idillio di
Teocrito.
La cipolla e la rucola sono messi tra gli
afrodisiaci anche da Marziale. Questi peraltro non aiutano Luperco abbandonato
dalla mentula:"sed nihil erucae faciunt bulbique salaces"
(III, 75, 3), niente ti fanno la rucola e le cipolle eccitanti.
Veniamo quindi al vino:" Vina parant animum Veneri, nisi plurima sumas/ et stupeant
multo corda sepulta mero./Nutritur vento, vento restinguitur ignis;/lenis alit
flammas, grandior aura necat./Aut nulla ebrietas, aut tanta sit, ut tibi
curas/eripiat; si qua est inter utrumque nocet " ( Remedia amoris, vv.805 - 808), il vino dispone
l'animo a Venere, se non ne prendi troppo e non vengono intontiti i sensi
sepolti dal molto vino. Viene nutrito dal vento, dal vento viene pure spento il
fuoco; una lieve brezza alimenta le fiamme, un vento più grande la spenge. O
non ci sia l'ebbrezza o sia così grande da portarti via gli affanni, se una si
trova a metà, ti fa male.
Nell'Ars amatoria leggiamo:"Vina parant animos faciuntque
caloribus aptos;/cura fugit multo diluitque mero./Tunc veniunt risus, tum
pauper cornua sumit,/tum dolor et curae rugaque frontis abit./Tunc aperit
mentes aevo rarissima nostro simplicitas,/ artes excutiente deo./Illic saepe
animos iuvenum rapuere puellae,/et Venus in vinis ignis in igne fuit"
(I, 237 - 244), il vino dispone gli animi e li rende pronti agli ardori;
l'ansia fugge e si scioglie con molto vino. Allora nascono le risate, allora il
povero prende coraggio, allora il dolore e le ansie e la ruga della fronte se
ne vanno. Allora la semplicità, rarissima nel nostro tempo, rivela i pensieri,
poiché il dio scuote via gli artifici. Lì spesso le ragazze conquistano i cuori
dei giovani e Venere nel vino è fuoco nel fuoco.
Già Euripide
nelle Baccanti aveva collegato Cipride al vino:"oi[nou de;
mhkevt j o[nto" oujk e[stin Kuvpri" - oujd j a[llo terpno;n oujde;n
ajnqrwvpoi" e[ti" (vv. 773 - 774), E quando non c'è più il vino,
non c'è Cipride/né più alcun altro piacere per gli uomini.
Una riflessione sugli effetti erogeni del vino
si trova ne L'asino d'oro di Apuleio. Il curiosus protagonista
Lucio, preparandosi a un incontro amoroso con l'ancella Fotide, ricevuta in
dono un'anfora di prezioso vino invecchiato, vini cadum in aetate
pretiosi, invita l'amante a bere insieme il liquido di Bacco elogiandolo
come il miglior viatico per percorrere una lunga rotta sulla barca di
Venere:"Ecce - inquam, - Veneris hortator et armĭger Liber advenit
ultro! Vinum istud hodie sorbamus omne, quod nobis restinguat pudoris ignaviam
et alăcrem vigorem
libidinis incutiat. Hac enim sitarchĭa navigium Veneris indĭget sola, ut in
nocte pervigili et oleo lucerna et vino calix abundet " (II, 11), ecco, dico, che stimolatore e armigero di Venere arriva
Libero spontaneamente ! Beviamocelo tutto oggi questo vino che spenga in noi la
viltà del pudore e susciti un vivace vigore di libidine. In effetti la barca di
Venere ha bisogno soltanto di questo approvvigionamento in modo che, durante la
notte di veglia, la lucerna sia piena d'olio e la coppa di vino.
Il nesso vino - Venere viene ricordato controvoglia da
Leonia, la vecchia ubriaca del Curculio di Plauto che deve offrire
un goccio del suo tesoro liquido, com'è consuetudine, alla dea
dell'amore:"Venus, de paullo paullulum hic tibi dabo hau
lubenter./ Nam tibi
amantes propitiantes vinum dant potantes/omnes…" (vv. 123 -
125), Venere, del poco che c'è qui darò un pochino a te non volentieri. Infatti
tutti gli amanti facendo un brindisi ti offrono del vino per propiziarti.
