Arnold Böcklin, L'isola dei morti |
L’abbraccio e l’addio frustrati dalla spietatezza del mondo dei morti: Odisseo e la madre Anticlea; Orfeo e Euridice nella quarta Georgica; Enea e la moglie Creusa; Enea e il padre Anchise nell’Eneide; Orfeo e la delicatezza di Euridice nelle Metamorfosi di Ovidio. Dante e Casella.
Topos gestuale dei morti, o riservato ai morti, è
l’abbraccio e l’addio frustrati dalla spietatezza del mondo infero: Odisseo
racconta che si lanciò tre volte (tri;~ me;n ejformhvqhn), spinto dallo qumov~, ad abbracciare la madre evocata dall’Ade, ma
ella, skih'/ ei[kelon h] kai; ojneivrw/ - e[ptat j (Odissea,
11, 206 - 208) simile all’ombra o anche al sogno, volò via. Tuttavia Anticlea ha la
possibilità di rispondere al figlio desolato che la invoca, di salutarlo e
benedirlo.
Più spietato è il mondo dei morti[1] che
rinchiude Euridice: ella non può rispondere nemmeno con le parole al vano
tentativo compiuto da Orfeo di abbracciarla: “Dixit et ex oculis subito, ceu
fumus in auras/commixtus tenuis , fugit diversa neque illum/prensantem
nequiquam umbras et multa volentem/dicere praeterea vidit; nec portitor
Orci/amplius obiectam passus transire paludem” (Georgica IV,
499 - 503), disse, e dagli occhi all’improvviso, come fumo confuso in arie
impalpabili, fuggì all’indietro né vide lui che cercava di afferrare invano gli
aspetti dell’ombra e molte parole ancora voleva dire; né il traghettatore
dell’Orco permise che attraversasse più l’interposta palude.
Il topos dell’abbraccio negato si ripresenta nell’Eneide,
due volte. La prima si trova alla fine del secondo canto che racconta la caduta
di Troia. Il mesto fantasma, l’ombra della donna Creusa ( infelix
simulacrum atque ipsius umbra Creūsae, II, 772) sparita, appare a Enea che
la cercava, e lo invita a partire, seguendo il suo destino di successi con una
nuova sposa, regale. Lei, la madre di Ascanio, rimarrà sulle coste troiane
trattenuta da Cibele, la magna deum genetrix (v. 788). Ebbene,
dette queste parole la donna sparì: “haec ubi dicta dedit, lacrimantem et
multa volentem/dicere deseruit tenuisque recessit in auras.” (II, 790 - 791).
Come ebbe detto queste parole, mi lasciò che piangevo e volevo dire molte
parole, e scomparve nelle arie impalpabili. Allora Enea fece il tentativo
topicamente vano: “Ter conatus ibi collo dare bracchia circum;/ter frustra
comprensa manus effugit imago,/par levibus ventis volucrique simillima somno”.
(vv. 792 - 794), tre volte tentai allora di stringerle al collo le braccia; tre
volte l’immagine invano afferrata sfuggì alle mani, uguale ai venti leggeri e
del tutto simile al sogno fugace.
Gli stessi versi sono ripetuti nel sesto canto (v. 700
- 702), a proposito dell’abbraccio di Anchise, invano desiderato e richiesto
tra le lacrime: ‘Da iungere dextram,/ da, genitor, teque amplexu ne subtrahe
nostro’. Sic memorans largo fletu simul ora rigabat” (Eneide, 6, vv.
697 - 699), dammi la destra da stringere, dammela, padre, e non sottrarti al
nostro abbraccio. Così dicendo, nello stesso tempo rigava il volto con pianto
copioso.
