La fiducia era caduta nel fango delle menzogne che Ifigenia mi aveva sciorinato al telefono più di una volta durante quel mese vissuto tanto male.
Pensavo che sarebbe presto scemato anche il fervore erotico che da novembre a metà luglio ci aveva saldati insieme come due parti di uno stesso organismo. Decine e decine di volte ogni mese. Ifigenia teneva il conti dei mille basia deinde centum, dein mille altera, dein secunda cetum: roba da Guiness dei primati diceva, non senza fierezza.
La messe così abbondante non era frutto soltanto dell’attrazione fisica ma anche della simpatia reciproca tenuta viva dalla volontà e capacità di gioire e soffrire per le medesime cose. Ebbene, se come probabile, l’avevamo perduta, non avremmo più raccolto tanti sapidi frutti ma spighe ammuffite piene di noia, di amarezza, forse pure di lacrime. Mi chiedevo fino a quando la bellezza di lei avrebbe stimolato il mio interesse se i suoi significati si riducevano a poca cosa, se la sua luce si affievoliva e spengeva.
Del resto anche io, se non ricevevo altre energiche spinte verso nuove esperienze e letture, avrei dovuto iterare il racconto di quelle passate in una ripetizione maniacale, tediosa, da uomo già sulla via del tramonto, insoddisfatto e frustrato, certo non l’ideale per una giovane donna.
La diffidenza che si era insediata tra noi avrebbe reso viete le conoscenze fatte nel buon tempo della nostra sintonia; per giunta i miei amici storici non le piacevano e preferiva non frequentarli.
Sicchè, se volevo raccontarle qualche cosa di nuovo dovevo leggere in continuazione, acciecandomi e imbolsendomi nell’isolamento del mio studio, isolato e chiuso come in una prigione.
D’altra parte i compiti eventuali che Ifigenia mi avesse assegnato, non avrei potuto farli con l’ entusiasmo dei mesi passati insieme, dato che colei aveva perduto o almeno smarrito il forte ascendente che aveva avuto su di me nel tempo dei tripudi
Ero stanco di rimuginare. Era suonato il tocco. Sicché attraversai il ponte Elisabetta e andai a desinare al Karpatia. Mangiai un piatto di carne, poi mi diedi a camminare per Pest. L’estate morente cadeva dal cielo basso, oppressivo, piovigginoso, scivolava lungo i muri opachi, quindi finiva capestata sui marciapiedi e nelle vie dove la nera polvere impastata con le gocce rade ma grosse, diventava fango e lordura.
Provavo un’angosciosa stanchezza e un senso di nausea morale.
Pesaro 28 settembre 2024 ore 9, 37 giovanni ghiselli
p. s.
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