Pericle |
Dalla conferenza Leopardi e gli Antichi, 15 aprile 2019, biblioteca Scandellara di Bologna
Il bello con semplicità. Il brutto dell’affettazione
Tucidide, II, 40, 1
Dal logos epitafios pronunciato
da Pericle nell’inverno 431 – 430:
Difatti amiamo il bello con
semplicità e amiamo la sapienza senza mollezza; ci serviamo della ricchezza più
quale occasione per agire che come vanteria di parole, e l’essere povero non è
vergognoso ammetterlo per alcuno di noi, ma è vergognoso piuttosto non evitarlo
con l’operosità
Leopardi avverte che la semplicità
viene fraintesa dagli imbecilli: “E’ curioso vedere, che gli uomini di molto
merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono
prese per indizio di poco merito. (Firenze, 31 Maggio 1831)”[1].
Sentiamolo elogiare la semplicità e
condannare l’affettazione, la quale ne è l’antitesi: “La semplicità è quasi
sempre bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia nel portamento, negli
abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama il semplice (…) La semplicità è bella
perché spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si chiama semplice una
cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima semplice, ma solo
perché è naturale, non affettata, non artifiziata, semplice in quanto agli
uomini, non a se stessa, e alla natura ec. Per queste, e non per altre ragioni,
la semplicità forma parte essenziale, e carattere del buon gusto, e sebbene gli
uomini se ne possono allontanare, certo però vi tornano, cioè tornano alla
natura, la quale nelle cose essenziali è immutabile. Perciò le poesie e
scritture greche saranno sempre belle, non riguardo al bello in se stesso, ma
riguardo alla semplicità e naturalezza loro”[2].
Cicerone consiglia una semplicità
elegante al suo gentiluomo quando pone le basi del galateo nel De
officiis [3]: “Quae sunt recta et simplicia
laudantur. Formae autem dignitas coloris bonitate tuenda est,
color exercitationibus corporis. Adhibenda praeterea munditia est non odiosa
nec exquisita nimis, tantum quae fugiat agrestem et inhumanam
neglegentiam. Eadem ratio est habenda vestitus, in quo, sicut in plerisque rebus,
mediocritas optima est” ( I, 130), viene lodata la naturalezza e la semplicità. Ora la dignità
dell'aspetto deve essere conservata mediante il bel colore dell'incarnato, il
colore con gli esercizi fisici. Inoltre deve essere impiegata un'eleganza non
sfacciata né troppo ricercata, basta che eviti la trascuratezza contadinesca e
incivile. Lo stesso criterio si deve adottare nel vestire dove, come nella
maggior parte delle cose, la via di mezzo è la migliore.
Pirra di Orazio è simplex
munditiis (Odi I, 5, 5).
E' pure degna di menzione la polemica di Schopenhauer contro la filosofia arzigogolata e oscura delle università, fatta di
"ghirigori che non dicono nulla, e offuscano con la loro verbosità perfino
le verità più comuni e più comprensibili"[4].
La
semplicità si radicalizza nella neglegentia - ajmevleia (sprezzatura).
Così Petronio elegantiae
arbiter, raffinato gaudente, maestro di buon gusto alla corte di Nerone,
viene descritto da Tacito: “habebaturque
non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac
dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia,
tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur" (Annales,
XVI, 18), ed era considerato non un dissoluto o un dissipatore, come i più
tra quelli che sperperano le proprie fortune, ma uomo dalla voluttà raffinata.
Le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una
certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di
semplicità.
Un correlativo stilistico letterario
di questa neglegentia è l'ajmevleia che l'Anonimo Sul sublime [5] attribuisce a Omero e ad altri grandi della letteratura dell’oratoria
e della filosofia come Sofocle, Pindaro, Demostene e Platone. L'autore annovera Omero tra i grandissimi nei quali egli stesso ha rilevato non
pochi difetti ("oujk ojlivga...aJmarthvmata") i quali però non sono errori volontari ma piuttosto sviste dovute a
casuale noncuranza ("paroravmata di' ajmevleian eijkh'/") e
prodotte distrattamente dalla stessa grandezza dell’autore. Le nature
eccellenti non sono senza difetti. Apollonio e Teocrito sono senza mende. Ma
non preferiresti - domanda retoricamente l’Anonimo - essere Omero piuttosto che
Apollonio? Anche Sofocle ha qualche caduta di tono poetico, ma nessuno con un poco di senno
scambierebbe il solo Edipo re con tutti i drammi di Ione di
Chio (33).
