Ecuba - Napoli, "Teatro Festival Italia" |
Ecuba di Euripide vv. 13 - 58
Polidoro ricorda che era newvtato" (13) il più giovane dei figli di Priamo, troppo giovane per combattere.
Finché mio fatello Ettore eujtuvcei dori; aveva
successo in battaglia, l’ospite tracio ebbe cura di me, crescevo come un
virgulto - w{" ti" ptovrqo" hujxovmhn (20).
In questa fase l’assassino era una specie di Augusto accrescitore nei
confronti dell’ospite.
Però poi, morto Ettore, scannato Priamo sull’altare, empiamente dal figlio
di Achille, e caduta Troia, l’ospite scelto dal padre kteivnei me
to;n talaivpwron ammazza me il disgraziato crusou' cavrin 25 per l’oro, “in grazia dell’oro”.
Stesso atteggiamento viene attribuito da Ecuba a Elena nelle Troiane:
l’amante di Paride e moglie di Menelao parteggiava sempre per il vincitore.
Quindi l’ospite criminale ktanwvn, dopo avermi assassinato, mi abbandonò al flutto del mare eij" oi\dm
j ajlov" (26) i{n j aujto;" cruso;n ejn
dovmoi" e[ch/ (27), per tenersi l’oro in casa sua.
L’innumerevole sorriso delle onde marine del Prometeo incatenato[1], in questa tragedia diverrà il flutto
delle lacrime di Ecuba. Polidoro lamenta ancora di giacere sui lidi marini qua
e là, secondo l’ondeggiamento del mare ejn povntou savlw/ (28), senza compianto né sepolcro - a[klauto"
a[tafo" (30) .
E quale spettro, lasciato solo il mio cadavere - sw'm j
ejrhmwvsa" ejmovn 31 - , mi muovo agitato sopra il capo della
madre mia da quando tre giorni fa Ecuba è giunta da Troia in questa terra del
Chersoneso (34)
Intanto navi dei Greci “sono sedute”, qavssousi sulle rive di questa terra di Tracia. E’ il figlio di Achille che
tiene ferma la flotta da quando il Pelide ujpe;r tuvmbou
faneiv", apparso sulla tomba, reclama la sorella mia Polissena per il suo sepolcro quale sua vittima
sacrificale e segno di onore –provsfagma kai; gevra" - 41
Excursus contro la guerra
All’andata dunque viene sacrificata la vergine Ifigenia, al ritorno
Polissena per togliere impedimenti alla partenza.
Le guerre sono connotate da massacri e da atti di supertizione criminale
fatta passare per religione. Tutti e tre i grandi tragediografi e pure il
grande commediografo Aristofane sono contrari alle guerre.
Euripide nell’Elena e nell’Elettra sostiene che Elena non andò mai a Troia e che questa guerra venne
combattuta per un fantasma, per niente
Gli dèi l’hanno voluta per
alleggerire la terra dalla massa degli uomini.
Alla fine dell’Elettra euripidea,
Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao,
dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu;~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” ( Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio
un'immagine (ei[dwlon) di lei,
affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
Euripide, che pure aizza spesso l'odio
ateniese contro Spartani e Spartane, attribuisce a Poseidone una condanna delle
devastazioni belliche nel prologo delle Troiane[2] :"mw'ro" de;
qnhtw'n oJvsti" ejkporqei' povlei", - naou;" te tuvmbou" q
,JJjj iJera; tw'n kekmhkovtwn, - ejrhmivvva/ dou;" aujto;" w[leq ' u{steron"(v. 95 - 97), è stolto tra i
mortali chi distrugge le città, gettando nella desolazione templi e tombe,
sacri asili dei morti; tanto poi egli stesso deve morire.
Più avanti la lucida follia di
Cassandra dichiara che chi ha senno deve evitare la guerra: “feuvgein me;n
oun crh; povlemon o{sti~ eu\ fronei`” (v. 400)
Mi sembra particolarmente opportuno ricordare tali giudizi sull'assurdità della guerra che viene imposta agli
uomini comuni, se non dagli dèi, dall'alto dei palazzi del potere, affinché i
mortali poveri, servano a interessi che sicuramente non sono i loro. "Sì
sì, lei non era qui". Dice di Elena la Cassandra di Christa Wolf. E aggiunge:"Il re
d'Egitto l'aveva tolta a Paride, quello stupido ragazzo. Lo sapevano tutti nel
palazzo, perché io no? E ora? Come ne usciamo, senza perdere la faccia. Padre,
dissi, con un fervore col quale non gli parlai mai più. Una guerra condotta per un fantasma, può solo
essere perduta"[3].
Già nell'Iliade Zeus dice ad Ares:"e[cqisto"
dev moiv ejssi qew'n oi} [Olumpon e[cousin (V, 890), tu per me sei il più odioso tra gli dei che
abitano l'Olimpo.
Nel primo Stasimo dei Sette a Tebe[4] di
Eschilo il Coro dissacra il dio della guerra: Ares è un
domatore di popoli che infuriando soffia con violenza e contamina la pietà
"mainovmeno" d j ejpipnei' laodavma" - miaivnwn eujsevbeian"(vv. 343 - 344).
