martedì 27 agosto 2019

Epicuro contro il consumismo. VIII parte

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I falsi bisogni indotti dalla pubblicità sono spesso contraddittori tra loro e contraddicono la vita.

La pubblicità recupera e utilizza tutto: non solo il metodo di Aconzio, personaggio degli Aitia di Callimaco[1], ma anche le parole di Pindaro[2]: c’è una réclame di magliette che traduce in francese la somma del pensiero educativo del vate tebano: gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II v. 72), diventa quello che sei. Chi vuole vendere deve farci credere che siamo nati per comprare.
La pubblicità dunque va smontata, come vanno smascherati i personaggi che ne usano il linguaggio. Il peggio dell’umanità. 
Don Milani scrive: "la pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non necessarie sono necessarie"[3].
"Il sistema migliore per rendere inoffensivi i poveri è insegnare loro a imitare i ricchi"[4].
Nell'Atene dominata dal demagogo guerrafondaio Cleone, Diceopoli, il cittadino giusto compiange Atene perché gli abitanti non si curano della pace (Aristofane, Acarnesi, v. 27), mentre lui ama la pace e rimpiange il suo villaggio dove ciascuno produceva il necessario per sé, mentre nella povli" è onnipresente l'invito a comprare:"privw"[5], che si tratti di carbone, di aceto o di olio ( vv. 34 - 36).
Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich in L'uomo senza qualità: "Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa" (p. 800). Qualche anno fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente, dove infatti sono ambientati alcuni suoi film, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare.
Non bisogna dimenticare quanto afferma il Pericle di Tucidide:" non sono le cose che acquistano gli uomini ma gli uomini le cose:"ouj ga;r tavde tou;" a[ndra", ajll j oiJ a[ndre" tau'ta ktw'ntai"( Storie, I, 143, 5).
E' questa un’affermazione di umanesimo che potrebbe essere impiegata come dichiarazione anticonsumistica contro gli astuti consiglieri di acquisti che in realtà spingono gli uomini a vendersi come merce per acquistare altra merce.
I peggiori sono arrivati perfino a uccidere addirittura il padre e la madre per acquistare un paio di scarpe o un telefonino che fornisca un’identità accettata da altri simili a loro.
Tante cose vendute e comprate dovrebbero perdere ogni valore ai nostri occhi, dato il loro infinito proliferare.
“ Mi auguro che gli uomini ritrovino un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato, gettato con incredibile leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si accumulano da tutte le parti (…) Abbiamo smarrito la sensazione di come è fatta una cosa: del suo peso, del suo spessore, dei suoi colori, delle sue ombre, e del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo più. Non possiamo amarle, visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili”[6].
Insomma la pubblicità e il consumismo sono icone divine da adorare per gli idolatri e bersagli polemici per l'educatore.

Nei classici sono presenti problematiche e situazioni eterne, e la cultura greco - latina che diviene un potenziamento della fuvsi", ci aiuta a comprenderle. Cicerone nei Paradoxa Stoicorum[7] aveva scritto sinteticamente:"non esse emacem vectigal est" (VI, 51) non essere consumisti è una rendita.
 Cornelio Nepote, elogiando Tito Pomponio Attico, scrive: “ cum esset pecuniosus, nemo illo minus fuit emax, minus aedificator” (De viris illustribusAtticus, 13), pur essendo ricco, nessuno ebbe meno di lui la smania di comprare, né quella di fabbricare.
“Più ricco è in terra chi meno desidera” “Meglio contentarsi che lamentarsi”[8].
Seneca mette tra i precetti che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione (probatio) questa sentenza di Catone il Censore: “emas non quod opus est, sed quod necesse est; quod non opus est asse carum est[9], compra non quello che occorre, ma quello che è necessario; quello che non occorre, è caro anche se costa un soldo.

Cleante stoico a un tale che gli chiese come potrebbe uno essere ricco, rispose se è povero di desideri (eij tw`n ejpiqumiw`n ei[h pevnh~ (Stobeo, Flori. 95, 28 Mein.)
Sentiamo Marziale: “reges et dominos habere debet/qui se non habet atque concupiscit/quod reges dominique concupiscunt” (II, 68), deve avere re e padroni chi non è padrone di sé e brama quello che re e padroni bramano.

Quindi Leopardi: “il capro nuoce anzi distrugge la vigna; così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da frutto se vi si lasciano appressare…. Insommma i bisogni che l’uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali ed universali, e propri anche della gente più volgare e men guasta, si contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell’uomo non dev’essere solo di procacciare il necessario a questi bisogni, con infiniti ostacoli, ma nel provvedere all’uno, guardare assai, perché quella provvisione nuoce ad un altro bisogno. E pure è certo che più facilmente potremo annoverare le arene del mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all’uso sì dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec.”[10].

