fare clic sulla locandina per ingrandirla |
Dalla conferenza Leopardi e gli Antichi tenuta il 15 aprile 2019 nella bibloteca Scandellara di Bologna
Seconda versione corretta e
ampliata
Il topos della fatica
Leopardi nell’Operetta
morale Il Parini ovvero della gloria[1] immagina
che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore incredibile ai
buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”. Una specie di alter ego di
Leopardi.
Gli dice che
la via (la methodos) per conseguire la gloria letteraria “non si
può seguire senza pregiudizio del corpo né senza moltiplicare in diversi modi
l’infelicità naturale del proprio animo”
Troverai
nella via che vuoi seguire “le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le
calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua
riputazione e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti
opporrà nel cammino che hai cominciato”.
Spesso
in seguito a tanta malevolenza “più di uno scrittore, non solo in vita, ma
eziandio dopo la morte, è frodato del tutto dell’onore che gli si dee”.
Per
giunta pochi sono capaci di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto
scrivere”. Chi non intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione
agli scrittori sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “ Or vedi a
che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarti e saper lodarti
degnamente, quando tu con sudori[2] e
con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera
egregia e perfetta”.
Inoltre la
reputazione di uno scrittore proviene “piuttosto da consuetudine ciecamente
abbracciata, che da un giudizio proprio”
Il giovane,
ossia Leopardi, ricorda che leggendo Virgilio anni prima “con piena libertà di
giudizio da una parte, e nessuna cura dell’autorità altrui, il che non è comune
a molti” con l’imperizia di quell’età, ma forse minore “di quella che in
moltissimi lettori è perpetua, ricusava fra me stesso di concorrere nella
sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtù che nei
poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta
prevalere a quella di Lucano”. Vedi che la moltitudine dei lettori (…) è molto
più dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle delicate e riposte;
più dall’ardire che dalla verecondia; spesso eziandio dall’apparente più che
dal sostanziale; e per l’ordinario più dal mediocre che dall’ottimo”.
La necessità
della fatica è una dichiarazione topica: Esiodo dice che davanti al valore gli dei hanno posto il
sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi;
propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla
mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n
eujtucei'''" (v.
945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[3] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa
Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica
e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu
povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
Così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno Spartano gli
disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui raggiante
di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di
buon sangue, ragazzo mio!”
Si assiste a
un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche altre. “Tipico
atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata una forma, essa rimane
valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni elemento nuovo deve
cimentarsi con essa”[4].
Sappiamo che
la cultura greca non si limita ai Greci.
In
tutt'altro contesto, il garrulus che attenta alla vita
di Orazio gli fa:
" nihil sine magno/vita labore dedit mortalibus"[5],
niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.
Alessandro Magno, che si riteneva
discendente di Achille e di Eracle, quando si preparava ad assediare Tiro
(estate del 332 a. C.), sognò che Eracle stesso lo introduceva in città.
L’indovino Aristandro interpretò la visione onirica dicendo che Tiro sarebbe
stata presa “xu;n povnw/ (…) o{ti kai; ta; tou` JHraklevou~ e[rga
xu;n povnw/ ejgevnetw. Kai; ga;r kai; mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva
ejfainevto”[6] con fatica… poiché anche le imprese
di Eracle erano avvenute con fatica. E in effetti anche l’assedio di Tiro si
presentava come una grande impresa.
Quando, giunti al fiume Ifasi[7], già oltre l’Indo, i soldati di
Alessandro Magno, si rifiutarono di attraversarlo e di procedere verso il
Gange, il condottiero macedone, per convincere l’esercito esausto a proseguire,
parlò ai soldati dicendo: “Pevra~ de; tw`n
povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh; aujtou;~ tou;~
povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin” (Anabasi di Alessandro, 5, 26, 1), il limite
delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro che le fatiche stesse,
quante di esse lo portano a grandi imprese”. Ma non riuscì a convincere quella
gente stremata.
Alessandro
Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e, ovviamente, le
impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti: Arriano racconta che dopo
la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire per la sua spedizione, il
giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora gli fu
annunciato che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava continuamente; quindi
l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta di Alessandro sarebbe
costato polu;~ povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2 - 3).
Dante mette
in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa della sua
Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo e terra/sì che m’ha
fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1 - 3).