Il portiere del castello di Macbeth , una specie di portiere
dell'inferno come ipotizza di essere con ironia sofoclea[6], disquisisce, intorno agli effetti del
bere sulla libidine: la provoca e la sprovoca; provoca il desiderio ma ne porta
via l'esecuzione. " Therefore, much drink may be said to be an
equivocator with lechery ", perciò bere molto si può denominare
colui che rende equivoca la lascivia: la crea e la distrugge; la spinge innanzi
e la tira indietro; la persuade e la scoraggia; "makes him stand to,
and not stand to", la mette in piedi e non la tiene su, insomma la
equivoca col sonno e dandole una smentita la pianta (Macbeth, II, 3). In
questo monologo, "di un fine umorismo lucianesco…occorrono certe allusioni
a fatti contemporanei, che allora, cioè quando Shakespeare scriveva il Macbeth [7], dovevano essere a common topic[8], o, come diremmo noi, sulla bocca di
tutti, e che ci riportano a quell'anno"[9] (1606).
Chiarini fa l'esempio della parola equivocator usata
due volte nel monologo e che allude alla dottrina gesuitica dell'equivocazione
invocata da Enrico Garnet, superiore dell'ordine dei gesuiti processato nel
1606 appunto per l' accusa di avere partecipato alla congiura delle polveri (gunpowdwer
plot) ordita dai cattolici, nel 1605, contro Giacomo I.
Si può aggiungere e precisare che bere alcolici,
in quantità non eccessiva, può disinibire in certi casi o, in altri, fare
obliare la scarsa attrazione sentita in condizione di lucidità per un partner
che non ci piace.
Flaubert
Altrettanto
pensa la vecchia Bovary dei grilli della nuora:"Ci vorrebbe
un'occupazione, un bel lavoro manuale! Se come tante altre fosse costretta a
guadagnarsi il pane, non avrebbe mica tanti fumi per la testa. Sai da dove
vengono? Da quel mucchio di idee balorde, dal troppo ozio in cui vive"[10].
Dostoevskij
L’ozio non ignobile ma per
lo più inattivo del principe Myškin
Il principe
Myškin ritiene connaturata all’uomo e naturale la felicità: “Io non so come sia
possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di vederlo. Parlare
con una persona e non essere felici di volerle bene! Oh, io non so esprimere
bene i miei sentimenti…ma quante cose belle vediamo ad ogni pie’ sospinto,
belle al punto che l’uomo più abbietto non può che vederle sempre belle?
Guardate un bambino, guardate l’alba divina, guardate come cresce un fuscello,
guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono bene…”[11].
Viveva senza
la minima diffidenza. Per la sua malattia non conosceva le donne. In Svizzera
parlava con i bambini: diceva loro tutto senza nascondere nulla. I genitori si
stizzivano. Il maestro di scuola era geloso di lui, e lo canzonava quando
diceva che i veri maestri erano i bambini i quali ci curano l’anima.
Insegnare infatti significa imparare. Non tutti gli insegnanti sono dei
fannulloni.
Non dobbiamo
dimenticare che l'insegnamento e l'apprendimento sono interdipendenti: "homines,
dum docent discunt "[12] mentre
si insegna si impara. Dagli studenti ho imparato e imparerò sempre molto:
"Quaeris quid doceam? etiam seni esse discendum"[13],
vuoi sapere che cosa insegno? che anche un vecchio deve imparare.
Dobbiamo
dirlo ai nostri studenti: “Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre
scolari”[14].
Tutti gli insegnanti, tutte le persone per
bene, non dovrebbero mai smettere di imparare :"semper homo bonus tiro
est ", l'uomo onesto fa tirocinio per tutta la vita, ha scritto
Marziale[15] (12,
51, 2).
Ancora sull’Idiota
Però il
principe Myškin non si trovava a suo agio con gli adulti. Il mio destino mi
portava verso i ragazzi (…) Gli adulti lo credevano un idiota
Dice ad
Aglaja: la bellezza è un enigma. Siete tanto bella, che si ha paura a
guardarvi. La bellezza è una forza con la quale si può rovesciare il mondo.
Viene
frainteso. Totzkij pensò: “Idiota com’è, sa nondimeno benissimo che la via
dell’adulazione è la migliore”.
Dal suo viso
traspariva sempre la stessa ingenuità e fiducia, ben lontana dal sospettare una
derisione o una burla.
