Nuova
Lettura e commento riveduto del I capitolo del libro
La mente inquieta. Saggio sull'Umanesimo
di Massimo Cacciari (Einaudi,
Torino, 2019)
Giovanni Ghiselli
ne illustrerà i punti chiave attraverso la luce degli autori greci e latini.
Martedì 9 aprile 2019 dalle 17.30 alle 19.00
Liceo “CARLO MONTANARI” Palazzo Ridolfi-Da Lisca
Stradone Maffei 3 Verona
INGRESSO LIBERO
Premessa
Nel
corso dei miei decenni di insegnamento ho constatato che il nesso tra filologia
e filosofia, chiarito nel primo capitolo (Humanismus o Umanesimo?) è
non solo reale nei fatti ma indispensabile per l’educazione dei giovani nella
scuola, e pure necessario se si vuole ottenere la loro attenzione, suscitare il
loro interesse, e rilanciare lo studio dei classici.
La
chiara visione di tale idea richiede “una lunga esperienza delle cose moderne
et una continua lezione delle antique”, ossia molto studio, molta conoscenza e
non poca sensibilità, compreso un certo amor proprio.
Faccio
un esempio tratto dalla mia esperienza di insegnante. Quando cominciai a
insegnare nel liceo classico di Imola nel 1975, dopo avere studiato nel liceo
classico di Pesaro e lettere antiche nell’Università di Bologna, trovai
adottato dal collega precedente l’ Edipo re di Sofocle. Lo
traducevo e lo commentavo quasi solo con note grammaticali e sintattiche, la methodos che
mi avevano insegnato via via i professori assegnatimi dal caso.
In
questa methodos invero non c’era né filosofia né filologia.
I
ragazzi non mi ascoltavano. Domandai perché. Risposero : “di traduzioni
stampate ce ne sono tante, i paradigmi sono nel vocabolario, la grammatica e la
metrica le abbiamo studiate al ginnasio. Siamo arrivati all’ultimo anno di
questo ciclo, dobbiamo affrontare un esame di maturità e abbiamo bisogno di
altro. Lei, dopo gli studi universitari, dovrebbe essere in grado di aiutarci”.
In quel momento non lo ero: all’Università mi avevano insegnato, poi richiesto
agli esami poco più che la traduzione dei testi. Indispensabile, per carità, ma
quasi solo quella.
Gli
ottimi studenti di allora mi suggerirono di commentare l’Edipo da portare alla
maturità con Paideia di Jaeger, poi con La nascita della
tragedia di Nietzsche, con la Poetica di Aristotele e
con l’Estetica di Hegel.
Avevano
un bravo insegnante di filosofia. Mi vergognai della mia ignoranza e della mia
pochezza. Volevo farmi ascoltare, fare piacere Sofocle e pure fare piacere me
stesso a quei ragazzi, sicché mi diedi a studiare quei testi con tutto il tempo
e le forze che avevo. Dopo qualche tempo i miei studenti, non più distratti,
prendevano appunti.
I
risultati di quei mesi di studio mi hanno invogliato a procedere con tale
impegno, laborioso tanto “che m’ha fatto per più anni macro”.
Soprattutto
La nascita della tragedia li interessò, forse anche perché ne ero
rimasto affascinato io per primo. Non solo sulla tragedia ma su buona parte
della letteratura e della filosofia dei Greci avevo capito più da questa breve
opera giovanile di Nietzsche che da cinque anni di liceo e quattro di
Università.
Sono
ancora grato a quegli adolescenti ora sessantenni. Non avevo fatto della
filosofia né mi ero addentrato nella filologia, ma avevo trovato il modo di
farmi ascoltare, di fare capire a quei giovani che quanto scrivono i tragici e
gli altri auctores riguarda anche loro. E avevano pure capito
che li avrei preparati bene a un esame di maturità ancora serio.
Passiamo
ora a esaminare e commentare alcuni punti del primo capitolo Humanismus o Umanesimo? (pp. 3 - 14) del libro di Massimo
Cacciari
Fanno
la prima comparsa gli autori che verranno presentati nei prossimi capitoli.
Sono i protagonisti della filosofia del Quattrocento.