Nell'Agamennone (del 458) Ares viene
definito "oJ crusamoibo;" d' j [Arh" swmavtwn"(v.437), il cambiavalute dei
corpi, nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori.
Secondo Gaetano De Sanctis, Eschilo
con questa tragedia ha voluto mettere in guardia gli Ateniesi"contro le
guerre ingiuste, pericolose e lontane, onde tornano, anziché i cittadini
partiti per combattere, le urne recanti le loro ceneri. La lista dei caduti della
tribù Eretteide mostra quale eco dovesse avere nei cuori tale monito durante
quella campagna d'Egitto (anni 459 - 454) in cui fu impegnato il fiore delle
forze ateniesi"[5].
"invece di uomini - ajnti; de; fwtw'n
urne e cenere giungono teuvch kai; spodo;" eij"
eJkavstou
alla casa di ciascuno"dovmou" ajfiknei' ( Primo
stasimo, vv 434 - 436)
Nell'Edipo re[6] Ares viene deprecato dal religiosissimo
autore come "il dio disonorato tra gli dei" ( ajpovtimon ejn qeoi'" qeovn, v.215). Il dio è disonorato a maggior ragione poiché la guerra del Peloponneso dopo la morte di
Pericle veniva condotta dal becero e sanguinario Cleone e dai demagoghi
successivi senza rispetto dell'etica eroica e senza riguardo per
l'umanità: Tucidide[7]
nel dialogo senza didascalie del V libro fa dire dagli Ateniesi ai Meli di
non volgersi a quel senso dell' onore (aijscuvnhn, 111, 3) che procura grandi rovine
agli uomini
Empedocle[8] nel Poema
lustrale narra che gli uomini della primitiva età felice non avevano Ares
come dio né il Tumulto della battaglia:"oujdev ti"
hj'n keivnoisin [Are" qeo;" oujde; Kudoimov""(fr. 119, 1).
Aristofane negli Acarnesi[9] dichiara
guerra alla guerra.
Il protagonista Diceopoli, il
cittadino giusto, convince il coro che la guerra è un male e lo induce a dire:
"io non accoglierò mai in casa Polemo" (v. 977), la personificazione
del conflitto, visto come " un uomo ubriaco (pavroino"
aJnhvr, v. 981) il
quale "ha operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur
invitato a bere nella coppa dell'amicizia, "bruciava ancora di più con il
fuoco i pali delle viti/e rovesciava a forza il nostro vino fuori dalle
vigne"(986 - 987).
Il campagnolo pacifista
Diceopoli si fa portavoce dei contadini, esasperati poiché la guerra del
Peloponneso nella fase archidamica distruggeva tutti gli anni i raccolti.
Fine excursus
Contro la vita di Polissena c’è la richiesta di Neottolemo che non
resterà ajdwvrhto" privo di questo dono da parte degli amici, poi c’è il destino hJ peprwmevnh, il destino che spinge mia sorella, dice ancora Polidoro, a morire in
questo giorno a[gei - qanei'n ajdelfh;n tw/d ' j ejmhvn ejn h[mati (44).
Il fantasma ricorda di pregato quelli che hanno potere sottoterra tou;"
kavtw sqevnonta" di ottenere una tomba e di cadere tra le braccia della madre (50)
Anche sotto terra dunque ci sono
gli sqevnonte", quelli che contano. Il diritto del più forte è vigente dappertutto come
dicono gli ateniesi ai Meli nel v libro delle Storie di
Tucidide.
Perfino il buon dio sosterrebbe il
diritto del più forte secondo la predominante potenza degli Ateniesi i quali,
ampliando lo sguardo a una prospettiva cosmica e universale, affermano :
" riteniamo
infatti che la divinità, secondo la nostra opinione, e l'umanità in modo
evidente, in ogni occasione, per necessità di natura, dove è più forte,
comanda".
Questa sarebbe un'eterna legge di natura:
"noi non abbiamo imposto questa legge né l'abbiamo utilizzata per
primi quando vigeva, ma avendola ricevuta che c'era, e pronti a lasciarla
rimanere per sempre, ce ne avvaliamo, sapendo che anche voi e altri, se vi
trovaste nella stessa condizione di potenza in cui siamo noi, fareste lo
stesso". (Tucidide, V, 105, 2).
La preghiera di Polidoro dunque è stata accolta e il suo cadavere affiorerà
nella battigia ai piedi di una schiava di Ecuba.
Le ultime parole sono di compianto per la madre - wJ"
pravssei" kakw'" , come stai male (pravssw,
il verbo tragico per eccellenza ha come primo significato quelli di “faccio”,
siccome fare male e stare male si equivalgono). Infatti Polidoro aggiunge: un
dio ti distrugge se fqeivrei qew'n ti", controbilanciando il benessere di un tempo - ajntishkwvsa"
th'" pavroiq ‘ eujpraxiva" (57 - 58).
[1] Quando i suoi aguzzini si
allontanano, l'incatenato invoca le forze della natura a comprenderlo e
compiangerlo: “o etere divino e venti dalle ali veloci,/e sorgenti dei fiumi, e innumerevole sorriso/delle onde marine (pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma), e terra madre di tutte le cose (pammh'tovr te gh'),/e il
disco del sole che vede tutto, invoco:/vedete quali pene soffro, io che sono un
dio, da parte degli dèi”(88 - 92
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