Ippolit
aveva scritto che un moscerino in un raggio di sole partecipa del festoso
banchetto della vita, mentre io ne sono escluso (p. 531) Era stato rinnegato
dalla natura. Il principe era anche poco istruito.
Aglaja gli
dice che deve rompere il vaso cinese del salotto. Eseguite uno di quei gesti
che fate sempre: urtate il vaso e fatelo cadere in frantumi.
Ma il
principe vorrebbe evitarlo. Si trova in un salotto dove tutto era falso. I
presenti si odiavano o provavano fastidio l’uno dell’altro ma fingevano di
essere amici. Avevano riunito quella compagnia per convenienza e tutti
credevano di fare agli Epančin un grande onore con la loro presenza. Il
principe non poteva capire simili sottigliezze.
Il principe
parla contro il cattolicesimo romano “peggiore dello stesso ateismo” L’ateismo
predica il nulla e il cattolicesimo predica un Cristo travisato e calunniato
dallo stesso cattolicesimo che predica l’Anticristo. Il cattolicesimo è la
continuazione dell’impero romano. Ogni cosa è stata venduta da Roma per denaro.
L’ateismo nasce dal disgusto del cattolicesimo. Da noi si trova nelle classi
privilegiate che hanno perso la loro radice; in Europa l’ateismo sta entrando
nelle masse del popolo per l’odio suscitato dalla Chiesa. Anche il socialismo è
prodotto dal cattolicesimo. Si sostituisce lo scomparso potere morale del
cristianesimo con la violenza. Per resistere all’Occidente bisogna che il
nostro Cristo risplenda. Non dobbiamo lasciarci pigliare all’amo dai Gesuiti ma
portare all’Occidente la nostra civiltà russa. Colui che ha rinnegato la sua
terra natale ha anche rinnegato il suo dio.
Tutti i
presenti erano costernati da questa tirata. Il principe stava lontano dal vaso
cinese per paura di romperlo, siccome aveva il presentimento che l’avrebbe
rotto. In effetti lo ruppe. Provò una spavento mistico
Aglaja lo
ama per la sua nobiltà e semplicità d’animo e per la fiducia illimitata.
Chiunque volesse potrebbe ingannarlo ed egli lo perdonerebbe.
Il principe
alla fine muore e la sua bontà rimane inattiva.
Properzio intende
servire l'amata e la sua è una vera e propria condizione di schiavitù...Questo
atteggiamento costituiva una totale inversione di alcuni valori fondamentali
della morale romana, in cui la dedizione e il servitium erano
obblighi della donna nei confronti dell'uomo: accettare il servitium alla
donna significa, oltre che nullo vivere consilio [16], seguire la nequitia la cattiva condizione (cfr. nequam,
“buono a nulla”), e rinunciare nel tempo stesso ai vantaggi della vita
socialmente impegnata; il poeta sa bene che questo atteggiamento farà di lui un
oggetto di biasimo in tutta la città (2, 24, 5 sgg.): ma l'amore è furor
che divora e contro una simile malattia non esistono rimedi[17]. Cfr. la Medea e la Fedra di Seneca.
Gli elegiaci
infatti dichiarano il loro essere prigionieri (e prigionieri consapevoli)
della nequitia, inettitudine, dunque il loro non essere buoni
cittadini, e propongono un sistema di valori alternativo a quello socialmente
approvato.
Ovidio prima
dei Remedia ribalta tale tradizione affermando che l'amore
"riscatta il poeta dall'ignavia “inazione” e dalla segnities
“indolenza” perché l'amore è
guerra, e richiede e sviluppa nell'innamorato le stesse qualità fisiche
e psicologiche che l'esercizio della guerra richiede e sviluppa nel
soldato. L'amante - questo
l'assunto dell'elegia, paradossale se si pensa all'antimilitarismo dei primi
elegiaci - è perfettamente uguale al
soldato e come quello dotato di forza, intraprendenza, attivismo. In
questa identificazione tra sfera galante e sfera militare, il repertorio
tematico della militia amoris con tutto il suo lessico militare
conosce un utilizzo a pieno campo, e la tesi viene portata avanti adottando una
delle tecniche che si studiavano nelle scuole di retorica del tempo, quella
della comparatio (confrontando due diverse realtà, se ne mostrano
somiglianze e divergenze)"[18].