Una
filosofia messa in dubbio da diversi studiosi
“Pico,
ad esempio, giunge certo a definire “la vera e autentica humanitas non
con l’ausilio della filologia ma della filosofia”[1] ,
tuttavia la sua concezione della matematica rimane ‘magica’ e la concatenazione
tra le diverse componenti del pensiero irrisolta” (p. 4)
Il
beneficio del dubbio nemmeno sussiste per Ficino il cui platonismo può essere
considerato “una pia quaedam philosophia[2], che
filosofia in fondo non è” (p. 5)
Kristeller
ha denunciato la emptiness teoretica dell’Umanesimo in Studies
in Renaissance Thought Letters Roma, 1984).
“Così
per Curtius, che pure ha fornito con Letteratura europea a medioevo
latino (1948) anche un’indispensabile genealogia dell’Umanesimo, la
tradizione da cui esso nasce è esclusivamente quella degli studi di grammatica,
retorica, storia, poesia; la filosofia non vi ha quasi parte. La tendenza
fondamentale, che proviene sostanzialmente da Burckhardt, rimane quella di
concepire l’Umanesimo sotto il segno esclusivo dell’arte (…) o
dell’affermazione dell’individuo come poihthv", potenza
formatrice, creatrice, tettonica”[3]
(p. 5)
“Ma
forse che questa grande arte avrebbe mai potuto nascere senza un’implicita
filosofia dell’arte?” (p. 5)
Il
vir bonus dicendi peritus di Quintiliano “non solo deve essere
inteso optima sentientem, optimeque dicentem, ma mostrarsi capace di
condurre con il suo eloquente sapere gli uomini alla civilitas”
(p. 6)
Da
Salutati a Palmieri , all’Alberti del De iciarchia[4],
l’Umanesimo traduce l’aristotelico politikov" con civilis (p.
6)
Nella
Prefazione della Institutio oratoria leggiamo chel’oratore perfetto
esse nisi vir bonus non potest , ideoque non dicendi modo
eximiam in eo facultatem sed omnes animi virtutes exigimus ( 9)
In
primo luogo troviamo vir bonus.
Il
compito dell'oratore è elevato da Quintiliano a missione civile e umana e la
perfezione morale è considerata presupposto indispensabile della perfezione
oratoria, in conformità con i precetti di Catone (per cui l'oratore doveva
essere vir bonus dicendi
peritus[5]) e con la dottrina stoica.
L’imperatore
Giuliano (361 - 363) viene definito da Eutropio civilis in cunctos (X
16, 3). “il concetto di civilitas sostituisce ora (o, per lo
meno, definisce più precisamente) quello di humanitas; e come il
circolo degli Scipioni, a metà del II secolo a. C. aveva elaborato il concetto
di humanitas contrapposta alla ferocia (della humanitas,
insomma, per cui si è “uomini”, non si è feri), allo stesso
modo ora si contrapponeva l’essere civilis all’essere ferox” [6]
“Retorica essenzialmente
politica, dunque civilis sapientia (…) E come non avvertire in
quella stessa espressione anche il problema del nesso tra filo - logia e filo -
sofia? ’” (p. 6)
Il significato della filo - logia
umanistica è stato impoverito anche da alcuni dei più importanti maestri della filologia
classica tra Ottocento e Novecento.
Wilamowitz in Geschichte
der Philologie - Storia della Filologia - ha scritto che gli
umanisti del Quattrocento forse con la sola eccezione di Valla” non furono
affatto fililogi, ma esclusivamente letterati, pubblicisti, insegnanti” [7]
A
propsito di La nascita della tragedia di Niezsche, Wilamowitz
ha scritto che apollineo e dionisiaco sono astrazioni estetiche come poesia
ingenua e sentimentale in Schiller.
L’Umanesimo
è stato poco compreso
“Se
tanti filosofi contemporanei non cercano nell’Umanesimo che una traccia della
propria filosofia, i Wilamowitz fanno loro eco riducendolo al servizio della
propria filologia. I primi sembrano non intendere che la peculiare filosofia
dell’umanesimo consiste proprio, anzitutto, nel valore e nel significato che si
attribuisce al termine filologia (prospettiva ermeneutica pure avvertita da
Gentile) ; I secondi non comprendono l’intrinseca natura filosofica dell’amore
- studio per il logos, nel suo significato più complesso, che anima tutti i
protagonisti dell’epoca” (p. 7)
“L’Humanismus della grande filologia tedesca a
cavallo del secolo svolse un ruolo decisivo nella battaglia culturale attorno
alle idee di Zivilisation e Kultur (…)
L’impostazione rigorosamente storicistica si fondeva, in una personalità ‘di
grosso formato’ come Wilamowitz, con
l’idea di un finalismo della volontà (che rovesciava proprio col ricordarlo
quello schopenhaueriano) teso alla realizzazione di una forma di
vita opposta al Nervenleben metropolitano (la vita
nervosa causata dalla grande città p. 8), all’individualismo e al relativismo
della Zivilisation, e capace di analizzare plasticamente, nel
contemporaneo, il senso della paideia classica”.
