Vi sono diverse formulazioni della triste saggezza silenica, la sapienza per cui non essere nati, o morire appena nati, è meglio che vivere.
Vedi Erodoto, l’Edipo a Colono di
Sofocle, Cicerone, Seneca etc.
Nietzsche ne La nascita
della tragedia si sofferma su questa aspirazione all'annientamento e la
considera caratteristica del greco primitivo che soggiace al terrore dei mostri,
all'avvoltoio di Prometeo, al destino spaventoso di Edipo, al matricidio di
Oreste, finché non trova la giustificazione estetica dell'esistenza e
l'individuazione positiva nell'Apollineo che in termini artistici è la bellezza
e la chiarezza delle immagini omeriche, in termini culturali, mitologici e
psicologici è il rovesciamento del caos dei Titani nel prevalere del cosmo
olimpico:"Per poter vivere i greci dovevano, per una necessità profonda,
creare questi dèi: un procedimento che dobbiamo raffigurarci come lo sviluppo,
in lenti trapassi, del divino ordine olimpico della gioia dall'originario
titanico ordinamento dell'orrore e dello spavento, in virtù appunto di
quell'istinto apollineo della bellezza, come un ciuffo di rose che sbocci da
uno spinoso cespuglio"(cap. 3).
Negli autori classici troviamo varie
espressioni della triste saggezza del Sileno: a partire da Erodoto (I, 31) il quale ci
racconta la fiaba tragica di Cleobi e Bitone che la dea Era, per ricompensare
della loro devozione, fece morire giovani, mostrando come per l'uomo sia meglio
essere morto che vivere, e più avanti ci narra lo strano costume dei Trausi che compiangono il neonato e seppelliscono il morto con
manifestazioni di gioia (V, 4):"sedendo attorno al neonato i parenti
piangono (...) enumerando tutte le sofferenze umane; invece scherzano con gioia
quando mettono sotto terra il morto, spiegando che si trova in completa
felicità, liberato da tanti mali". L'idea viene ripresa da diversi autori.
Ricordo Teognide nella
cui Silloge (vv.
425 - 428) leggiamo:
"La cosa migliore di tutte per
quanti vivono sulla terra è non essere nato (mh; fu'nai)/e non vedere i raggi del sole
abbagliante,/ma una volta nati al più presto varcare le porte dell'Ade,/e
giacere sepolto sotto gran massa di terra".
L'espressione "mh; fu'nai" è usata
anche da Bacchilide che
nell'Epinicio V fa dire a Eracle:"la cosa migliore per i
mortali è non essere nati/ e non vedere la luce/del sole"(160 - 162).
Sofocle nel suo ultimo
dramma, l'Edipo a Colono , fa cantare al coro:"Non essere nati
(mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta
apparsi,/ tornare al più presto là/ donde si venne,/ è certo il secondo bene./
Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/ che porta follie leggere, /quale
travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale degli affanni non c'è?/Invidia,
discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e sopraggiunge estrema/ l'esecrata
vecchiaia impotente,/ asociale, priva di amici /dove convivono tutti i mali dei
mali"(vv.1224 - 1238).
Non possiamo mancare di fornire qualche formulazione silenica nella lingua
di Roma:"non nasci homini longe optimum esse, proximum autem, quam
primum mori ", scrive Cicerone, non nascere per l'uomo è di gran
lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto (Tusculane,
I, 48); e Seneca, nella Consolazione a Marzia ( cap.22) cerca
di confortare la madre orbata del figlio:"Itaque, si felicissimum est
non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum
restitui ", pertanto, se la condizione più fortunata è non
nascere, la seconda è, credo, tornare al più presto all'integrità
originaria.
Concludo con il cupio
dissolvi della Sibilla del Satiricon (48),
parole citate da Eliot come epigrafe ed emblema de La
Terra desolata (1922):"nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse
oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Sivbulla, tiv
qevlei"; , respondebat illa:" jApoqanei'n qevlw", infatti la Sibilla di sicuro a Cuma, io stesso con i miei occhi, vidi
sospesa in un 'ampolla, e dicendole i fanciulli:"Sibilla, cosa
vuoi?", rispondeva lei:"morire, voglio".
Non credo del resto che sia questa la quintessenza del messaggio dei
classici e nemmeno di Sofocle in particolare.
Euripide nell'Alcesti fa scattare la sapienza silenica dentro l'anima
di Admeto quando questo incongruamente sente la mancanza della moglie cui aveva
chiesto egli stesso di morire per lui:"zhlw' fqimevnou", keivnwn
e[ramai/ kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein"(vv.866 - 867), invidio i morti , quelli amo, quelle dimore desidero
abitare.