Machiavelli nota
che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella vita
umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare molto nelle cose, ma
lasciarsi governare dalla sorte”.
Il
segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero
arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre
della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra
metà, o presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi…dimostra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti,
dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non
bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “ quel principe che s’appoggia tutto in sulla
fortuna, rovina, come quella varia” (Il principe, 25).
Gli eterni giovani sciocchi
Leopardi trova
che nella sua età prevalgano “creature”, giovani e anziane, infantilmente
insensate: "Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i
pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna,
come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi
vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini,
e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche[8] preparatorie"[9].
Mevga nhvpio~ è l'attardato bambino
pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento
anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un
tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano
astenersi da un’insolente prepotenza reciproca[10] (Esiodo, Opere e giorni, vv
130 - 135).
Nel Satyricon il retore Agamennone biasima i
genitori - parentes obiurgatione digni sunt - i quali, resi troppo
frettolosi dall'ambitio, non concedono agli studi dei figli i
lunghi tempi necessari alla formazione di una buona cultura e di buoni
oratori:"primum enim sic ut omnia, spes quoque suas ambitioni donant. deinde
cum ad vota properant, cruda adhuc studia in forum impellunt et
eloquentiam, qua nihil esse maius confitentur, pueris induunt adhuc
nascentibus. quod si paterentur laborum gradus fieri, ut studiosi
iuvenes lectione severa irrigarentur, ut sapientiae praeceptis animos
componerent, ut verba atroci stilo effoderent, ut quod vellent imitari diu
audirent, <ut persuaderent> sibi nihil esse magnificum, quod pueris
placeret: iam illa grandis oratio haberet maiestatis suae pondus" (4,
2 - 3), per prima cosa infatti sacrificano all'ambizione, come ogni altra cosa,
anche le proprie speranze. Poi, siccome si affrettano verso i desideri,
spingono nel foro talenti ancora acerbi e fanno indossare a ragazzini nemmeno
nati del tutto l'eloquenza, di cui pure riconoscono che non c'è nulla di più
grande. Se lasciassero, dico, che venissero scalati i gradini della fatica, in
modo che i giovani desiderosi di cultura si annaffiassero di letture serie, e
ordinassero le menti con le regole della sapienza, e cavassero le parole con
penna inesorabile, e ascoltassero a lungo quello che vogliono imitare, e si
convincessero che niente di ciò che piace ai ragazzi è magnifico: allora quella
grande oratoria avrebbe il peso della sua maestà.
I giovani
non sono più sottoposti a prove severe e non c'è abbastanza disciplina:"nunc
pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpius est,
quod quisque<puer> perpĕram didicit, in senectute confiteri non
vult " (4, 4), ora i ragazzi nelle scuole giocano, da giovani
fanno ridere nel foro, e cosa che è più vergognosa di entrambe queste, quello
che ciascuno da ragazzo ha imparato male, in vecchiaia non vuole ammetterlo.
Orazio nell’Ars
poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu,
versate diurna” (vv. 268 - 269).
Più avanti Orazio
suggerisce: “ carmen reprehendite quod non/ multa dies et multa litura
coercuit atque/ praesectum decies non castigavit ad unguem” (Ars poetica,
vv. 292 - 294), biasimate la poesia che né un lungo tempo né molte cancellature
hanno rifinito né dopo averlo sfrondato una decina di volte non ha corretto
fino alla perfezione.
I classici non passano mai di moda. Il problema della traduzione.
Leopardi ebbe a
scrivere "Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia"[11].
“Qualunque
stile moderno ha proprietà, forza, semplicità, ha sempre sapore di antico, e
non par moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non piace” (Zibaldone,
1988).
Tradurre i
classici come si deve significa imparare a scrivere: “La piena e perfetta
imitazione è ciò che costituisce l’essenza della perfetta traduzione, come
altrove ho detto. Or questo è ciò che sa fare la nostra lingua, e che non può
la tedesca, essendo altro il contraffarre, altro l’imitare” (1988).
Leggiamo
altre considerazioni del Recanatese sulla traduzione perfetta: “La perfezion della traduzione consiste in
questo, che l’autore tradotto,
non sia p. e. greco in
italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese.
Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” (Zibaldone,
2134). La lingua italiana la
quale è “piuttosto un aggregato di
lingue che una lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà
rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni
rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta
della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la
nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo:
e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata
figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma
per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” (Zibaldone,
964 e 965).
“Amava
moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un
aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la
libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica,
la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non
aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere
lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due
orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode
dell’amore”[12].
Ma sentiamo
Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della
lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua
sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in
uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale
troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che
compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di
Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di
Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone,
2717).
Leopardi ha
tradotto, di Isocrate, il Nicocle, A Demonico, A
Nicocle e l’Areopagitico.
Vediamo come
ha reso il pensiero sul culto della parola (“eij de; dei'
sullhvbdhn peri; th'~ dunavmew~ tauvth~ eijpei'n, oujde;n tw'n fronivmw~
prattomevnwn eurhvsomen ajlovgw~ gignovmenon, alla; kai; tw'n e[rgwn kai; tw'n
dianohmavtwn aJpavntwn hJgemovna lovgon o[nta, kai; mavlista crwmevnou~ aujtw'/
tou;~ plei'ston nou'n e[conta~”[13], “E
a dire di questa facoltà in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione
e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti
gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più intendimento ha, più la
suole usare”.
Questa di
seguito invece è la traduzione mia
“Se si deve
tirare le somme su questa potenza, troveremo che nulla di quanto è fatto con
intelligenza viene fatto senza la parola, ma che anzi la parola è guida delle
azioni e dei pensieri tutti, e che si avvalgono soprattutto di essa quelli che
hanno la più grande capacità di pensiero”.
Il classico non segue le mode, anzi, si presta
a essere usato contro le mode.
La moda è sorella
della morte. Infatti sono entrambe figlie della Caducità
Nel Dialogo
della Moda e della Morte, la Moda si presenta alla Morte “io sono la moda,
tua sorella”. E la Morte: “Mia
sorella?” “Sì - risponde la Moda - : non ti ricordi che siamo nate dalla
Caducità? (...) e so che l’una e l’altra tiriamo parimenti a disfare e a
rimutare di continuo le cose di quaggiù (…) la nostra natura e usanza comune è
di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle
persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli
abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono
però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come
verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli
colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli
uomini con istampe roventi…”[14].
Si pensi ai tatuaggi, alla chirurgia estetica e ad altre schifezze del genere
E
poi:”storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che
gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo
andare”.
La
Moda in conclusione vanta i suoi buoni meriti nei confronti della sorella:
“io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli
esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recate in pregio
innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita” Inoltre
“ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per
rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo
secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte”
Nel Dialogo
di Tristano e di un amico, il primo dice: “E gli uomini sono codardi,
deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre
dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro
vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna[15]”
La poetica sull’indefinito.
Nello Zibaldone
leggiamo: «le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e
piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse»
(1789). E, più avanti (4426): «il poetico, in un modo o in altro modo, si trova
sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago».
Il canto
corale delle tragedie, a più voci, entra in questa poetica del vago e
dell’indefinito.
Il coro infatti
è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione
dello charme dell'antica poesia e della letteratura. L'individuo è
sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha
bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla
scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804).
“Il
pubblico, il popolo, l’antichità, gli antenati, la posterità: nomi grandi e
belli, perché rappresentano un’idea indefinita” 2805
“Per grande
e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima di
individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o
concezione indeterminata ed immensa” 2806
La brevità necessaria.
Leopardi
apprezza molto anche la brevità degli autori.“Quanto una lingua è più ricca e
più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è
più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre
un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e
vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone,
1822).
“Non era
molto ciò che egli sapeva, ma un uomo intelligente sa con dieci parole dire
meglio che uno sciocco con cento”[16].
Si tratta del giovane Giuseppe
L’Anonimo Sul
sublime sconsiglia il polisindeto , la ripetizione delle congiunzioni
, poiché le congiunzioni smussano e fanno cadere l'aspro incalzare delle
passioni ( Sul Sublime, 21). Impacciare la passione con le
congiunzioni è come legare le membra di chi corre.
