Ifigenia CCVII. La prova di coraggio del bambino nel bosco
Con il calare del buio che toglieva i colori alle cose la pena recrudescente non veniva domata da pensieri lieti che pure avrei potuto nutrire nell'anima partendo dai fatti.
A Moena potevo riposarmi per diversi giorni deliziandomi nel notare la crescita dell'altezza del sole e dei minuti di luce; a Bologna mi aspettava pur sempre un'amante bella e giovane, un lavoro che mi motivava, e una collega che mi piaceva. Ma l'angoscia mi impediva di goderne. Non riuscivo a pensare con ottimismo. Un intermittente acciecamento mentale non mi lasciava la perspicacia necessaria per capire il bene.
Mi fasciava gli occhi uno straccio che mortificava la santa natura.
Le rupi non più toccate dal sole, caduto del tutto, avevano cambiato aspetto: grigie com'erano, aguzze in cima e corrose nei lati parevano denti cariati; le piccole alture tonde e spelacchiate sembravano gobbe di vecchie megere o crani battuti da crudeli randelli, l'erba dei prati fangosa e giallastra era il crine di una cartomante tosata dopo che aveva previsto sciagure. La punizione doveva significare che aveva letto solo la propria sciagura. La notte mi deformava ogni cosa. Il senso di colpa mi segnalava ogni aspetto triste. Ifigenia aveva ancora bisogno del mio appoggio ma io non mi sentivo di essere la colonna in grado di darglielo. Per giunta stavo alimentando una passione sciagurata diretta a un'altra donna che mi adulava per il poprio utile. Andai all'albergo La Campagnola dove avevo prenotato una stanza. Si trova sulla strada del passo San Pellegrino. Dalla finestra vedevo la valle di Fassa con le luci già accese: sembravano tanti lumini cimiteriali. Mi lavai, abbozzai alcune battute del secondo atto del dramma, traendone qualche conforto, poi cenai. Quindi uscìi per fare una passeggiata nottuna. Scesi nel paese, passai sul ponte sopra l'Avisio, quindi iniziai l'ascesa dell' opposto pendio, l'occidentale, dove si trovano disseminate via via la chiesa, il cimitero, le case della frazione di Sorte, e dopo un chilometro la Malga Panna. Di lì inizia il grande bosco che arriva fino al passo di Costalunga e al lago Carezza dove si specchia la mole turrita del Latemar. Un percorso che mi era noto fin da bambino.
Sfuggito alle zie, arrivavo da solo al limite della selva che mi faceva paura: la trovavo inquietante per la varietà delle luci e dei colori: ombre giganti si alternavano a chiazze di luce che potevano coprirsi o scoprirsi secondo i capricci del vento. Pensavo alle donne irrequiete di casa mia. Quindi mi veniva in mente che a loro tenevo testa, e mi azzardavo a muovere alcuni passi nel bosco. Sul margine coglievo alcuni lamponi e li mettevo in bocca: succosi erano sotto la vellutata secchezza. Più avanti vedevo dei funghi ma questi non osavo assaggiarli: mi avevano avvertito che potevo morirne. Non procedevo subito: immaginavo la cupa foresta brulicante di fastidiose formiche punzecchiatrici, con gli alberi attraversati da lesti, graziosi scoliattoli, i sentieri insidiati da serpi, da lupi affamati, da orsi ghiotti, bestie in cerca di cibo. Poi però prendevo coraggio osservando gli uccelli: questi erano liberi e volevo esserlo anch'io. Per questo dovevo disobbedire alle zie imperiose e rischiare. Mi addentravo tra le ombre fitte, rabbrividendo, eppure dicendomi che non dovevo cedere. Mettermi alla prova dovevo e vincere la paura. Quando giungevo a una radura, mi fermavo un momento per salutare il sole, poi tornavo indietro, di corsa, graffiandomi con i rovi irti o con i rami penduli, con i trochi scagliosi; ferendomi se cadevo sui sassi. Fuggivo immaginando di essere inseguito da chissà quale mostro.
Quando sbucavo fuori da quell'intrico periglioso gridavo: " Ce l'ho fatta!"
Avrei ripetuto azzardi siffatti nei
campi vitali dell'amore e del lavoro diverse volte in vita mia. Fino a oggi me la sono cavata.
Bologna 18 giugno 2024 ore 11, 55 giovanni ghiselli
p. s.
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