Lukács
sulla “distruzione della ragione” in Nietzsche e in Schopenhauer.
Lukács
vede in Dioniso, nel Dioniso interpretato da Nietzsche il paradigma mitico della classe dominante
che si è trasformata da decadente in attivista. “Dioniso è il simbolo
mitico di questa conversione della classe dominante…il predominio dell’istinto sull’intelletto e sulla ragione (perciò
nell’opera giovanile la figura di Socrate è contrapposta a Dioniso)…Dioniso appare come il simbolo della
decadenza gravida dell’avvenire e degna di approvazione, della decadenza dei forti, in
opposizione al fiacco e deprimente pessimismo (Schopenhauer) e alla liberazione
degli istinti con accenti plebei (Wagner)…Il dio di questa decadenza
“riscattata” e convertita in attività è Dioniso; sue caratteristiche sono
crudeltà e sensualità”[8].
“Nietzsche
combatte il romanticismo, ma in maniera tale, che al romanticismo “deteriore”,
decadente, oppone un romanticismo “buono”: il dionisiaco”[9].
Tornare alla Grecia per conservare la nostra
civiltà.
Questo
programma dell’Humanismus traeva ispirazione da foni diverse e
anche contraddittorie tra loro, dal Goethe del viaggio in Italia, dalla Romantik e
dal mitico fondatore dell’Università di Berlino (1809), Karl Wilhelm von
Humboldt, un programma che teneva comunque ferma come propria arché l’Ellade
(“la patria migliore” la chiamava Humboldt). Il logos greco diventava così
norma, idea regolativa della nuova Bildung (p. 8)
Ai
dotti “spettava il dovere di far comprendere , nella crisi del
presente, che riaccostarsi alla Grecia è il solo mezzo di cui si dispone
per conservare la nostra civiltà” (p. 9).
Immagino
che conservare in corsivo sia dialetticamente opposto alla renovatio e
al risvegliare il presente del capitolo secondo (p. 15).
“Platone
in greco, Goethe in tedesco, Paolo in religione tempreranno lo spirito dei
nostri giovani rendendoli immuni dalle malattie del presente” proclamava
Wilamowitz. Una “necessità dello spirito”, dunque, concepire la cultura
classica come fondamentale Sinnstiftung, fondazione di senso per la
crisi della civiltà europea”
Cacciari
poi cita le parole comclusive della prima edizione (1933) “del memorabile Paideia di
Werner Jaeger: “La mia esposizione si rivolge non solo ai dotti, ma a tutti
coloro che nello sforzo dell’età presente per conservare la nostra civiltà più
volte millenaria, cercano oggi di riaccostarsi alla grecità”.
Queste
parole riassumono, alla luce spettrale della tragedia ormai irreversibile della
Germania e dell’Europa, il senso delle origini e dell’umano sviluppo
dell’Humanismus” (p. 9).
Mi
sento di accostare le parole di Jaeger a queste che, mutatis rebus,
Thomas Mann fa dire a Serenus Zeitblom nel Doctor Faustus (1947):
"non posso far a meno di contemplare il nesso intimo e quasi misterioso
fra lo studio della filologia antica e un senso vivamente amoroso della
bellezza e della dignità razionale dell'uomo (...) dalla cattedra ho spiegato
molte volte agli scolari del mio liceo come la civiltà consista veramente
nell'inserire con devozione, con spirito ordinatore e,
vorrei
dire, con intento propiziatore, i mostri della notte nel culto degli dei"[10].
E’ il caos che si fa cosmo. E’
quello che aveva fatto Eschilo nell’Orestea.
Faustus
muore nell’estate del 1940: “La Germania, coi pomelli accesi, traballava allora
al colmo dei suoi orrendi trionfi”[11].