Poi ci sono l’Orfeo e l’Euridice delle Metamorfosi di
Ovidio. In questo poema il cantore trace volse indietro lo sguardo innamorato,
per brama di vederla e per paura che lei si perdesse (ne deficeret metuens avidusque
videndi 10, 53) nel sentiero che avevano preso in salita, in silenzi
privi di parola, scosceso, oscuro, denso di nebbia fitta (“Carpitur adclivis
per muta silentia trames/arduus, obscurus, caligine densus opaca”,
vv. 53 - 54).
Leggiamo i versi che descrivono la situaziono topica,
ma vengono rinnovati dalla delicatezza di Euridice la quale non si lamenta
poiché un’amante non può lamentarsi di essere amata: “flexit amans oculos:
et protinus illa relapsa est/bracchiaque intendens prendique et prendere
certans/nil nisi cedentes infelix adripit auras./Iamque iterum
moriens non est de coniuge quicquam/questa suo (quid enim nisi se quereretur
amatam?)/supremumque “vale”, quod iam vix auribus ille/acciperet, dixit
revolutaque rursus eodem est” (X, vv. 56 - 63), girò indietro gli occhi
l’amante: e subito lei cadde, e sebbene lui tendesse le braccia lottando per
essere preso e prendere, nulla afferrò l’infelice se non soffi fugaci. E lei
mentre già moriva per la seconda volta non emise un lamento sul coniuge suo[2] (di
che cosa infatti si sarebbe lamentata se non di essere amata?) e gli disse
l’ultimo “addio” che oramai quello appena prendeva nelle orecchie, poi cadde di
nuovo nel luogo di prima.
Torneremo sulla delicatezza di Ovidio in un capitolo
successivo (62).
Infine Dante che tenta di abbracciare Casella sulla
spiaggia del Purgatorio: “Ohi ombre vane, fuor che nell’aspetto!/Tre volte
dietro a lei le mani avvinsi,/e tante mi tornai con esse al petto” (Purgatorio,
II, 79 - 81).
[1] Sentiamo
qualche testimonianza sulla spietatezza attribuita ai morti e la spiegazione
che ne dà Freud. Sempre nella Georgica IV, Orfeo, preso da
improvvisa pazzia (subita… dementia , v. 488) si era voltato per
guardarla, rompendo i patti del crudele tiranno (immitis rupta
tyranni/foedera, vv. 492 - 493), ossia di Plutone. Ebbene tale dementia sarebbe
stata da perdonare se i Mani sapessero perdonare: “ignoscenda quidem,
scirent si ignoscere Manes” (v. 489). Nell’Edipo re i morti non
ricevono e non sentono compassione: “"E la città muore senza tenere più conto di
questi/e progenie prive di pietà giacciono a terra portatrici di morte senza
compassione" (vv.179 - 181). Probabilmente i morti ci danno sensi di
colpa. Nell’Eneide Ilioneo, scampato al naufragio, chiedendo la
compassione di Didone, che la concederà, le dice di essere uno dei compagni di
Enea, re giusto e valoroso, e di non sapere se l’eroe troiano si nutra ancora
del soffio dell’etere o se sia giaccia crudelibus…umbris (I,
547), tra gli spettri crudeli.