Le attività raccomandate da Ovidio sono innanzitutto
quelle "del foro e della guerra, il cui rifiuto voleva dire per il poeta
elegiaco rinuncia alla carriera e alla rispettabilità".
Eros si associa a Eris:
Negli Amores leggiamo:"Militat
omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis
amans "(I, 9, 1 - 2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha
il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato.
Veniamo
a Tucidide
“Sia
quelli sono degni di lode, sia, ancor più, i nostri padri: infatti dopo avere
conquistato, oltre a quanto avevano ricevuto, questo grande impero che
abbiamo, non senza fatica,
lo hanno lasciato in eredità a noi che siamo qui ora” (II, 36, 2).
L’elogio
della fatica è topico e risale a Esiodo
Esiodo dice che
davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j
ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere,
289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla
mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n
eujtucei'''" (v.
945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[19] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa
Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica
e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu
povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
Chi fa del bene conserva cavrin, gratitudine,
mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non potere farlo
Tucidide,
II, 40, 4.
E anche per
quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi siamo il contrario dei più:
infatti non ricevendo il bene, ma
facendolo ci procuriamo gli amici (ouj ga;r
pavsconte" eu\, ajlla; drw'nte" ktwvmeqa tou;" fivlou") E’ più sicuro chi ha fatto del
bene, nella misura in cui conserva la gratitudine che gli è dovuta con la
benevolenza per la quale ha donato; mentre chi è debitore è più lento, in
quanto sa che deve ricambiare l’atto generoso, non per fare un dono gratuito,
ma per dovere.
Tucidide, II, 40, 2.
C’è nelle
medesime persone la cura degli interessi privati e nello stesso tempo degli
affari pubblici, e per altri, rivolti ad altre attività, c’è la possibilità di
conoscere i problemi politici in modo sufficiente: solo noi infatti consideriamo (nomivzomen) non
pacifico (oujk ajpravgmona, ajll j
ajcrei'on), ma inutile chi non prende
parte alla vita politica, e siamo noi che o decidiamo oppure esaminiamo bene i
fatti, non considerando i discorsi un danno per le azioni, ma che lo sia
piuttosto non essere informati con la parola prima di arrivare a ciò
che si deve all’azione
Cfr. Edipo l’eroe della passività e Prometeo dell’attività (Nietzsche in La nascita
della tragedia)
Nietzsche in La nascita della tragedia [20] considera Edipo un eroe della passività: “L'eroe raggiunge appunto
nell'attitudine puramente passiva la sua attività suprema, la quale
continua ad agire molto al di là della sua stessa vita, mentre il cosciente
tendere e sforzarsi della sua vita precedente lo ha condotto solo alla
passività".
Edipo trova la sua dimensione positiva nella passività di Colono, dopo
avere fatto soffrire e avere sofferto assai nella fase dell'attività
sconsiderata, così Giovanni Drogo
in Il deserto dei Tartari di Buzzati scopre"l'ultima
sua porzione di stelle"(p.250) e sorride nella stanza di una locanda
ignota, completamente solo, mangiato dal male, accettando la più eroica delle
morti, dopo avere sperato invano, per decenni, di battersi"sulla sommità
delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di
primavera". Invece il suo destino si compie al lume di una candela,
dove"non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole,
fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli
dirà bravo".
Del resto gli eroi della passività nella letteratura moderna sono tanti,
da Oblomov di Goncarov, a Zeno di Svevo per dire solo i
più noti.
Quindi
Nietzsche contrappone a Edipo Prometeo
come personaggio illuminato dalla gloria dell'attività. Prometeo
rappresenta anche l'artista titanico il quale "trovò in sé la caparbia fede
di poter creare uomini o almeno di poter distruggere dèi olimpici: e ciò
mediante la sua superiore sapienza, che era però costretto a scontare con
un'eterna sofferenza"[21].
La
rivendicazione di Prometeo fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e
argomenti a Nietzsche in La
nascita della tragedia per distinguere "la concezione ariana" dal
mito semitico:" La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa
diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le
conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti
offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere:
un pensiero crudo, per la dignità
conferita al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato
originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità,
la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu
considerata come origine del male. Ciò
che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come
vera virtù prometeica"[22].