La gente comincia a capire quanto il “bisogno” dell’automobile sia in contraddizione con tanti aspetti e bisogni reali della vita umana, se non addirittura della vita del pianeta.
“Nei decenni del dopoguerra la macchina ci ha permesso di spostarci da soli e di scoprire nuovi paesaggi. Grazie ad essa, il nostro spazio è diventato infinitamente più vasto. L’automobile certificava il nostro ingresso nella modernità, alla quale dovevamo questa mobilità più libera. Ma oltre a essere un simbolo di libertà, essa è diventata anche un’espressione della nostra identità. Non a caso, in quegli anni si insisteva molto sulla personalizzazione che aggiungeva un’impronta individuale a veicoli prodotti in serie. Nei confronti dell’automobile si creava una relazione molto affettiva, anche perché in quell’epoca un tale acquisto era sempre un avvenimento molto importante. (…) Tutto ciò oggi sta progressivamente svanendo. L’auto è vittima del suo stesso successo. Simbolo di una massificazione consumistica che ha fagocitato tutta la società, ha perso la sua poesia. E’ diventata un oggetto prosaico, un mezzo di trasporto per andare al lavoro lontano da casa, un universo angusto nella quale ci ritroviamo prigionieri, immobilizzati nel traffico. In coda in autostrada, è difficile coninuare a pensare l’auto come strumento di piacere o un mezzo di libertà (…) Di conseguenza, l’attuale crisi dell’auto diventa la metafora dell’insuccesso, se non proprio della società dei consumi, almeno di un certo sogno di equilibrio sociale, dove i beni di consumo dovevano essere a disposizione di tutti”[11].
La macchina non è un bene, non lo è più, anzi è diventato un male. Nella stessa pagina del quotidiano citato sopra è riportata una frase di Anthony Giddens: “La macchina è diventata controproducente, spesso la circolazione è ridotta all’immobilità” (L’Europa nell’era globale, 2007). 

I produttori vogliono che la gente compri le cose necessarie e pure le non necessarie, anche se ha pochi soldi. Sto seguendo un corso di lingua anglo americana: trascrivo qui quanto leggo in un esercizio assegnatomi a casa sulla pubblicità (advertising). “ In other words (…) The methods they use to persuade us to buy. One of the most effective techniques is to manipulate, or control, our emotions. Advertiser call this an emotional appeal”, in altre parole (…) il metodo che essi usano per persuaderci a comprare. Una delle tecniche più efficaci sta nel manipolare o controllare le nostre emozioni. Il pubblicitario chiama questo un richiamo emozionale. 

“Occorre ricordare che i consumatori sono spinti dal bisogno di “mercificare” se stessi - di rifarsi per essere prodotti attraenti - e sono quindi sollecitati a usare stratagemmi, espedienti e prassi di marketing collaudate (…) In una società di consumatori –un mondo che valuta tutti e tutto in base al valore di mercato - la sottoclasse è composta da chi è senza valore: uomini e donne non mercificati, il cui insuccesso nel conquistarsi lo status di merce coincide con il (anzi, deriva dal) loro insuccesso nell’impegnarsi in una vera e propria attività di consumo. Sono consumatori falliti, simboli ambulanti dei disastri che attendono i consumatori perduti, del destino ultimo di chiunque non riesca a dare buona prova nell’assolvere ai doveri di consumatore ”[12].

Il potere del mercato: “Quando un ministro degli Interni dichiara, ad esempio, che la nuova politica di immigrazione punterà a far entrare in Gran Bretagna un numero maggiore di individui “di cui il paese ha bisogno” e a lasciar fuori coloro “di cui il paese non ha alcun bisogno” , egli implicitamente dà al mercato il diritto di definire i “bisogni del paese” e di decidere di cosa (o di chi) esso abbia o non abbia bisogno”[13].
Concludo citando Marx: “la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose”[14].


 Pesaro 27 agosto 2019


[1] 305 ca - 240 ca a. C
[2] 518 - 438 a. C.
[3]Lettera a una professoressa , nota 56 di p. 69.
[4] Carlos Ruiz Zafòn, L'ombra del vento, p. 187.
[5] Imperativo dell'aoristo III di privamai, "compro".
[6] Pietro Citati, “la Repubblica”, 3 dicembre 2008, Addio consumismo, riscopriamo le cose, p. 35.
[7] Del 46 a. C.
[8] G. Verga, I Malavoglia (del 1881), p. 203.
[9] Ep. 94, 27.
[10] Leopardi, Zibaldone, 2338.
[11] Marc Augé, “la Repubblica”, 18 novembre 2008, p. 47.
[12] Z. Bauman, Consumo, dunque sono, p. 139 e p. 154.
[13] Z. Bauman, Consumo, dunque sono, p. 84
[14] K. Marx, Manoscritti economico - filosofici del 1844, trad. it. Einaudi, Torino 1968, p. 13

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