Come si
spiega questa spietatezza attribuita ai morti? Lo chiarisce Freud in
un capitolo di Totem e tabù (del 1913) intitolato “Il tabù dei
morti”. L’autore ricorda alcuni studiosi unanimi nell’attribuire ai selvaggi la
credenza dell’ostilità dei morti: “La premessa che sta alla base di questa
teoria, è che il membro della famiglia che si è amato, al momento stesso della
morte, si trasforma in un demone dal quale i congiunti che gli sono sopravvissuti
non possono aspettarsi altro che ostilità e dai cui intenti malvagi devono in
tutti i modi guardarsi. Tale concetto è così singolare e sconcertante, che da
principio si è portati a non prestarvi fede. Tuttavia quasi tutti i più
eminenti studiosi sono unanimi nell’attribuire ai selvaggi questa credenza” (Totem
e tabù, p. 87). Riferisco solo uno degli studiosi citati da Freud:
“Supporre che i defunti più cari si trasformino dopo la morte in demoni pone
ovviamente un ulteriore interrogativo. Quali furono le ragioni che indussero i
popoli primitivi ad attribuire ai loro morti più cari un così profondo
mutamento di sentimenti? Perché li trasformano in demoni? Westermarck ritiene
che la risposta a tali domande sia facile :“Poiché nella maggior parte dei casi
la morte è considerata come il peggiore dei mali, si pensa che i trapassati
debbano essere profondamente infelici per la sorte che è loro toccata. Secondo
la concezione dei popoli primitivi, la morte è sempre violenta, sia per mano
altrui, sia ottenuta per magia, e già questo basta a far immaginare l’anima del
trapassato come carica di rabbia e desiderosa di vendetta. Presumibilmente essa
invidia coloro che sono ancora in vita e ha grande nostalgia della compagnia
dei suoi cari di un tempo - è quindi comprensibile ch’essa miri a ucciderli con
le malattie, per potersi riunire a loro…Un’ulteriore spiegazione della
malvagità che si attribuisce alle anime dei morti la si deve ricercare nella
istintiva paura che essi ispirano, la quale è a sua volta il risultato
dell’angoscia che si prova di fronte alla morte” (E. Westerrmarck, The Origin and Development of the Moral Ideas,
p. 426. ). Quindi
Freud torna a scrivere in prima persona: “Quando la morte strappa il marito a
una donna, o la madre a una figlia, non di rado accade che la persona
sopravvissuta sia sopraffatta da dubbi tormentosi, che noi usiamo chiamare
“rimproveri ossessivi”, e si domandi se non sia colpevole, per negligenza o
imprudenza, della morte della persona cara…L’esame psicoanalitico dei casi ci
ha insegnato a scoprire le molle segrete di questa sofferenza. Abbiamo potuto
constatare che i rimproveri ossessivi sono, in certa misura, giustificati e
soltanto perciò resistono a tutte le obiezioni e le confutazioni. Ciò non
significa ovviamente che la persona in lutto sia realmente colpevole della
morte della persona cara o davvero abbia commesso quelle negligenze o
trascuratezze, come il rimprovero ossessivo afferma: vi era comunque in lei
qualcosa, un desiderio inconscio che non si opponeva a quella morte…Tale
ostilità, presente nell’inconscio, ma celata dietro un caldo sentimento di
amore, si trova in quasi tutti i casi di intenso legame affettivo con una
determinata persona, e rappresenta il caso classico, il modello
dell’ambivalenza delle emozioni dell’uomo…Il processo si chiude per mezzo di un
particolare meccanismo che in psicoanalisi si usa chiamare proiezione.
L’ostilità…viene proiettata sul mondo esterno, quindi staccata dalla propria
persona per essere attribuita all’altra. Non siamo più noi, i vivi, a essere
contenti di esserci sbarazzati del defunto; no, al contrario, noi piangiamo la
sua perdita, ma il defunto è intanto stranamente diventato un demone cattivo
che gioirebbe della nostra infelicità e che è pronto a portarci la morte. I supersiti
devono quindi difendersi da questo nemico malvagio; in questo modo si sono
liberati da un’oppressione interiore, soltanto per scambiarla con un’angoscia
che viene dall’esterno”(Totem e tabù, pp. 90 - 91 e p. 94).
[2] Si pensi
alla moglie della satira sesta di Giovenale: quando si trova sulla nave dove
l’ha fatta salire il marito, gli vomita addosso, se invece segue l’amante, sta
bene di stomaco, pranza in mezzo ai marinai, passeggia per la poppa e gode nel
maneggiare le dure funi: “quae moechum sequitur, stomacho valet; illa
maritum/convomit; haec inter nautas et prandet et errat/per puppem et duros
gaudet tractare rudentis” (vv. 100 - 102)
Ciao scemo
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