Il
25 aprile “le nostre città, estenuate e schiantate, cadono come pere mature (…)
tra i grandi del regime, che avevano sguazzato nel potere, nella ricchezza e
nell’ingiustizia, infuria, giudice supremo, il suicidio” (p. 655)
L Humanismus indica l’’uomo
classico come paradigma
L’Humanismus dunque
“pur contrastando ogni tendenza vitalistico - irrazionalistica, e perciò in
polemica con la filologia di George - Kreis (…) aveva rivendicato alla
serietà scientifica della propria ricerca la capacità di
pervenire a una Vollbild, a una rappresentazione completa
dell’uomo’classico’ , in grado di valere come paradigma, modello o idea - guida
per la Bildung o Formung non solo
dell’individuo ma dell’intera comunità (…) Tra la guerra e la fine della
repubblica questo ideale muore; la disgregazione dell’ethos sociale
che ne era il presupposto, l’abisso tra il suo ellenocentrismo e il prepotente
affermarsi di mitologie “gotiche” (l’espressione è di Pasquali), travolgono il
significato complessivo dell’Humanismus e ne mettono, a un tempo,
in evidenza le contraddizioni e i limiti filosofici (p. 10)
E
questi verranno attribuiti allo stesso Umanesimo storico
Nietzsche
poté presentire il crollo dell’idea di civiltà che l’Humanismus aveva cercato
di ri - formare.
Cacciari
nota che la famosa polemica all’uscita della Nascita della tragedia (1872)
è stata enfatizzata al punto da far dimenticare “la formazione comune delle due
personalità e alcuni tratti profondamente affini della loro filologia
Wilamowitz
demolì La nascita della tragedia del 1872 con un
violento pamphlet dello stesso anno: Filologia
dell’avvenire! Replica a La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche.
Wilamowitz,
fondamentalmente, non condivideva l'idea che Euripide e Socrate fossero stati gli affossatori della tragedia
classica, e deprecava l'attacco di Nietzsche al razionalismo, che vedeva come
un oltraggio al pensiero scientifico.
Nel
confutare quella presunta complicità tra Euripide e Socrate del resto
Wilamowitz aveva ragione.
Erwin Rohde (1845 - 1898)
controreplicò in ottobre con Afterphilologie, Filologia
deretana. In favore di Nietzsche.
Wilamowitz
non è solo un ‘erudito’ classicista “né la sua interpretazione della cultura
classica riflette una metodologia puramente storicistica. La sua Ellade
proviene dalla lotta di Goethe per ‘domare’ il pathos wertheriano, dalla
nostalgia per la ‘patria’ ellenica dell’Iperione hölderliniano e del primo
idealismo, altrettanto che dalla scienza filologica del Böckh.
Vediamo
alcune espresssioni della nostalgia di Hölderlin nell’Iperione[12]: Iperione a Bellarmino:
“Vivo ora nella cara Salamina, l’isola di Aiace. Amo questa Grecia sopra ogni
altra cosa. Essa porta i colori del mio cuore. Ovunque si guardi giace sepolta
una gioia (…) le cime degli alberi, serene e luminose, si levano piene di speranza,
a migliaia, dal profondo del bosco (…) le montagne si innalzano una dietro
l’altra all’infinito, simili a gradimi, fino al sole. Tutto il cielo è puro.
(pp. 70 - 71)
“Nessun
popolo della terra fu, sotto ogni aspetto, meno ostacolato nella sua crescita e
più libero da influssi violenti del popolo ateniese. Nessun conquistatore lo
indebolì, nessuna vittoria lo inebriò, nessun culto straniero ne offuscò la
coscienza, nessuna frettolosa saggezza lo spinse a una maturità precoce. La sua
infanzia fu lasciata a se stessa, come un diamante in formazione (…) A questo
s’aggiunse il gesto grande e ammirevole di Teseo: la spontanea limitazione del
potere regale”.
Aggiungo
che Teseo nelle tragedie di Euripide è il paradigma mitico di Pericle.
