Ho visto a Pesaro la Semiramide di
Rossini (1823), libretto di Gaetano Rossi, rifacimento della tragedia di
Voltaire Sèmiramis del 1748 tradotta nel 1799 da Malchiorre
Cesarotti.
Francamente non mi è piaciuta
quanto altri melodrammi dello stesso autore pesarese ascoltati e visti qui a
Pesaro. La musica è indubbiamente bella sebbene non tra le più vivaci del
Maestro. La scenografia è pretenziosa e dal significato non chiaro, il che a
parer mio è un grave difetto. I costumi sono ibridi, messi insieme, mi pare, a
casaccio. Nemmeno la regia è pregevole.
Brave il contralto e il
soprano: Salome Hcia (Semiramide) Varduhi Abrahamyan ( Arsace). Gli
altri interpreti meno.
Non mancano lungaggini stancanti in
questa opera che si estende per più di 4 ore. Da antichista e comparatista ho
notato dei nessi con l’Orestea di Eschilo, l’Edipo re di
Sofocle e l’Amleto di Shakespeare.
C’è un bambino, il figlio del re
Nino e di sua moglie Semiramide sottratto alle cattive intenzioni di Assur il
drudo della regina. I due amanti hanno avvelenato il re, e Ninia, il
figlio infante dei sovrani, è stato salvato da Fradate fedele a Nino che l’ha
allevato come figlio suo chiamandolo Arsace. Il bambino, come è capitato a
diversi infanti del mito scampati alla morte, diventa un
eroe, nel suo caso coandando l’esercito, e viene convocato dalla
propria madre, la stessa Semiramide che senza conoscerne la vera identità, lo
vuole a Babilonia per farne il suo sposo e successore. Ma un oracolo richiesto
da Oroe, capo dei Magi, e uno scritto del re morente presentato dallo stesso
sommo sacerdote svela quanto è latente.
Oroe dunque
scopre gli arcana dicendo ad Arsace la verità: che
Nino era suo padre : “Fradate ti salvò”.
E come il giovane condottiero esclama
“Semiramide!” il potente Mago dice:
Fremi!-Ella è tua madre empia!”
Il principe è risentito ma il
sacerdote gli porge la lettera con la quale Nino affidava il figlio al fedel
Fradate e accusava la complicità con Assur della “perfida sposa”.
Arsace dunque arriva al
riconoscimento di se stesso quale Ninia e del suo vero padre, il re assassinato
che poi appare come spettro e chiede vendetta. A questo punto scoppia il grido
di Tutti: “Ah! Sconvolta nell’ordine eterno è natura in sì orribile pianto”
Non può non venire in mente quanto
dice Manto, la figlia di Tiresia nell’Oedipus di Seneca
:"Mutatus
ordo est, sed nil propria iacet;/ sed acta retro cuncta " (vv. 366-367), è mutato l'ordine
naturale e nulla si trova al suo posto; ma tutto è invertito.
Arsace
dunque dovrebbe uccidere il ganzo di Semiramide e pure la stessa regina che poi
è la propria madre e voleva fare di lui il suo successore e il suo sposo.
Il
giovane principe babilonese dunque corre il rischio di assumere l’’identità di
Edipo ammogliato con la propria madre Giocasta, e anche quella di Oreste,
l’assassino della propria madre Clitennestra.
Ma
non bisogna dimenticare Amleto. Intanto per via dello spettro del padre.
Ma
cè un momento di analogia più particolareggiata.
Quando
“tutto è palese ormai”, Semiramide stessa incoraggio il figlio a ucciderla:
“ebbene
a te: ferisci.
Compi
il voler d’un Dio,
spegni
nel sangue mio
un
esecrato amor:
la
madre rea punisci:
vendica
il genitor.
Ma
il figlio non se la sente di ammazzare la mamma e le risponde:
“Tutto
su me gli dei
Sfoghino
in pria lo sdegno
Mai
barbaro a tal segno
Sarà
d’un figlio il cor.
In
odio al Ciel tu sei…
Ma
sei mia madre ognor”
Qui
mi è venuto in mente Amleto che
menziona il matricida Nerone come esempio da evitare: “O heart, lose not thy
nature; let not ever/the soul of Nero enter this firm bosom;/ let
me be cruel, not innatural:/I will speak daggers to her, but use none” (III, 2), o cuore, non perdere
la tua natura; non lasciare che l’anima di Nerone entri mai in questo petto risoluto;
lascia che io sia crudele, ma non snaturato: le mie parole saranno dirette a
lei come pugnali, ma ne userò nessuno.
Semiramide
che già amava Arsace come uomo ora lo ama quale figlio:
”Piangi?
La
tua bell’anima
Ha
ancor di me pietà”.
I
due si abbracciano e cantano insieme:
Giorno
d’orrore…
E
di contento!
Nelle
tue braccia
In
tal momento,
scorda
il mio core
tutto
il rigore
di
sua terribile
fatalità
E’
dolce al misero
Che
oppresso geme
Il
duol dividere
Piangere
insieme
Il
cor sensibile trovar pietà”.
Questo
abbraccio mi ricorda una delle ultime scene delle Fenicie di
Euripide quando i due fratelli che si sono feriti a morte a
vicenda, trovano una consolazione in punto di morte. La madre va a piangere su
di loro; Eteocle la ode e, non potendo più parlare, significa affetto con gli
occhi (1441). Polinice invece parla e dice che prova pena per la madre e la
sorella Antigone e che ha ritrovato l’affetto per il fratello: “fivloς ga;r
ejcqro;ς ejgenet j, ajll j o{mwς fivloς ” (1446). Chiede
poi alla sorella di seppellirlo nella sua terra. L’affetto dunque aiuta i
disgraziati già quasi disperati.
Nella conclusione della Semiramide il
figlio è ancora determinato a non colpire la madre, un delitto che avrà pure
una dignità mitologica come asseriva Proust ma è pur sempre un delitto, anzi un
crimine dei più orrendi.
“Ah! Il solo Assur! Oh padre…
Sì a pie’ della tua tomba
A te immolerò”
Oroe il (secondo me) sinistro capo
dei Magi da dietro la tomba grida:
“Ninia ferisci!”
Allora il giovane vibra un colpo e
nel buio del sepolcro colpisce Semiramde credendola Assur il quale gioisce
vedendo l’orribile sgomento del matricida che grida:
“Mia madre! ed io! Che orror! Ed io
potei!”
Quindi chiede la spada per
uccidersi
“Ah! Dov’è quell’acciaro?
Rendilo al mio furore:
odiosa, funesta
è a me la vita omai…
Cerca di ferirsi ma lo trattiene
Oroe fra le cui braccia si abbandona svenuto
Il coro chiude l’opera
incoraggiando il nuovo re:
“Vieni Arsace , al trionfo, alla
reggia
Del dolore all’accesso resisti,
tu de’ numi al volere servisti;
lieta omai fia l’Assiria con te.
Vieni, il popolo esulta, festeggia,
vegga adori il novello suo re”
Non c’è una parola di biasimo verso
il volere di numi che hanno richiesto l’orrore del matricidio. Oreste,
soprattutto quello di Euripide, non manca di criticare il dio Apollo
che l’ha spinto ad ammazzare Clitennestra.
Questo della tragedia Oreste (del
408) non ha avuto bisogno che si aprisse un buco nel cielo di carta del
teatrino per diventare Amleto.
giovanni ghiselli
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