Ultimo discorso di Pericle in Tucidide
Allora è
giusto che non evitiate le fatiche necessarie agli onori (povnoi - timaiv cfr. l’Iliade). E non
conviene in una città che comanda ma in una che è suddita.
Nel suo
ultimo discorso, Pericle dice , avete un
impero che è come una tirannide: esercitarlo può essere ingiusto, ma
abbandonarlo pericoloso ( II, 63, 2).
Non potete
tirarvi indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, 2, 63). wJ" turannivda ga;r h[dh e[cete
aujthvn, oramai
l’avete come una tirannide, e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo
sarebbe pericoloso. L’inerzia infatti non salva - to; ga;r
a[pragmon ouj swv/zetai se non
è schierata con l’attività.
Cfr. quanto dirà Cleone "turannivda e[cete th;n ajrchvn", III 37, 2, avete un impero che è una tirannide che si esercita su
uomini ostili i quali non si lasciano comandare di buona voglia e la vostra
superiorità è basata più sulla vostra forza che sulla loro benevolenza (ijscuvi ma'llon
h] th'/ ejkeivnwn eujnoiva/ ).
Torniamo a Ovidio
I Remedia per
certi versi sono un controcanto all’Ars amatoria.
L'argomentazione didascalica dei Remedia
confuta l'elegia in uno dei suoi fondamentali presupposti ideologici: il
rifiuto della vita attiva, la scelta deliberata dell'otium desidiosum.
Se l'otium , la pigra mollezza, è alimento della malattia d'amore,
la guarigione comincia già dall'impegnarsi in una vita attiva: Remedia
amoris 143 s. qui finem quaeris amoris,/ (cedit amor rebus) res
age, tutus, eris "[23] .
L'ozio come responsabile dell'amore riprovevole viene
indicato anche da Menedemo, il punitore di se stesso, al figlio Clinia:"Nulla
adeo ex re istuc [24] fit
nisi ex nimio otio " (Heautontomorumenos [25], da nessun altro motivo reale deriva
questa tua smania se non dall'ozio eccessivo.
Una delle operosità raccomandate per sfuggire al
tormento amoroso è quella nell'agricoltura, " l'attività economica
tradizionale del signore romano, ma che è raccomandata come modello di vita in
cui i tratti dell'utile quasi cedono di fronte alle preponderanti attrattive estetiche
che può offrire una tenuta di campagna. E naturalmente, fra i modi di
combattere l'otium , non può mancare la passione per la caccia (e in subordine, per la
pesca): l'inconciliabilità fra
Diana e Venere è
una di quelle opposizioni fondamentali che sono addirittura registrate nel
codice antropologico.
Artemide dunque contro Afrodite
Cfr. l’Ippolito di Euripide dove la dea
dell’amore entra in scena dicendo: : Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk
ajnwvnumo" (v. 1), grande tra i mortali e non oscura.
La potenza di Cipride viene celebrata anche all'inizio
della Parodo delle Trachinie di Sofocle:"mevga ti
sqevno" aJ Kuvpri" ejkfevretai - nivka" ajeiv" (vv. 497 - 498), Cipride
porta con sé una grande potenza, sempre vittorie.
Mutatio locorum
Un aiuto per
dimenticare può venire anche da un lungo viaggio senza voltarsi indietro: se
l'amore è una guerra sia guerra scitica[26],
o partica: "tempora nec numera nec crebro respice Romam,/sed fuge;
tutus adhuc Parthus ab hoste fuga est " ( Remedia,
vv. 224 - 225). non contare i giorni e non voltarti spesso a guardare Roma, ma
fuggi, ancora il Parto si mette al riparo con la fuga.
Le metafore della caccia e della guerra sono impiegate non solo per
suggerire la fuga dall'amore: nell' Ars amatoria viceversa per
la ricerca amorosa:"Il
pregio maggiore dell'opera sta senza dubbio nel suo raffinato impianto
metaforico: l'amore è descritto come caccia e come guerra, e queste immagini
sono sviluppate con rigorosa coerenza (bagni, portici e spettacoli come terreni
di caccia, doni e dolci parole come esche, appostamenti sotto la porta
dell'amata come assedi)".