“La
prima figlia della bellezza divina è l’arte. La seconda figlia della bellezza è
la religione” L’arte e la religione degli ateniesi sono “autentiche figlie
della bellezza eterna, della perfetta natura umana (…) e’ però certo che nelle
opere della loro arte si trova quasi sempre l’uomo nella sua maturità. Non si
manifestano qui la infantilità e la mostruosità degli Egizi e dei Goti, ma lo
spirito e la forma dell’uomo. Gli Ateniesi si persero meno degli altri negli
eccessi del sensibile e del sovrasensibile. I loro dèi rimangono più degli
altri nel centro ammirevole dell’umanità (…) Dalla bellezza spirituale degli
Ateniesi derivò necessariamente il loro senso della libertà. L’egizio sopporta
senza dolore il dispotismo dell’arbitrio, il figlio del Nord sopporta senza
avversione il dispotismo della legge, l’ngiustizia sotto la forma del diritto
(…) l’ateniese non può tollerare l’arbitrio perché la sua natura divina non
vuole essere turbata, non può tollerare la legalità in ogni caso[13], perché non in ogni caso ne ha bisogno.
Egli vuole essere trattato con dolcezza e in questo ha ragione” (p. 99 trad,
it. guanda, Milano, 1981)
Torniamo
a Wilamowitz secondo Cacciari: “La conoscenza della glossa è
per lui integralmente al servizio della comprensione del logos, e
questo linguaggio si incarna, prende voce nelle grandi opere
dell’arte e della filosofia. La filologia è chiamata a interpretarne il
significato in tutta la varietà delle forme che lo esprimono. Basti pensare al
primo, fondamentale lavoro di Wlamowitz, il commento all’Eracle di
Euripide (1889), dove critica testuale, mitologia, storia politica, storia
della religione, storia letteraria si integrano nella volontà di rappresentare,
anche a proposito di un singolo testo, l’universalità, il Vollbild di
una civiltà (…) Conoscere è rinascere nel conosciuto, e dunque riformarlo nel
presente, presentarlo al presente come la forma possibile del su stesso
avvenire!” (p. 11)
Il
“Noi, filologi” di Nietzsche afferma idee che non sono tanto lontane e
dissonanti da queste. “Anche per Nietzsche la filologia ha senso solo se mossa
dall’istanza “di far rivivere le opere antiche secondo la loro anima”; e
aggiunge: “solo per il fatto che noi diamo loro la nostra anima, esse
continuano a poter vivere: solo il nostro sangue fa che esse
ci parlino” (Umano troppo umano, II, 126)”.
Trasfusione
di anime e di sangue
Nietzsche non ha lesinato il proprio sangue “Anch’io
sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte, e non solo
montoni ho sacrificato per poter parlare con i morti; bensì non ho risparmiato
il mio stesso sangue”. Nietzsche menziona 4 coppie: Epicuro e Montaigne, Goethe
e Spinoza, Platone e Rousseau, Pascal e Schopenhauer. “ Qualunque cosa io dica,
decida, escogiti per me e per gli altri, su questi otto fisso gli occhi e vedo
i loro fissi su di me. Vogliano i vivi perdonarmi se essi talvolta
mi sembrano delle ombre, così sbiaditi e aduggiati, mentre quelli allora mi
sembrano così vivi, come se ora, dopo la morte, non potessero più stancarsi
della vita. Ma è l’eterna vitalità che conta!”[14].
“Col
nostro Herzblut, col sangue dei nostri cuori, ripeterà Wilamowitz
nelle tarde Memorie - senza sapere di citare sia Nietzsche sia Aby Warburg! (…)
Il metodo di tale studio può anche differire radicalmente , non il suo fine.
Per Wilamowitz quella di Nietzsche non è filologia, e tuttavia egli ne esprime
l’ideale esattamente come avrebbe fatto Nietzsche”
Si
può replicare che per Nietzsche quella dei Wilamowitz non è filosofia:
“La
storia della filologia è la storia di un genere di persone diligenti, ma senza
talento. Di qui l’assurda ostilità e la posteriore sopravvalutazione verso
alcune nature più acute e più ricche che sono andate a finire tra i filologi”[15]
“L’antichità
è stata scoperta in tutte le cose principali da artisti, uomini politici e
filosofi, non da filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[16].
“I
filologi non sono se non liceali invecchiati”[17].