La
semplicità, l'essenzialità elegante è distintiva dello stile stesso di Orazio
poeta. Lo si può ricavare da queste parole di Nietzsche :"Non ho mai
provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento artistico che mi
dette, fin dal principio, un'ode di Orazio. In certe lingue quel che lì è
raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole in
cui ogni parola come risonanza, come posizione, come concetto fa erompere la
sua forza a destra, a sinistra e sulla totalità, questo minimum nell'estensione
e nel numero dei segni, questo maximum , in tal modo
realizzato, nell'energia dei segni - tutto ciò è romano e, se mi si vuol
credere, nobile par excellence . Tutto il resto della poesia
diventa in paragone qualcosa di troppo popolare - nent'altro che loquacità
sentimentale"[17].
Il bello e l’utile.
Il kalovn e il sumfevron: cfr. la Medea di
Euripide dove Giasone "dra'/ ta; sumforwvtata " (v. 876) fa quello che
è più utile, come riconosce la moglie abbandonata, quando finge di
sottomettersi beffeggiandolo.
Leopardi in Il pensiero dominante del 1831 condanna
l’ossessione dell’utile da parte della sua età "Di questa età superba,/
che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la
vita/quindi più sempre divenir non vede/ maggior mi sento"(vv. 59 -
65).
Giasone
ricaverà dolore dal suo privilegiare l’utile.
Ancora più
duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi del 1835:" E già dal
caro/sangue de’ suoi non asterrà la mano/la generosa stirpe; anzi coverte/fien
di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar, fresca nutrice/di pura
civiltà, sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di
cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia
ch'ad auro torni"(vv. 59 - 67).
La terapia del rovesciamento: mettersi nei panni (o nei piedi degli
altri).
Nella commedia L’arbitrato (Epivtreponte") di Menandro (342 -
291), Carisio, il marito che si crede tradito, comprende che l'errore sessuale
della moglie Panfile, presunto, ma da lui ritenuto reale, è stato un
"involontario infortunio della donna"( ajkouvsion
gunaiko;" ajtuvchm j, v. 594).
Il
protagonista di questa commedia ripropone la formula antica della dovxa , la reputazione, ma poi la
supera.
Carisio
definisce se stesso, ironicamente, l'uomo senza peccato attento alla
reputazione ( ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan
blevpwn, v. 588) e
comprende che l'errore sessuale della moglie è stato un ajkouvsion
gunaiko;" ajtuvchm j.
Quell’ ejgwv ti"
ajnamavrthto" anticipa
il Vangelo di Giovanni:"chi
di voi è senza peccato scagli la pietra per primo contro di lei, oJ
ajnamavrthto" uJmw'n prw'to" ejp j aujth;n balevtw livqon (8, 7). Qui
non si tratta di un adulterio presunto. Infatti gli scribi e i farisei portano
al tempio una donna còlta in adulterio (mulierem in adulterio deprehensam ,
8, 3) e chiedono al Cristo, che insegnava in quel luogo, se dovesse essere
lapidata secondo la legge mosaica. Lo dicevano per metterlo alla prova e magari
poterlo accusare. Gesù allora si diede a scrivere con il dito sulla terra. E
siccome lo incalzavano, il Redentore, rizzatosi, disse loro:" qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat ". E riprese a scrivere per
terra. Tutti gli altri uscirono, e il Cristo, rimasto solo con la donna, la
assolse, come tutti gli altri, aggiungendo:"vade et amplius iam noli
peccare " (8, 11), vai e non peccare più.
Se è
credibile quanto ha scritto Celso nel Discorso vero ( anni di
Marco Aurelio) Gesù si è messo nei panni dell’adultera pensando alla propria
madre. E non lo scrivo per disonorare Gesù né Maria.
Ma sentiamo
Celso
Di lui ci è
arrivata, e soltanto in parte, un'unica opera, l'Alethès lógos (tradotto
in genere come La vera dottrina, La vera parola, Discorso
vero, Discorso di verità) contro la religione
cristiana, ricostruita grazie alla confutazione che ne propose Origene nel secolo successivo in
un'opera, Contro Celso, che ne contiene ampi stralci per
confutarli (e dall'opera origeniana deriva il numero del libro e del capitolo
con cui i brani sono citati).
Di esser
nato da una vergine, te lo sei inventato tu [Gesù]. Tu sei nato in un villaggio
della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a
giornata. Questa fu scacciata dal marito, di professione
carpentiere, per comprovato adulterio.