L'uomo al
pari del cacciator che sa bene dove tendere le reti ai cervi, (scit bene
venator, cervis ubi retia tendat , I, 45) deve imparare a
conoscere i luoghi frequentati dalle donne: portici, templi, fori, fontane, ma
soprattutto i teatri ( sed tu praecipue curvis venare theatris ,
I, 89, ma tu soprattutto vai a caccia nei curvi teatri ) dove il figlio di
Venere fa spesso le sue battaglie e chi ha osservato lo spettacolo di ferite,
ha una ferita:"Illa saepe puer Veneris pugnavit arena /et
,qui spectavit vulnera, vulnus habet " I, 165 - 166.
L'anfiteatro
dunque è un luogo di battaglie e ferite raccomandato per gli incontri erotici
che hanno una componente conflittuale come i ludi del circo. Le donne più
raffinate si precipitano ai giochi più frequentati:"Spectatum veniunt,
veniunt spectentur ut ipsae/; ille locus casti damna pudoris habet"
(I, vv. 99 - 100), vengono per osservare, vengono per essere loro stesse
osservate; quel luogo contiene perdite del casto pudore. -
Già Properzio aveva affermato
l'opportunità della ritirata altrove per salvarsi dalla pena amorosa:"Magnum
iter ad doctas proficisci cogor Athenas/ut me longa gravi solvat amore
via./Crescit enim assidue spectando cura puellae:/ipse alimenta sibi maxima
praebet Amor./Omnia sunt temptata mihi, quacumque fugari/ possit; at ex omni me
premit ipse deus./…Unum erit auxilium:
mutatis Cinthya terris/Quantum oculis, animo tam procul ibit amor./ Nunc agite,
o socii, propellite in aequore navem "III, 21, 1 - 6; 8 -
10), sono costretto a partire per un grande viaggio verso la dotta Atene perché
un lungo tragitto mi liberi da quest'amore opprimente. Cresce infatti
continuamente osservandola il tormento della ragazza: Amore si fornisce da solo
l'alimento più grande. Le ho tentate tutte, da qualunque parte si potesse
mettere in fuga; ma da ogni parte mi opprime lo stesso dio…resterà solo un
rimedio: mutato luogo, Cinzia, quanto dagli occhi tanto lontano andrà Amore dal
cuore. Ora avanti, compagni, spingete nel mare la nave.
Da Ovidio e Properzio dunque viene ribaltato il topos
dell'inutilità della mutatio locorum che si trova in Orazio :"Caelum, non
animum, mutant qui trans mare currunt/strenua nos
exercet inertia "
(Epistole, 1, 11, 27 - 28) , cambiano il cielo, non lo stato d'animo
quelli che corrono al di là del mare, un'irrequieta indolenza ci tiene in ansia.
Quindi Seneca scriverà:" Animum
debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius
noster, "terraeque urbesque recedant" [27],
sequentur te quocumque perveneris vitia " (Ep. a
Lucilio , 28, 1), l'animo devi cambiare, non il cielo. Anche se avrai
attraversato il mare immenso, anche se, come dice il nostro Virgilio,
"terre e città si allontanano", dovunque sarai giunto ti seguiranno i
vizi.
E ancora:" Nullum tibi opem feret
iste discursus; peregrinaris enim cum adfectibus tuis et mala te tua
sequuntur…Quid ergo? animum tot locis fractum et extortum credis locorum
mutatione posse sanari? Maius est istud malum quam ut gestatione curetur
...Nullum est, mihi crede, iter quod te extra cupiditates, extra iras, extra
metus sistat " (Ep. a Lucilio , 104, 17 - 19), questo
correre qua e là non ti porterà nessun vantaggio; infatti vai in giro con le
tue passioni e i tuoi vizi ti seguono… che dunque? credi che l'animo in tanti
luoghi ferito e slogato possa sanarsi col cambiar luogo? Il male è troppo
grande per essere guarito con una passeggiata...Non c'è viaggio, credimi, che
ti metta al riparo dalle passioni, dall'ira, dal timore.
Tra i contemporanei il già citato Galimberti dubita che il
viaggiare da turisti possa davvero scuoterci l'anima: "La gente viaggia
(diceva Orazio: "Non è cambiando il cielo che si cambia animo")
probabilmente per un bisogno di evasione, per dare una scossa alla propria
condizione psicologica. Evasione vuol dire "uscir fuori", ma non mi
pare che nei viaggi si esca davvero fuori". Infatti è tutto prenotato,
codificato, previsto. "Del viaggio perdiamo dunque l'ultimo scrigno
segreto che potrebbe offrirci: lo spaesamento"[28].