Del
resto è un’approvazione di almeno un aspetto del metodo filologico dei filologi
che apre questa sezione: “La filologia è l’arte di imparare e di insegnare a
leggere in un’epoca nella quale si legge troppo. Solo il filologo legge
lentamente e riflette mezz’ora su sei righe. Non il suo risultato, ma questa
sua abitudine è il suo metodo”[18]
“Il
nostro assurdo mondo di educatori (dominato dallo schema regolativo di “un
utile servitore dello Stato”) crede di cavarsela con l’ “istruzione”, con
l’ammaestramento del cervello; non gli viene neanche in mente l’idea che
occorra dapprima qualcos’altro - educazione della forza di
volontà; si fanno esami su tutto, ma non sull’essenziale: se si
sappia volere, se si possa promettere; il giovane finisce gli
studi senza neanche nutrire un dubbio, una curiosità per questo massimo
problema di valore della sua natura”[19].
Affinità
e diversità tra filologi (Wilamowitz) e filosofi (Nietzsche)
Comunque
“ soprattutto affine è la volontà di far rivivere l’opera classica, la sua
eterna vitalità (Umano troppo umano, II, 408), in lotta contro l’assenza
di forma, di misura[20],
il Mablose semibarbaro
contemporaneo (…) è essenziale comprendere come l’incolmabile differenza
filosofica tra le due prospettive abbia pure un fondamento filologico.
Esse
però intendono in una chiave opposta la tragedia (…) Per l’Humanismus la
tragedia entra ‘armoniosamente’ nell’idea classica di paidea; il suo è il
Dioniso della polis, pacificato nell’ambito della comunità, la quale sembra
averne dimenticato la tremenda minaccia o illudersi di averla per sempre
superata[21].
Un Dioniso che Platone (…) ha guarito da ogni spaesante dismisura” (p. 12). Non
così Agave e Cadmo nelle Baccanti di Euripide.
“La
centralità dell’idea di katastrophé, il dissidio tra eleos e phobos,
l’equivocità stessa di tali termini, o la loro intraducibiliìtà, su cui già
Lessing aveva insistito, e quella tra essi e l’idea, altrettanto ardua da
decifrare, di catarsi, sono elementi che l’orthós lógos della
scienza wilamowitziana tende costitutivamente a rimuovere”. (p. 12)
In
nota Cacciari riferisce la “definizione wilamowitziana della tragedia: “Un
episodio della leggenda degli eroi, in sé concluso, poeticamente elaborato in
uno stile elevato, in vista della rappresentazione a opera di un coro di
cittadini attici e di due o tre attori al massimo, destinato a essere messo in
scena nel santuario di Dioniso come parte di una cerimonia religiosa pubblica”
A
me pare riduttiva assai se non addirittura fuorviante questa definizione.
Il
filologo ‘classicista’ pretende di possedere l’esatta traduzione delle parole e
degli elementi della tragedia menzionati sopra.
“
Al contrario, una vera ‘filologia’ nietzschiana impone di considerarne proprio
la complessità come l’essenza della tragedia - essenza che, a sua volta, potrà
essere compresa soltanto da una filosofia del Tragico. Il grande Humanismus a
cavallo del secolo non concepisce, invece, questo nesso, come il presupposto di
ogni vivente filologia. L’immagine dell’uomo che la sua
scienza configura non è tragica, e perciò essa neppure può riuscire
a esprimere la tragicità dell’attuale crisi. Si troverà allora costretta a
combatterla solo in termini conservatori o reazionari, e cioè impotentemente”
(p. 13).
“Lo
sviluppo dell’idea greca della misura quale valore supremo si può contemplare,
collocandosi nel punto dov’è Sofocle, come da una vetta” (Jaeger, Paideia,
II p. 482)
Allora
accade che sull’Umanesimo “si proiettano lo spirito conservatore, la visione
essenzialmente antitragica, l’ideale di una paideia totalizzante
- armonica, che costituiscono anima e anelito dell’Humanismus”
Cacciari
sostiene che “il Mann delle Considerazioni di un impolitico (1918)
dove si condanna ‘l’estetismo’ rinascimentale e si considera ‘umanista’ il
“letterato della Zivilisation” non viene nemmeno sfiorato dal fatto
che il rapporto tra filosofia e filologia possa delinearsi almeno in alcuni
autori in modo profondamente diverso nell’Humanismus rispetto
all’Umanesimo. Su questo sono d’accordo. Lo sono meno su quanto l’autore
aggiunge in una nota (23 a pagina 13): “Anche negli scritti che intenderanno
costituire un “autosuperamento” delle Considerazioni, Mann
continuerà a concepire l’ ‘umanista’ come incapace di comprendere tragedie e contraddizioni
del presente”.