Ripudiata dal marito e ridotta a un ignominioso vagabondaggio, clandestinamente
ti partorì. A causa della tua povertà, hai lavorato come salariato in Egitto, dove sei diventato esperto in
taluni poteri, di cui vanno fieri gli Egiziani.
Poi sei tornato, e insuperbito per questi poteri, proprio grazie ad essi ti sei
proclamato figlio di Dio. Tua madre, dunque, fu scacciata dal falegname, che
l'aveva chiesta in moglie, perché convinta di adulterio e fu resa incinta da un
soldato di nome Pantera[13].
Ma l'invenzione della nascita da una vergine è simile alle favole di Danae, di Melanippe, di Auge e di Antiope.» (I, 28)
Leopardi: “gli
scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla
partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella
forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo
proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama
comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon
maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza
nel saperla comunicare (…) E l’immaginazione necessaria alla comunicativa è
sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici”[18].
E più
avanti: “Ma il gran torto degli educatori è di volere che ai giovani piaccia
quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non
differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di
desiderii ec., che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l’età de’
loro allievi e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto
prescindere…di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della
necessità suppliscano all’esperienza ec.”[19].
Le quattro parti della vita in Orazio
Orazio
nell' Ars poetica[20] distingue
le quattro diverse parti che ciascuno di noi recita nella vita. Dobbiamo
ricordarcene noi insegnanti per avvicinarci alla comprensione dei nostri
ragazzi.
Dunque:"aetatis
cuiusque notandi sunt tibi mores" (156), devi badare bene ai costumi
specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle
varie età: il puer gestit paribus colludere (159), smania di
giocare con i suoi compagni, e cambia umore spesso: et mutatur in horas (160).
Poi c’è l' imberbus
iuvenis il giovinetto imberbe il quale gaudet equis canibusque,
è cereus in vitium flecti, facile come la cera a prendere
l'impronta del vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Più avanti
negli anni, conversis studiis aetas animusque virilis/, quaerit
opes et amicitias, inservit honori (vv. 166 - 167), cambiate le inclinazioni,
l'età e la mente adulta cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista
del potere.
Infine c'è
il vecchio:"difficilis, querulus, laudator temporis acti/se puero,
castigator censorque minorum" (vv. 173 - 174), difficile, lamentoso,
elogiatore del tempo trascorso da ragazzo, critico e censore dei giovani.
Sono dunque quattro atti che
recitiamo in quattro parti diverse, con quattro aspetti diversi.
Sentiamo
anche Shakespeare che
distingue sette parti nella recita della vita.
:" All
the world's a stage - And all the men and women merely players" (As
you like it [21], II,
7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che
attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro
entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti,
poiché sette età costituiscono gli atti della vita umana". Segue la
descrizione dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro
piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso infreddolito,
striscia come una lumaca malvolentieri alla scuola - creeping like snail unwillingly
to school - "; poi il terzo quello dell' innamorato "che sospira
come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia
dell'amata". Infine "l'ultima scena, che chiude questa storia strana
e piena di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza
vista, senza gusto, senza nulla".
La fine della recita di Augusto
Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena
di Augusto il quale supremo die , fattisi mettere in ordine i
capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur
mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che avesse
recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi
con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti - e[coi
kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo,
applaudite.
La “corta
buffa (…) per che l’umana gente si rabbuffa”[22] era
giunta al termine.
Epitteto afferma
che noi siamo solo attori nel dramma della vita, poiché il regista che assegna
le parti è un altro: allora “il tuo compito è “uJpokrivnasqai
provswpon kalovn” recitare
bene la parte, ma sceglierla è affare di un altro: “ejklevxasqai d
0 aujto; allou” (Manuale,
17)
CONTINUA
[3] Scritto
socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto,
rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita
pratica
[9] Dialogo di Tristano e di un
amico (1832). E’ una delle Operette morali delle
quali l’autore scrive:"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io
mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle
Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone , 1394).
[10] Nhvpio" è l’idiota che non sa parlare (nh - e[po"): cfr. quanto scrive Pasolini
sull’atroce afasia che prelude alla violenza.
[15] Or, lasso, alzo la mano, e
l’arme rendo/a l’empia e violenta mia fortuna” (Canzoniere, CCCXXXI,
Canzone XXVI vv. 7 - 8)
Nessun commento:
Posta un commento