NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 20 aprile 2019

Sapienza silenica. Apollineo e Dionisiaco


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Vi sono diverse formulazioni della triste saggezza silenica, la sapienza per cui non essere nati, o morire appena nati, è meglio che vivere.
Vedi Erodoto, l’Edipo a Colono di Sofocle, Cicerone, Seneca etc.
Nietzsche ne La nascita della tragedia si sofferma su questa aspirazione all'annientamento e la considera caratteristica del greco primitivo che soggiace al terrore dei mostri, all'avvoltoio di Prometeo, al destino spaventoso di Edipo, al matricidio di Oreste, finché non trova la giustificazione estetica dell'esistenza e l'individuazione positiva nell'Apollineo che in termini artistici è la bellezza e la chiarezza delle immagini omeriche, in termini culturali, mitologici e psicologici è il rovesciamento del caos dei Titani nel prevalere del cosmo olimpico:"Per poter vivere i greci dovevano, per una necessità profonda, creare questi dèi: un procedimento che dobbiamo raffigurarci come lo sviluppo, in lenti trapassi, del divino ordine olimpico della gioia dall'originario titanico ordinamento dell'orrore e dello spavento, in virtù appunto di quell'istinto apollineo della bellezza, come un ciuffo di rose che sbocci da uno spinoso cespuglio"(cap. 3).
Negli autori classici troviamo varie espressioni della triste saggezza del Sileno: a partire da Erodoto (I, 31) il quale ci racconta la fiaba tragica di Cleobi e Bitone che la dea Era, per ricompensare della loro devozione, fece morire giovani, mostrando come per l'uomo sia meglio essere morto che vivere, e più avanti ci narra lo strano costume dei Trausi che compiangono il neonato e seppelliscono il morto con manifestazioni di gioia (V, 4):"sedendo attorno al neonato i parenti piangono (...) enumerando tutte le sofferenze umane; invece scherzano con gioia quando mettono sotto terra il morto, spiegando che si trova in completa felicità, liberato da tanti mali". L'idea viene ripresa da diversi autori.
Ricordo Teognide nella cui Silloge (vv. 425 - 428) leggiamo:
"La cosa migliore di tutte per quanti vivono sulla terra è non essere nato (mh; fu'nai)/e non vedere i raggi del sole abbagliante,/ma una volta nati al più presto varcare le porte dell'Ade,/e giacere sepolto sotto gran massa di terra".
L'espressione "mh; fu'nai" è usata anche da Bacchilide che nell'Epinicio V fa dire a Eracle:"la cosa migliore per i mortali è non essere nati/ e non vedere la luce/del sole"(160 - 162).
 Sofocle nel suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono , fa cantare al coro:"Non essere nati (mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/ tornare al più presto là/ donde si venne,/ è certo il secondo bene./ Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/ che porta follie leggere, /quale travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale degli affanni non c'è?/Invidia, discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e sopraggiunge estrema/ l'esecrata vecchiaia impotente,/ asociale, priva di amici /dove convivono tutti i mali dei mali"(vv.1224 - 1238).
Non possiamo mancare di fornire qualche formulazione silenica nella lingua di Roma:"non nasci homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori ", scrive Cicerone, non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto (Tusculane, I, 48); e Seneca, nella Consolazione a Marzia ( cap.22) cerca di confortare la madre orbata del figlio:"Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui ", pertanto, se la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo, tornare al più presto all'integrità originaria. 
Concludo con il cupio dissolvi della Sibilla del Satiricon (48), parole citate da Eliot come epigrafe ed emblema de La Terra desolata (1922):"nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Sivbulla, tiv qevlei"; , respondebat illa:" jApoqanei'n qevlw", infatti la Sibilla di sicuro a Cuma, io stesso con i miei occhi, vidi sospesa in un 'ampolla, e dicendole i fanciulli:"Sibilla, cosa vuoi?", rispondeva lei:"morire, voglio".