Questo,
parer mio, si può dire fino a un certo punto del Settembrini di La
Montagna incantata (1924) ma non lo direi a proposito dell’io
narrante del Doctor Faustus (1947)Serenus Zeitblom il cui
umanesimo mi sembra contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia
risanata.
Ma
posso sbagliarmi e mi piacerebbe discuterne con l’autore.
Per
l’Heidegger della famosa Lettera sull’Umanismo “ il problema
dell’Umanesimo è esattamente quello che tormenta i grandi filologi suoi
contemporanei, tutti nati contra Nietzsche: come ‘salvare’
l’uomo al centro, Soggetto capace di porre in - forma la
propria volontà e di ordinare al proprio servizio ogni essente. Più
precisamente Heidegger (…) accomuna Humanismus e Umanesimo in
quanto concezioni del linguaggio come strumento della volontà di potenza , a
partire dall’ - ismo che caratterizzerebbe entrambi , e che di
nuovo, fisserebbe la dignitas dell’uomo come ‘titolo’ della
sua padronanza sull’essente, cancellando finitezza e temporalità dell’esserci”
(p. 14)
Di
Heidegger ho letto solo il commento al primo stasimo dell’Antigone di
Sofocle che si trova nella Introduzione alla Metafisica .
Riferisco
i primi due versi di questo celebre canto corale con il commento
L’uomo
è visto come problema
vv. 332
- 333:"Molte
sono le cose inquietanti e nessuna/è più inquietante dell'uomo". - ta; deina;:
ho tradotto come suggerisce Heidegger
in Introduzione alla metafisica[22] nella traduzione della Mursia:"Noi
concepiamo l'in - quietante (das Un - heimliche ) come
quello che estromette dalla "tranquillità", ovverosia dal nostro
elemento, dall'abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa".
Ora,
l'uomo è in un primo senso deinovn in
quanto, appartenendo per essenza all'essere, risulta esposto a questo predominante.
Ma l'uomo è in pari tempo deinovn perché
è colui che esercita la violenza…egli è deinovn nel duplice senso,
originariamente unico di questa parola; egli è to; deinovtaton, il più violento, in
quanto esercita la violenza in seno al predominante.
Ho
detto precedentemente come questo termine sia frequente all'inizio dell'Apologia
di Socrate scritta da Platone per designare il vecchio maestro seduttore,
provocatore ed eversivo nei confronti dei luoghi comuni.
Più
prosaico è Aristofane: il coro degli Uccelli qualifica l’uomo
come ingannevole: “dolero;n me;n ajei;
kata; pavnta dh; trovpon - pevfuken a[nqrwpo~”(vv.451 - 452),
ingannevole creatura sempre e in ogni modo è per natura l’uomo.
- koujde;n: crasi di kai; oujde;n. - deinovteron pevlei=ejstiv. Citiamo ancora Heidegger:"L'uomo è, in una
parola, to; deinovtaton:
ciò che vi è di più inquietante (das Unheim - lichste). Un modo siffatto
di parlare dell'uomo lo coglie nei suoi estremi limiti e nelle scoscese
profondità del suo essere"[23].
I
Greci “dovettero sempre strappare l’essere all’apparenza e proteggerlo contro
di essa. (L’essere è, nfatti, come non - latenza). Solamente nel perdurare
della lotta tra essere e apparenza essi sono giunti a conquistare l’essere
all’essente e a condurre l’essente alla stabilità e alla non latenza: gli dèi e
la città, i templi e la tragedia, gli agoni ginnici e la filosofia; ma tutto
ciò nel bel mezzo dell’apparenza dovunque in agguato, assumendola seriamente,
coscienti della sua potenza”. [24]
Sentiamo
anche V. Ehrenberg:"l'inno
inizia con lo squillo: polla; ta;
deinav, e in tal modo si rifà chiaramente al polla; me;n ga' trevfei deinav,
di Eschilo, che pure è il verso iniziale di un canto del coro (Coefore ,
v. 585)[25].
