Commento ai vv. 887-888 della Lisistrata : Cinesia, il marito di Mirrina, dice che lo sdegnarsi della moglie e il suo fare la ritrosa è proprio quello che lo strugge di desiderio
Cfr. Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (Ovidio, Amores, II, 20, 36)
Commenterò tutta la commedia di Aristofane
sabato 6 aprile dalle 17 alle 19
a CENTO
Sala delle Conferenze presso il
Cine-teatro Don Zucchini
E' questo il tovpo" dell'amore che
insegue chi fugge e scappa da chi lo insegue. Tale locus ha un' ampia
presenza nella poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale
di ciasuno di noi: Teocrito nel VI idillio paragona Galatea
che stuzzica Polifemo alla chioma secca che si stacca dal cardo quando la bella
estate arde:"kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta
diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e chi non ama lo insegue. Nell'XI idillio
lo stesso Ciclope si dà il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere
quella presente (75), femmina ovina o umana che sia.
Abbiamo anche qui l'ironia teocritea che deriva dalla consapevole dissonanza
tra l'elemento popolare e quello raffinato letterario. Teocrito è, come
Callimaco, un rappresentante di una poesia cosiddetta
postfilosofica:"Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non
credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e
nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un
carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall'universale e si
rivolgono con amore al particolare"[1]. Lo stesso Snell qualche capitolo prima
aveva ricordato che nel V secolo era comunque già avvenuto "quel distacco
fra il mondo della storia e quello della poesia" codificato da Aristotele
quando afferma "che la poesia è più filosofica della storia poiché la
poesia tende all'universale, la storia al particolare"[2] (p. 141). La poesia postfilosofica
dunque non racconta più l'universale. Post-filosofica o almeno
postilluministica sarebbe anche quella di Goethe:" Callimaco e Goethe si
trovano entrambi ad una svolta storica; al tramonto di una più che secolare
cultura illuministica che ha dissolto le antiche concezioni religiose, quando è
venuto a noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una nuova poesia
significativa. Ma l'evoluzione del mondo antico segue una via così diversa da
quella del mondo moderno, che Callimaco, e con lui tutto il suo tempo, si
dichiara per la poesia minore, delicata, mentre Goethe, interprete anch'egli
dei suoi contemporanei, dà la preferenza alla poesia patetica, interiormente
commossa"[3].
"Un epigramma di Callimaco (Anth.
Pal. 12, 102) liberamente tradotto per
l'occasione in versi latini, è in Orazio il ritornello caro a
questi incontentabili stolti:" Come il cacciatore insegue la lepre nella
neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa anche l'amante che
dice: "…Meus est amor huic similis: nam/transvolat in medio posita et
fugientia captat " (Sermones , 1, 2, 107s.). Ed è
proprio questo epigramma di Callimaco che fornisce ad Ovidio (in
un componimento degli Amores tutto impegnato a redigere il
codice della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare
emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod
sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (2, 20, 36)"[4], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
E' questo un luogo comune
dell'amore, o, forse, della non praticabilità dell'amore.
Sentiamo qualche altra testimonianza.
Nella commedia La locandiera (del 1753) Goldoni fa
dire alla protagonista, Mirandolina, in un monologo."Quei che mi corrono
dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
Una situazione analoga troviamo in Il
giocatore di Dostoevskij (1866) dove il
protagonista Alexei dichiara il suo amore a Polina in questi termini:"Lei
sa bene che cosa mi ha assorbito tutto intero. Siccome non ho nessuna speranza
e ai suoi occhi sono uno zero, glielo dico francamente: io vedo soltanto lei
dappertutto, e tutto il resto mi è indifferente. Come e perché io l'amo non lo
so. Sa che forse lei non è affatto bella. Può credere o no che io non so
neppure se lei sia bella o no, neanche di viso? Probabilmente il suo cuore non
è buono e l'intelletto non è nobile; questo è molto probabile"[5].
Proust nel
V e terzultimo volume della Ricerca, conclusa negli ultimi mesi di
vita (tra il 1921 e il 1922) esprime lo stesso concetto:"Qualsiasi essere
amato-anzi, in una certa misura, qualsiasi essere-è per noi simile a Giano: se
ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra
perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[6].
L'analogia con il cacciatore può essere
estesa a quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è
più amabile. Molto note sono queste due ottave dell'Orlando furioso:"La
verginella è simile alla rosa,/ch'in bel giardin su la nativa spina/mentre sola
e sicura si riposa,/né gregge né pastor se le avicina;/l'aura soave e l'alba
rugiadosa,/l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:/gioveni vaghi e donne
innamorate/amano averne e seni e tempie ornate.//
Ma non sì tosto dal materno stelo/rimossa
viene, e dal suo ceppo verde,/che quanto avea dagli uomini e dal cielo/favor,
grazia e bellezza, tutto perde./La vergine che 'l fior, di che più zelo/che de'
begli occhi e de la vita aver de',/lascia altrui còrre, il pregio ch'avea
inanti/perde nel cor di tutti gli altri amanti" (I, 42-43).
Meno noti sono forse il sentimento e la
riflessione di Vrònskij dopo che ha realizzato il suo sogno d'amore con Anna
Karenina:"Lui la guardava come un uomo guarda un fiore che ha
strappato, già tutto appassito, in cui riconosce con difficoltà la bellezza per
la quale l'ha strappato e distrutto"[7].
Gozzano, su questa linea, sospira con ironia:" Il mio
sogno è nutrito d'abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/ che non
colsi"[8].
Sentiamo infine C. Pavese:
"Ma questa è la più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle
persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si
perdono"[9].
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