Non credo del resto che sia questa la quintessenza del messaggio dei classici e nemmeno di Sofocle in particolare.
 Euripide nell'Alcesti fa scattare la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo incongruamente sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per lui:"zhlw' fqimevnou", keivnwn e[ramai/ kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein"(vv.866 - 867), invidio i morti , quelli amo, quelle dimore desidero abitare.
L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) è silenicamente manifestata anche da Leopardi:" In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei...Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[1].
Nietzsche nella Nascita della tragedia vede il "mondo apollineo della bellezza e il suo substrato, la terribile saggezza del Sileno" rappresentati nella Trasfigurazione di Raffaello.
L’apollineo è raffigurato nel Cristo che ascende in cielo, la sapienza silenica dalla "parte inferiore (...) col fanciullo ossesso, gli uomini disperati che lo reggono, i discepoli angosciati e irresoluti".
Cristo - Apollo è la "divinizzazione del principium individuationis (...) egli ci mostra, con gesti solenni, come sia necessario un intero mondo di tormenti perché, attraverso di essi, il singolo sia spinto a generare la visione liberatrice (...) accanto alla necessità estetica della bellezza, corre l'esigenza del:"Conosci te stesso", e del:"Nulla di troppo!", mentre la presunzione di sé e l'intemperanza venivano considerate come i dèmoni propriamente ostili della sfera non - apollinea, cioè come qualità e prerogative dell'epoca pre - apollinea, dell'era dei Titani e del mondo extra - apollineo, ovverosia del mondo barbaro" (capitolo 4).
“Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i malinconici Etruschi –fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo della bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli"[2].

"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell'oblio (…)un'estatica accettazione del carattere totale della vita (…)la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita (…) Col termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte…La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa (…) Nel fondo del Greco c'è la mancanza di misura, la caoticità, l'elemento asiatico: la prodezza del Greco consiste nella lotta con il suo asiatismo: la bellezza non gli è donata, non più della logica, della naturalezza dei costumi - esse sono conquistate, volute, strappate - sono la sua vittoria"[3].

Su Apollineo e Dionisiaco sentiamo anche C. G. Jung: "Esaminiamo i concetti di apollineo e dionisiaco nelle loro caratteristiche psicologiche… Prendiamo in considerazione anzitutto il dionisiaco. Secondo la descrizione di Nietzsche è chiaro che esso indica un espandersi, uno zampillare e uno scaturire…E' una fiumana di sensazioni paniche di grande potenza che erompe irresistibile e inebria i sensi come un vino gagliardo. E' ebbrezza nel significato più elevato del termine…Si tratta quindi di una estroversione di sentimenti indissolubilmente legata all'elemento sensoriale…Per contro, l'apollineo è la percezione delle immagini interiori della bellezza, della misura e di sentimenti armonicamente disciplinati. Il paragone con il sogno chiarisce il carattere dello stato apollineo: è uno stato d'introspezione, di contemplazione rivolta verso l'interno, verso il mondo di sogno delle idee eterne, quindi uno stato d'introversione"[4].

Vediamo ora il rovesciamento della sapienza silenica
Odissea. Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[5], Od. XI, 489)"[6].

Già nel IX canto dell’Iliade Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405 - 408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio, dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro introdotto da un grande poeta”[7].
Tuttavia Achille da morto ritrova questa preferenza assoluta per il vivere rispetto all’essere morto.

Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec. (14 Ottobre 1828)”[8].

Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov.<proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!...Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo”[9].

giovanni ghiselli, Bologna 20 aprile 2019




[1]Dialogo di Tristano e di un amico .
[2] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 3.
[3] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888, 14.
[4] C. G. Jiung, Tipi psicologici, p. 156.
[5] infinito atematico con desinenza - men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes , non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare. Il terribile per un thes era il fatto di non avere legami, di non appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo , p. 39).
[6]F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
[7] Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca, Laterza, 2003, p.p. 17 - 18,
[8] Zibaldone, 4399.
[9] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

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