“I ‘bennati’ sentivano se stessi
come ‘felici’… poi essi, uomini
superdotati di forza e perciò stesso necessariamente attivi, riuscivano a non separare l’agire dalla felicità -
l’essere attivi era per loro considerato come qualcosa di attinente
necessariamente alla felicità (da cui eu\
pravttein) - tutto ciò in
netto contrasto con la “felicità” a livello degli impotenti, degli oppressi,
dei piagati”[29].
L’Edipo a
Colono, l’eroe della passività, di Sofocle però mostra ancora nel
modo più puro l’accento di una conciliazione proveniente da un altro mondo.
Ismene dice al padre: nu`n ga;r qeoiv sj ojrqou`si, provsqe d’ w[llusan (394)
Dopo Sofocle
non c’è più consolazione metafisica, bensì l’eroe che fa un buon matrimonio o,
come il gladiatore, viene prima scorticato poi riceve la libertà. E al posto
della consolazione metafisica subentra il
deus ex
machina. La
consolazione metafisica degenera in culto segreto. La serenità greca diventa
voglia di vivere senile e improduttiva. L’aspetto più nobile di questa tarda
serenità è la serenità dell’uomo teoretico che dissolve comunque il mito e
utilizza il dio delle macchine e dei crogiuoli.
E’ il
credere a una correzione del mondo per mezzo del sapere, credere a una vita
guidata dalla scienza. Una canuta
o calva assennatezza.
La logica imperialistica
Alcibiade "svolge
dinanzi all'assemblea popolare il disegno vertiginoso della conquista di tutta
la Sicilia e del dominio su tutta la Grecia, dichiarando che lo sviluppo di una
potenza come quella d'Atene non si può razionare: chi la detiene, non può
conservarla che con l'estenderla sempre più, giacché la sosta significa
pericolo di decadenza"[30]. Meritano di essere trascritte alcune parole di questo seduttore delle
donne e del popolo: "kai; th;n povlin, eja;n me;n
hJsucavzh/, trivyesqaiv[31] te aujth;n w{sper kai; a[llo ti"(VI, 18, 6) e la città, se rimarrà tranquilla si logorerà da sola, come qualsiasi altra cosa. Ecco dunque un personaggio in cui il
" carattere di tutta la stirpe è genialmente personificato: ciò spiega la
sua influenza irresistibile sul volgo, sebbene a questo egli fosse inviso per
il suo atteggiamento presuntuoso e altezzoso nella vita privata"[32].
Cfr. I Corinzi su gli Ateniesi in Tucidide
Insomma, sintetizzano i Corinzi, se uno, riassumendo, dicesse che sono nati
per non avere pace loro e non lasciare in pace[33] gli altri uomini, direbbe la
verità:"w{ste ei[ ti" aujtou;" xunelw;n faivh
pefukevnai ejpi; tw'/ mhvte aujtou;" e[cein hJsucivan mhvte tou;"
a[llou" ajnqrwvpou" eja'n, ojrqw'" aj;n ei[poi", I, 70, 9). Questo dinamismo psicologico degli Ateniesi dunque ne
spiega i successi:"In contrasto con lo sfondo della lentezza e indolenza,
dell'onestà di antico stampo e della ristretta perseveranza di Sparta, risalta
la descrizione della vivacità ateniese, in cui si mescolano l'invidia, l'odio e
l'ammirazione dei Corinzi: perpetua intraprendenza, grande slancio nel concepir
disegni come nell' osare, una flessibilità che fronteggia ogni situazione e non
viene meno neanche nell'insuccesso, anzi ne è spronata a più alte
imprese", commenta Jaeger[34].
Gli Ateniesi assomigliano all'Edipo di Sofocle.
Un Greco
vecchio non esiste, voi Greci siete sempre fanciulli”. Lo racconta Platone
nel Timeo[35]”[36].
L’irrisolutezza
Una
confutazione della supposta sintonia e complicità tra Euripide e Socrate[37] la
fornisce Fedra quando nell'Ippolito di Euripide dice:"bisogna
considerare questo:/il bene lo
conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk
ejkponou'men: il bene
topicamente costa povno" , fatica) , alcuni per infingardaggine (ajrgiva"
u{po),/ alcuni
anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio, diletto cattivo[38],
(scolhv, terpno;n kakovn)
l'irrisolutezza (aijdwv" te, una
forma brutta di aijdwv" ) "(vv.379 - 385). Può essere
anche la malattia come nel caso di Myškin
Nell’Idiota c’è
un deprezzamento evangelico dell’intelligenza.
