Poco prima delle 17 ero di nuovo alla stazione di Trento. La attendevo, posto che fosse arrivata, con un sorriso non privo di spregio.
Questa volta arrivò, bella e guardata dagli uomini, come al solito. “Però, non è il mio tipo pensai”. Bella assai ma poco fine. Helena, Kaisa e Päivi erano altre persone, altri gevnh, razze spirituali diverse: studiose, educate, capaci di amare, di parlare e di stare zitte: amorem amoenitatemque exercentes [1].
Si scusò dell’errore grossolano: il treno per venire da me partiva dalla stazione occidentale mentre lei lo aspettava in quella centrale.
Avevo imparato da Freud che gli atti mancati non sono mai casuali. Ne ero convinto perché l’avevo verificato vivendo. Probabilmente colei voleva andare da tutt’altra parte. Incosciamente si dice, e di fatto il suo Io veniva spesso invaso dall’Es. Né era propensa a bonificare il pantano dell’inconscio, a estendervi la parte cosciente poiché era convinta che l’attore bravo deve assecondare l’istinto.
Di questo però non facemmo parola quel giorno. Dissi invece che avevo impiegato benissimo il tempo dell’attesa andando a fare un’altra sciata a Fai della Paganella dove iniziano piste meravigliose che giungono fino ad Andalo. Ifigenia raccontò che aveva parlato con Lucia denominata “la fedelissima”, non sapevo a chi né glielo domandai. Provai comunque un’allegrezza scellerata pensando che quelle due, una già avvelenata dalla voglia di successo, l’altra ancora da scoprire, solidarizzavano sotto l’immagine della mia persona, celebrata in qualche modo da entrambe.
Di fatto nessuna delle due studiava sul serio e volevano fruire dei miei lavori sudati sui libri, fino a quando sarebbe servito.
Ifigenia poi disse che a Verona era salito sul treno un uomo distinto e l’aveva corteggiata fino a chiederle l’indirizzo: invano. Non feci alcun commento e pensai: “Troppo tardi, ojyev, come dice Dioniso a Cadmo[2], quando occorreva non volevi sapere di riservatezza e rispetto”.
Ci fermammo sul lago di Garda. Non c’era un filo di vento e il Benaco non sorgeva con flutti e fremito marino come favoleggia Virgilio[3].
Non era tempo di favole: fremevo di sdegno e disgusto piuttosto.
La sua faccia era ottusa e inespressiva.
Tornammo a Bologna per tentare un contatto carnale. Come fummo nel letto però, non riuscivo nemmeno a desiderarla con forza. Quella sera lontana, nel talamo grande dove avevamo gridato di piacere e di gioia, nel giaciglio martire cui una volta si era spezzata una gamba incapace di reggeri nostri tripudi sacri e festosi, la sera del primo marzo, dopo una settimana di astinenza, facemmo l’amore una volta sola senza fatica, mentre la seconda avvenne con stento e con sforzo. Dovetti pensare ad altro. Non eravamo arrivati nemmeno alla sufficienza. Spensi la luce. Mi girai verso il muro. Poi lo toccai con un dito. Ifigenia piangeva.
Bologna 20 giugno 2024 ore 10, 54 giovanni ghiselli
p. s.
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