Tuttavia Eschilo paragona soltanto gli orrori della terra con l'orrore degli
umani delitti, laddove in Sofocle ta;
deinav diventano l'oggetto e l'essenza dell'umano
potere e dell'umana signoria. Il termine deinov" ha più significati
(possente, terribile, orroroso, orribile), ma l'inno esprime l'immensa
ammirazione per la vittoria dell'uomo sulla natura: sulla terra e sul mare e
sugli animali. Questo potere non fu conferito all'uomo dagli dei o da un
Prometeo benevolo; l'uomo lo ha conquistato da sé, basandosi unicamente sulle
proprie forze"[26].
Infine
J. P. Vernant:"Alla
luce di questa drammaturgia, l'uomo non appare delineato come una natura
stabile, un essere che si potrebbe delineare e definire, ma come un problema;
assume la forma di un'interrogazione, di una serie di domande. Creatura
ambigua, enigmatica, sconcertante, al tempo stesso agente e agito, colpevole e
innocente, libero e schiavo, destinato per la sua intelligenza a dominare
l'universo e incapace di dominare se stesso, l'essere umano, unendo in sé il
meglio e il peggio, può essere qualificato come un deinos ,
nei due sensi del termine: meraviglioso e mostruoso"[27].
Insomma
l'uomo, deinov" ,
è meraviglioso e terribile, esaltante e pure capace delle peggiori atrocità.
L’uomo come problema
Da
questi versi dell’Antigone si può vedere quanto sia errato
imbalsamare i tragici greci, e particolarmene Sofocle, con gli unguenti e i
profumi della serenità greca
Tale
opinione può avere avuto un supporto nel verso 82 delle Rane di
Aristofane, quando Dioniso rivela che il poeta conservò anche dopo la morte
quello spirito equilibrato e sereno che lo aveva caratterizzato sulla
terra:"oJ d j eu[kolo"
me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j ejkei'", egli è di
buon carattere, è tranquillo, qua come lo era là (v.82).
Mi
scuso per l’autocitazione e torno a Cacciari.
La
filologia che non giunge a porsi il problema dell’essenza del linguaggio come
custode dell’essere, riducendolo a mezzo, strumento, fattore del Gestell,
del sistema tecnico - scientifico non è per niente filosofica.
“Alle
riserve e critiche di chi non riconosce rilevanza filosofica all’Umanesimo (e
un valore filologico solo parziale) si accompagnano perciò quelle propriamente
teoretiche, di coloro che, accomunandolo nella sostanza all’idea di Kultur,
bandiera dell’Humanismus contemporaneo[28],
ne contestano proprio la filosofia del linguaggio (asse portante., invece, come
cercheremo di dimostrare, dei momenti più alti del suo pensiero)”.
Tali
critiche non sono state ancora messe alla prova
“A
questa prova non si intende qui contribuire che attraverso alcuni ‘sondaggi’,
concentrando l’attenzione sugli autori e i problemi - chiave”
Fine
del capitolo primo
giovanni
ghiselli
Bologna
8 aprile 2019
[4] Iciarco:
vuol dire supremo omo e primario principe della famiglia sua", libro
III), e sono formate da oîkos o oikía "casa,
famiglia" e arkhós "capo supremo, principe,
principio".
p.
23).
[20] Cfr
- Orazio:"est modus in rebus, sunt certi denique fines,/quos ultra
citraque nequit consistere rectum " (Satire , I, 1,
vv. 106 - 107), c'è una misura nelle cose, ci sono limiti definiti
[21] Questo
potrebbe forse essere il Dioniso del VI canto dell’Iliade o delle Rane di
Aristofane, non certo quello delle Baccanti di Euripide.
[22] Raccolta
di lezioni tenute nel 1935 nell’Università di Friburgo, pubblicate nel 1953 con
qualche integrazione.
[25] Molte
creature tremende nutre/ la terra, flagelli di terrori,/e gli abbracci marini
sono pieni/di mostri infesti ai mortali"(vv. 585 - 588). Sono versi del I
stasimo delle Coefore di Eschilo. Poi germogliano fiamme sospese nel mezzo e
alte nel cielo, uccelli e animali terrestri che potrebbero parlare della
collera rapida delle tempeste.. Ma chi può dire della mente dell’uomo troppo
audace (uJpevrtolmon ajndro;"
frovnhma) e delle donne sfrontate nel cuore gli amori pronti a
ogni audacia, associati agli accecamenti dei mortali?
Vince
gli aggiogati dell’unione di belve e di uomini l’amore non amore che domina la
donna (qhlukrath;" ajpevrwto"
e[rw" paranila'/, 600)
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