Il
nichilismo e il terrorismo dei Demoni (1873)
Il
protagonista è Nicolaj Stavrogin cresciuto con la madre Varvara Petrovana e
l’aio Stepan Trofimovič, un adulto vanesio e infantile. Educato come i figli di
Ciro il Vecchio da donne e da eunuchi (cfr. Platone Leggi). Da
ragazzo viveva come nell’Enrico IV il principe Harry che
gozzovigliava con Falstaff. Stavrogin era bello, elegante, raffinato. Era
elegante con semplicità senza ricercatezza né affettazione. Era molto amato e
odiato: era bello e terribile, (deinov").
Conduceva
una vita derisoria fino a sposare una sciancata coperta di onta e di percosse.
La vergogna e l’insensatezza di quel matrimonio arrivava sull’orlo della
genialità. Aveva voluto storpiare la propria vita dopo avere sedotto una
bambina che poi si era impiccata e aveva sposato una demente innamorata di lui
alla follia
Era
straziato dal demone dell’ironia (sconosciuta questa a Myskin) Soffre di una
forma di exacerbatio cerebri. Sfidava sempre il buonsenso.
I nichilisti
volevano spargere una corruzione inaudiita. Un aristocratico quando passa alla
democrazia è affascinante. Stavrogin soffriva per la malattia
dell’indifferenza. I terroristi volevano gettare il paese nella disperazione
diffondendo una totale mancanza di fede in qualsiasi cosa. Far crollare lo
Stato e la sua moralità.
Alla fine
Stavrogin si impicca: “da me è uscita solo la negazione, senza alcuna forza,
anzi non è uscita nemmeno la negazione.
[1] Del 49 ca d. C. La brevità della vita umana ha dato parecchio da dire agli
scrittori e ai loro personaggi:"Scostatevi, vacche, che la vita è
breve", gridava Aureliano secondo in Cent'anni di solitudine di
G. G. Marquez (p. 202).
[3] Composto dalla negazione nec + otium .
[6] Egli esordisce dicendo: questo
si chiama bussare per davvero! Se un uomo fosse portiere dell'inferno (if a
man were porter of hell - gate) avrebbe l'abitudine antica di girare la
chiave (II, 3). Non "possiamo fare a meno di sentire che nel far finta di
essere il portiere dell'inferno egli è terribilmente vicino alla verità"
(Bradley, op. cit., p. 424).
[16]I, 1, 6, vivere senza alcun
proposito sano, secondo la docenza di Amor improbus che gli
insegnò perfino a odiare le ragazze caste:"donec me docuit. castas
odisse puellas " (v. 5).
[19] Scritto
socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto,
rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[24] Pronome neutro derivato da istud+ il
deittico - ce.
[26]Nel IV libro delle Storie Erodoto racconta la
fallita spedizione di Dario contro gli Sciti descrivendo i costumi di questo popolo e il loro modo di
guerreggiare: facevano terra bruciata e si allontanavano , una strategia non
molto diversa da quella dei Russi descritti da Tolstoj che in Guerra e
pace definisce ancora " piano di guerra scitica" quello
"mirante ad attirare Napoleone nelle regioni interne della Russia"
(p. 1031).
[33] Cfr. la Medea di
Seneca quando entra in scena Creonte che manifesta timore per la donna
barbara:"cui parcet illa,
quemve securum sinet?" (v. 182), chi risparmierà quella o chi
lascerà in pace?
[36] Salvatore Settis, Pericle,
nostro vicino di casa, “Il sole 24 ore”, domenica 31 agosto 2008, p. 27.
[37] Il quale nell'opera di Platone
sostiene che facciamo il male per ignoranza del bene, e, se solo conosciamo il
bene. non possiamo fare il male.
[38] Il piacere
dell'ozio come sirena che distoglie dal fare cose egregie è denunciato anche da
Tacito nell'Agricola:"subit quippe etiam ipsius inertiae
dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur " (3), infatti
si insinua anche il piacere della stessa passività, e alla fine si ama
l'accidia dapprima odiosa.
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