L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) è silenicamente manifestata anche
da Leopardi:" In altri
tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran
concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro.
Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né
potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei...Se mi fosse
proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da
ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi,
morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[1].
Nietzsche nella Nascita
della tragedia vede il "mondo apollineo della bellezza e il suo
substrato, la terribile saggezza del Sileno" rappresentati nella Trasfigurazione di
Raffaello.
L’apollineo è raffigurato nel Cristo che ascende in cielo, la sapienza
silenica dalla "parte inferiore (...) col fanciullo ossesso, gli uomini
disperati che lo reggono, i discepoli angosciati e irresoluti".
Cristo - Apollo è la "divinizzazione del principium
individuationis (...) egli ci mostra, con gesti solenni, come sia
necessario un intero mondo di tormenti perché, attraverso di essi, il singolo
sia spinto a generare la visione liberatrice (...) accanto alla necessità
estetica della bellezza, corre l'esigenza del:"Conosci te stesso", e
del:"Nulla di troppo!", mentre la presunzione di sé e l'intemperanza
venivano considerate come i dèmoni propriamente ostili della sfera non - apollinea,
cioè come qualità e prerogative dell'epoca pre - apollinea, dell'era dei Titani
e del mondo extra - apollineo, ovverosia del mondo barbaro" (capitolo 4).
“Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter
comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata
degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura,
la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del
grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la
maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio,
insomma la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale
perirono i malinconici Etruschi –fu dai Greci ogni volta superata, o comunque
nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli
dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima
necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo
così, che dall’originario ordinamento titanico del terrore fu sviluppato
attraverso quell’impulso apollineo della bellezza, in lenti passaggi,
l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose
spuntano da spinosi cespugli"[2].
"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso
l'unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della
società, della realtà, come abisso dell'oblio (…)un'estatica accettazione del
carattere totale della vita (…)la grande e panteistica partecipazione alla
gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e
problematiche della vita (…) Col termine apollineo si esprime: l'impulso verso
il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto
ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte…La pienezza della potenza e la
moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda,
aristocratica, ritrosa (…) Nel fondo del Greco c'è la mancanza di misura, la
caoticità, l'elemento asiatico: la prodezza del Greco consiste nella lotta con
il suo asiatismo: la bellezza non gli è donata, non più della logica, della
naturalezza dei costumi - esse sono conquistate, volute, strappate - sono la
sua vittoria"[3].
Su Apollineo e Dionisiaco sentiamo anche C. G. Jung: "Esaminiamo i
concetti di apollineo e dionisiaco nelle loro caratteristiche psicologiche…
Prendiamo in considerazione anzitutto il dionisiaco. Secondo la descrizione di
Nietzsche è chiaro che esso indica un espandersi, uno zampillare e uno
scaturire…E' una fiumana di sensazioni paniche di grande potenza che erompe
irresistibile e inebria i sensi come un vino gagliardo. E' ebbrezza nel
significato più elevato del termine…Si tratta quindi di una estroversione di
sentimenti indissolubilmente legata all'elemento sensoriale…Per contro,
l'apollineo è la percezione delle immagini interiori della bellezza, della
misura e di sentimenti armonicamente disciplinati. Il paragone con il sogno
chiarisce il carattere dello stato apollineo: è uno stato d'introspezione, di
contemplazione rivolta verso l'interno, verso il mondo di sogno delle idee
eterne, quindi uno stato d'introversione"[4].
Vediamo ora il rovesciamento della sapienza silenica
Odissea. Achille
nella Nevkuia dice al
figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io
preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un
uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su
tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488 - 491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con
impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a
Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[5], Od. XI, 489)"[6].
Già nel IX canto dell’Iliade Achille aveva detto che niente ha
lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude
la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e
pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de;
yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni
indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405 - 408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli
Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo
destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio,
dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro
introdotto da un grande poeta”[7].
Tuttavia Achille da morto ritrova questa preferenza assoluta per il
vivere rispetto all’essere morto.
Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore
de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti
non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno
dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un
esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec. (14
Ottobre 1828)”[8].
Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento:
“Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov.<proseguendo il cammino, “ dove posso
mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice
o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così
stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano,
la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio
di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene
preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere,
vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!...Che verità, Signore Iddio, che
verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama
vigliacco, “ aggiunse subito dopo”[9].
giovanni ghiselli, Bologna 20 aprile 2019
[5] infinito
atematico con desinenza - men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che significa "lavoro
come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes ,
non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare.
Il terribile per un thes era il fatto di non avere legami, di non
appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo , p. 39).
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