Analoga valutazione estetica si trova nel Prologo dell'Andria dove Terenzio si difende dall'accusa
di contaminatio menzionando i suoi maestri Nevio, Plauto,
Ennio:" quorum aemulari exoptat neclegentiam/potius quam istorum
obscuram diligentiam" (vv. 20 - 21), dei quali preferisce cercare di
eguagliare la negligenza piuttosto che la buia diligenza di costoro, ossia del
malevolo vecchio poeta (vv. 6 - 7) Luscio Lanuvino e degli altri detrattori.
Leopardi:
elogio della negligenza, critica della diligenza
Sulla “negligenza” dei sommi scrittori, da Omero in avanti, anche Leopardi dà un giudizio positivo:
“Così i poeti antichi non solamente non pensavano al pericolo in cui erano di
errare, ma (specialmente Omero) appena sapevano che ci fosse, e però
franchissimamente si diportavano con quella bellissima negligenza che accusa
l’opera della natura e non della fatica. Ma noi timidissimi, non solamente
sapendo che si può errare, ma avendo sempre avanti agli occhi l’esempio di chi
ha errato e di chi erra, e però pensando sempre al pericolo… non ci arrischiamo
di scostarci non dirò dall’esempio degli antichi e dei Classici… ma da quelle
regole (ottime e Classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e
diamo in voli bassi né mai osiamo alzarci con quella negligente e sicura e non
curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere
dell’arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di farne
delle ottime, e ne facciamo delle mediocri… insomma non c’è più Omero Dante
l’Ariosto, insomma il Parini e il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun
difetto”. (Zibaldone, 9 - 10).
A me Parini “morale” e non cortigiano oiace più di ariosto.
Più avanti Leopardi sostiene che Ovidio “con quel tanto aggirarsi intorno
agli oggetti… fa manifesta la diligenza, e la diligenza nei poeti è contraria
alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre agli oggetti
imitati, è una bella negligenza e questa è quella che vediamo negli antichi,
maestri di questa necessarissima e sostanziale arte, questa è quella che
vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec…” (Zibaldone, 21).
Io non trovo una “bella negligenza nell’Ariosto, né nel Petrarca”
Ancora: “Non solo, come ho spiegato altrove, si fa male quello che si fa
con troppa cura, ma se la cura è veramente estrema, non si può assolutamente
fare, e per giungere a fare bisogna rimettere alquanto della cura e della
intenzione di farlo (24 Agosto 1821)” (Zibaldone, 1854).
Questa di Leopardi è un’idea della poesia contraria a quella di Callimaco,
vicina invece a quella dell’Anonimo Sul sublime.
“Per gli errori dei grandi uomini occorre avere rispetto perché sono più
fecondi delle verità dei piccoli”[6].
L’opposto della semplicità è l’affettazione
Leopardi trova grande saggezza e verità
in queste parole: “Grazia del contrasto. Conte Baldessar Castiglione, il libro
del Cortegiano[7]… Ma avendo io già più volte pensato meco,
onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una
regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose
umane, che si facciano, o dicano, più che alcun altra; e ciò è fuggir quanto
più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per
dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che
nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e
quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia” (Zibaldone,
2682).
A proposito dell’affettazione nello
scrivere: “l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò
appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli
atti della vita umana, è la naturalezza (28. Feb. 1821)[8].
Baldassarre Castiglione il Il
cortegiano prescrive al gentiluomo di fuggire sopra tutto "la
ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si
còncita odio e stomaco da chi ode" (I, 17). Egli deve schivare
"quanto più si pò, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione;
e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa
sprezzatura", ossia una studiata disinvoltura, "che nasconda l'arte e
dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi.
Da questo credo io che derivi assai la grazia…” (I, 26).
"Questa virtù adunque contraria
alla affettazione… chiamiamo sprezzatura" (I, 28).
CONTINUA
[5] Trattato, anonimo appunto, generalmente attribuito a un retore della
prima metà del I secolo d. C. Dovrebbe essere un seguace di Teodoro di Gadara
che ebbe tra gli allievi anche l'imperatore Tiberio. La sua scuola sosteneva
l'anomalia e l'elemento patetico che conferisce efficacia persuasiva al
discorso.
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